Nonostante l’era dell’informatizzazione abbia completamente rivoluzionato e stravolto le strutture antropologiche della nostra società, si sente ancora forte l’urgenza di imbastire un dialogo col mondo che passi, prima di tutto, attraverso la parola scritta. Più nello specifico, l’essere umano del tardo Antropocene conserva quell’impulso primordiale alla ricerca di spazi interstiziali dove aprirsi liberamente a confessioni e riflessioni; detto con Giudici, cerca la vita nei versi. E infatti, benché ogni anno finisca in ultima posizione nelle classifiche di vendita e nelle librerie occupi pochi e miseri scaffali, la poesia – la più antica forma di letteratura occidentale – continua a perdurare infrangibile. Non solo poi ancora oggi si scrive e si legge poesia, ma addirittura si comprano i libri di poesia. Anni fa si diceva che la rivoluzione tecnologica avrebbe investito anche le raccolte poetiche, trasformandole spesso e volentieri in opere-sito o libri multimediali. Lungi dal dire che non si sono tentati esperimenti del genere, bisogna oggettivamente riconoscere come siano stati rari e incapaci di sviluppare una tendenza. Il libro di poesia, in maniera controintuitiva, è anzi diventato l’ultimo baluardo della tradizione di fronte al proliferare delle nuove forme dell’editoria. Merito anche delle case editrici di opere in versi che, anziché seguire il flusso della cultura di massa, hanno preferito adottare una prospettiva conservatrice e piuttosto puntare su giovanissimi autori esordienti, che a loro volta vedevano nella forma libro l’unico medium possibile per ricomporre i fragili frammenti della vita intima. Tutto ciò ha portato, nel corso dell’ultimo decennio, a un’improvvisa e incontenibile espansione del numero di poeti italiani sotto i trent’anni che si affacciavano al panorama editoriale, senza che questa tendenza si portasse dietro un ampliamento del pubblico della poesia, però. Ancora oggi, infatti, i lettori dei poeti sono perlopiù poeti, ma il fiorire incontrollato di tutte queste raccolte liriche ha sviluppato un ecosistema letterario che vale la pena di indagare. Se non altro, per tirare le prime somme di un discorso sulla poesia che va avanti da quando Baudelaire ha sancito la perdita di mandato sociale del poeta.
Una delle prime caratteristiche che balza all’occhio nell’accostare libri di poesia contemporanea diversi ma di autori giovanissimi è la marcata differenza formale. Un fenomeno, quello degli effetti di deriva, che si era già notato negli anni Settanta, ma che oggi assume connotati del tutto nuovi. Se infatti al tempo alla difformità sul piano formale si andava ancora accompagnando un’uniformità ideologica o presunta tale, oggi la scelta di una certa soluzione formale non si lega a impostazioni etiche o poetiche specifiche. La forma è semplicemente il vestito con cui presentare il sentimento che si è avuto l’urgenza di mettere in versi: non si registra alcuna problematizzazione, non vi è alcun allarmismo. Un approccio che fotografa benissimo i tempi in cui viviamo, dove alla militanza e all’ideologia del secondo Novecento si sostituiscono il disinteresse e il pragmatismo degli anni Duemila, e che mette in crisi il tradizionale concetto di corrente letteraria, dal momento che non esiste né un manifesto né una serie di istanze comuni che possano racchiudere sotto un unico cielo strutture formali così antitetiche. Si pensi, a titolo d’esempio, a Giuseppe Nibali, la cui poesia è caratterizzata da un forsennato e ricercato citazionismo ma, al contempo, sarebbe accostabile agli esiti più lirici di Ottavio Fatica; oppure, a Valentina Murrocu, che imbastisce un dialogo tra la biologia e la filosofia esistenziale all’interno di uno spazio liricamente altissimo, fatto di frequenti inarcature e impostato su ritmi asfissianti. Risultati notevoli e apprezzati dalla critica, ma che segnalano evidentemente una nuova tendenza in come i poeti d’oggi organizzino le loro opere. Una tendenza che, fondamentalmente, consiste nell’assoggettamento della forma non più al riconoscimento di tensioni liriche comuni, bensì alle logiche della riflessione empirica, a ciò che enfatizza meglio le istanze alla base dei versi senza comprometterne la gravitazione verbale.
Poco sopra si è fatto riferimento a Ottavio Fatica, forse più noto come traduttore che in qualità di poeta, ma non è stata una scelta dettata dalla sola incombenza del momento. Se si leggono con attenzione le raccolte dei giovanissimi poeti contemporanei, dopo aver notato la questione della forma mutevole, ci si rende conto dell’asettica omogeneità della lingua. Non è solo una questione di perdita di credibilità della poesia dialettale in un’Italia dove si sta diffondendo ovunque il neostandard, bensì dell’evidente sviluppo di una letteratura capace di varcare i confini dialettici nazionali attraverso l’adozione della lingua delle traduzioni poetiche, soprattutto di quelle dall’inglese. Nella formazione dei poeti d’oggi ha un peso specifico importante la lettura dei versi di Wallace Stevens, Allen Gingsberg, Gregory Corso e Lawrence Ferlighetti – tanto in forma mediata da altre opere quanto in quella direttamente proveniente dalle edizioni italiane di riferimento – e questo si percepisce sia dal modo in cui vengono trattate specifiche tematiche (ne parleremo in seguito) sia dalla ricerca di una lingua asettica come obiettivo estetico. A parte rari casi – il dettato di Giorgiomaria Cornelio è fortemente espressionista, mentre quello del già citato Nibali contiene numerosi inserti siciliani –, la sensazione che si ha nel leggere le raccolte degli autori “under 30” è che la lingua non vuole risultare problematica al lettore, bensì rappresentare il veicolo d’immagini prediletto dei sogni lucidi incatenati alla pagina. Nell’allontanarsi dai modelli della tradizione italiana, insomma, certi autori finiscono per accasarsi tutti nella medesima zona bianca di una lingua standardizzata, sviluppatasi in decenni di traduzioni da lingue straniere. Non si sente più un’esigenza di rottura, né l’impulso creativo che aveva portato il Gruppo 63 (e, in parte, anche quello 93) a scardinare la grammatica italiana per sviluppare nuove forme comunicative. E se capita di riconoscere l’ascendenza a un modello linguistico della tradizione lirica italiana, spesso è legato ad aree marginali di quest’ultima. I nuovi poeti contemporanei, insomma, hanno deposto le armi glottologiche che fino a trent’anni fa si brandivano contro la cultura di massa, la quale si avvaleva della cosiddetta “lingua del potere” – quella standardizzata dai media – per assolvere le proprie istanze comunicative. Della costruzione di una lingua artificiale, così come del ritorno all’alveo della Storia per rifugiarsi dal progresso dilagante, non v’è più traccia. Con l’avvento dell’omogeneizzazione linguistica, sparisce inoltre la ricerca di una pasoliniana lingua autentica, e non tanto perché oggi i poeti non considerano più la classe operaia portatrice dell’italiano più spontaneo di tutti (si pensi al collettivo Tempi diVersi), ma piuttosto perché la globalizzazione ha completamente reso insignificante il concetto di classe, a meno che non si tratti di una generica e magmatica classe media, che riunisce in maniera indistinta tanto il professore di liceo quanto il falegname del paese. Anche i nuovi poeti contemporanei fanno parte del medesimo ordine, quindi percepiscono strettamente anacronistico tendere a una lingua che non sia quella che da sempre utilizzano e con cui sono cresciuti, radendo così al suolo ogni dibattito ideologico portato avanti dalle ricorsive ondate di poeti avanguardisti e promuovendo allo stesso tempo un’orizzontalità del lessico del tutto estranea agli autori della generazione precedente. Venendo ai temi più cari di questi nuovi autori, va subito constatata l’assenza di qualsiasi prova di critica sociale, a meno che questa non si manifesti con l’atto stesso di scrivere poesie. Non è il dissidio e non è la polemica, a infarcire il discorso delle loro raccolte poetiche, bensì la rappresentazione della realtà nella sua naturale complessità. Riprendendo una caratteristica già riscontrata nei più sovversivi poeti americani – seppur adesso svuotata di ogni contestazione –, gli esordienti contemporanei rifuggono dall’immaginario di una poesia eccessivamente autoreferenziale per poter essere compresa da chiunque. La lirica per la lirica non è più il centro dell’esperienza estetica, soppiantata piuttosto da una ricerca di comunicabilità chiara e definita col lettore, che spesso si avvale di riferimenti cinematografici o musicali noti, quindi extraletterari. Dalla tradizione italiana, però, si mutua il gusto per la descrizione di paesaggi, cartelloni o opere pittoriche che possano aprire sconfinati spazi alle riflessioni interiori, in un felice connubio di ekphrasis ed epifania. Ciononostante, la recisione del legame col passato è troppa netta per non accorgersene. La dialettica su cui si fonda la contaminazione di immagini auliche e vili non ha il tono quasi imbarazzato tipico dei primi poeti modernisti, ma non ha nemmeno quella giocosità scanzonata che investiva i versi degli autori postmoderni: è semplicemente percepita nella sua più grande genuinità, come se vedere Platone leggere la propria pagina di Wikipedia fosse la cosa più normale del mondo. Sebbene una certa nausea sociale affiori, inoltre, non vi è in questa poesia alcuna nostalgia del passato o nevrosi della fine: tutto è rappresentato, tanto nei lati più giulivi quanto in quelli più orridi, come necessario all’ordine del mondo. Tutto è degno di essere avvinto al foglio, ma niente di divenire materia di denuncia sociale.
È altresì interessante notare che, sia quando l’io lirico descrive la vita cittadina dalla finestra dell’ufficio in cui lavora sia quando al centro dell’indagine ontologica c’è un ricordo d’infanzia, i giovanissimi poeti italiani contemporanei non conoscono scollamento tra mondo noumenico e mondo fenomenico, tra tempo spazializzato e tempo della coscienza. È su questo fondamento metodologico che, per esempio, si sviluppa il discorso di Silvia Righi, ma è una caratteristica riscontrabile anche in Riccardo Frolloni. La scrittura di questi autori, in ragione di ciò, diventa fortemente evocativa e si gonfia delle immagini più disparate, costringendo il dettato a funambolici virtuosismi grammaticali e strutturali. Ancora una volta, però, questa fluidità dei piani poetici, questa deformazione spazio-temporale che trasforma l’io lirico in un soggetto plurale, è avvertita come assolutamente spontanea e costitutiva dell’essenza umana. Per i nuovi poeti italiani, insomma, le pagine dei loro libri diventano il luogo deputato alla cattura della trascendenza, all’imprigionamento della whitmaniana moltitudine che caratterizza la psyché, piuttosto che lo spazio per un approfondimento intellettuale.
Si vorrebbe infine concludere quest’analisi con una breve riflessione sugli effetti socioculturali dell’avvento dei nuovi poeti contemporanei sul panorama letterario. Distruggendo il millenario legame tra forma e ideologia, acclimatandosi nella sobrietà dell’italiano neostandard, accogliendo nel paradiso poetico tutta una serie di elementi anti-idillici e portando alle estreme conseguenze il discorso di Bergson, questi autori hanno smantellato le sovrastrutture intellettuali in cui da secoli i poeti si rifugiano per allontanarsi dalla massa, mai considerata abbastanza degna di comprendere la loro sottile ars poetica. Sebbene tutto ciò, come detto all’inizio, non abbia condotto a un ampliamento del pubblico della poesia, è lecito immaginare che nel lungo termine qualche effetto si dovrà pur apprezzare. Indipendentemente dal giudizio di valore che uno può dare a questi fenomeni, infatti, progetti come il Movimento per l’Emancipazione della Poesia – di cui alcuni dei poeti qui citati fanno parte – o il ritorno alla pratica della lettura pubblica rappresentano una fertile occasione per dare nuova linfa vitale e ossigeno a un genere letterario che, chiuso com’era nei suoi circoli privati, iniziava a odorare di stantio. Non si sta ovviamente dicendo che tutti questi nuovi autori diverranno parte del canone tra un secolo, ma si vuole registrare un dato di fatto che, nel bene o nel male, avrà degli effetti sulla percezione nel pensiero comune di cos’è la poesia oggi.
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