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Cinema e Ritualità

di Andrea Peverelli



L’icona fra cinema e religioni: il mito orfico della ricombinazione, narrazioni pre-cristiane e montaggio sovietico


Qualsiasi indagine che si muova fra cinema e studi religiosi deve necessariamente prendere le proprie mosse dall’elemento unificante i due temi: l’iconografia. Come l’essenza di un film è l’immagine, o etimologicamente “icona” (eikon, ciò che si vede), così il rapporto fra il visto e il non visto nella storia delle religioni costituisce una dialettica fondamentale fra la vita del fedele e la divinità, che sia il mai-svelato Adonai, o Osiride “il nascosto”, o, ancora più fondamentale, il Cristo, nucleo della rivelazione (fisica, ancor prima che mentale!) cristiana.

Il termine stesso che utilizziamo, “icona”, non è scelto senza ragione. Il processo di oggettivizzazione che vogliamo qui trattare possiede infatti molte delle caratteristiche che l’arte sacra cristiana ha fatto proprie. Essa ha faticosamente (e solo in parte) superato la concezione di arte rappresentativa, di una catena che colleghi le rappresentazioni particolari alla loro forma universale: vale a dire, una rappresentazione simbolica in senso classico, cioè una immagine-raffigurazione che, attraverso un processo di mimesis, riporti alla dimensione del conoscibile una realtà altra, meta-fisica (tipicamente quello di divinità, ma anche concetti e stati d’esistenza umani: morte, vita, fertilità, amore, propiziazione e preservazione apotropaica), cui il referente oggettuale partecipa in essenza, tanto che, per

Osiride ricomposto da Iside e riemerso intero come re dell'aldilà. Emblema 44, Michael Maier, Atalanta Fugiens, 1618

Dell’icona sacra cristiana, l’icona cinematografica ha anche un altro elemento fondamentale in comune: la dimensione rigenerativa (e rigeneratrice). Ejzenstejn a questo proposito espone una interessante prospettiva, quando, a trattando della teoria del montaggio creativo, paragona il processo artistico allo smembramento e alla ricomposizione del corpo della divinità (Dioniso) durante un rito di trasfigurazione (del tutto assimilabile al mistero della morte e resurrezione e al sacramento dell’Eucarestia):


«Qui siamo al confine dell’arte teatrale, che dovette col tempo mutarsi in arte cinematografica, quello stesso confine che vide trasformare rituale religioso in arte, l’atto di culto in rituale simbolico, e infine metamorfarsi in immagine artistica.»[3]


Il sacrificio rituale dell’icona cinematografica, che garantisce la ricombinazione degli elementi in prospettiva vitale e creatrice, è il sacrificio annullante di Cristo sulla croce e il suo continuo reiterarsi per transustanziazione nel pane consacrato (non a caso, un rito in forma di sacramento). Tramite quello che lo stesso Ejzenstejn definisce “metodo Osiride”[4], in chiaro riferimento al fato del dio egizio smembrato e

Il sacrificio rituale del fedele come via di accesso allo stupore divino, "the road to awe" (The Fountain, D. Aronofsky

ricomposto nell’aldilà in un processo di morte e risurrezione, del tutto simile a quello di Orfeo e Dioniso, si viene qui a configurare il processo di de-soggettivizzazione e di entrata nel dominio dell’Altro, del potenziale, del vuoto in attesa di essere riempito come un rituale vaso canopo e attraversato dal composto dinamico e instabile di tensioni ed energie che compongono la deleuziana «materia segnaletica che comporta tratti di modulazione di ogni tipo: sensoriali, cinestesici, intensivi, affettivi, ritmici, tonali e anche verbali»[5], caratterizzanti l’esperienza cinematografica. L’icona come corpo mortale costantemente regredito da se stesso, in continua dialettica smembramento-ricomposizione (nella metafora Osiride-Dioniso-Orfeo), un flusso corporeo vuoto e attraversato da fasci direzionali eterogenei: in ultimo, l’unica vera interfaccia per l’Assoluto, scevra di qualsiasi determinazione logica (che si preoccupi, cioè, di andare al di là di ogni tipo di contraddizione: l’icona è il campo dell’ossimoro, della sinestesia, della metonimia e della metafora, il luogo dove due realtà apparentemente inconciliabili si attraggono fino a fondersi, dove il corpo smembrato del dio viene a ricomporsi in senso vitale).



Siamo di fronte a un modello per certi versi totalmente opposto a quello classico, più vicino all’ostensione apodittica pre-cristiana dell’immagine sacra (limitata a una fruizione unicamente passiva): il cinema classico narrativo, in virtù della propria costruzione codificata, mantiene un senso anche al di là dell’intervento dello spettatore, il quale, al massimo, è chiamato a completarne le inferenze (passaggi effettivamente mancanti a un livello materiale, ma in realtà occultati all’interno della trama filmica). In un certo senso, nella storia della cinematografia è ravvisabile quasi la stessa evoluzione che l’antropologia religiosa ha evidenziato lungo la storia umana: così il cinema delle origini è assimilabile, per via della sua natura spettacolare e fenomenica, alla religiosità primitiva, parimenti costruita attorno allo stupor scaturito da un evento esterno all’uomo che viene spiegato tramite una teofania, una travolgente e indicibile apparizione divina; il cinema classico narrativo (o hollywoodiano – che risponda cioè al modello classico del continuity system) corrisponderebbe all’istituzionalizzazione delle religioni classiche, basate su un preciso e razionale sistema di ritualità (volte a riconfermare costantemente la presenza della divinità fra gli uomini) che mantengono l’originale fruizione passiva da parte del fedele. Si potrebbe a questo punto speculare sulla figura del regista come espressione della casta sacerdotale in possesso delle conoscenze (eminentemente tecniche, tenute nascoste all’occhio del fedele) adatte a far sì che il film-rito risulti un efficace palliativo alle idiosincrasie psicologiche dello spettatore, e dunque giungere a individuare nel film-rito il luogo istituzionalizzato della catarsi pulsionale: la divinità viene placata, come la paura del fedele di far adirare la sua divinità, così le ansie sociali e psicotiche del soggetto vengono sublimate dalla narrazione filmica. Naturale, a questo punto, il parallelo con una certa ritualità ctonia e georgica, come afferma lo stesso Ejzenstejn:


«Far ricorso alla metafora del seme di grano che deve disintegrarsi e morire per crescere nuovamente come una pianta. In questo, il grano ripete il ciclo di una miriade di altre piante, e, infine, di tutta la natura, che muore in inverno per rinascere a nuova vita in primavera. Abbiamo qui un’altra componente dell’immagine di morte e resurrezione di un dio.»


Non era sicuramente oscuro anche al regista sovietico il riferimento a riti propiziatori che includevano il ciclo stagionale dei campi e delle messi ai relativi riferimenti divini tipicamente mortuari: in questo senso il montaggio analitico del nuovo cinema introdotto da Ejzenstejn ricorda da molto vicino la narrazione fatale di Proserpina, o dell’orientale Cerere-Cibele, o anche del precolombiano Quetzalcoatl-Kukulkan, o ancora del già citato Osiride, non a caso divinità della morte ma anche del raccolto (“Osiride che presiede al grano”, come riportato nel 142esimo capitolo del Libro dei Morti egizio, nel peana a Osiride). Tutte divinità legate al tema della morte e resurrezione nelle messi tramite una sparizione fisica quanto metaforica nella terra. E così anche l’aspetto ctonio del montaggio, che nasconde in una continua ricombinazione di materiale originario l’unità della vicenda, il regista-sacerdote in possesso delle conoscenze rituali per la perpetuazione della morte del dio, e il film-rito come messa in scena (non a caso, un termine filmico) della finzione rituale.



Ritualità cristiana e cinema autoriale


Infine, nel nostro parallelo fra storia antropologico-religiosa ed evoluzione del cinema, il film autoriale (ricordando comunque che una generalizzazione sicura non è una soluzione percorribile) costituirebbe la fase di superamento e interiorizzazione dell’evento religioso, come tipica del cristianesimo, e il passaggio dall’atavico concetto di simbolo come mera mimesis e dalla fruizione passiva a una nuova configurazione della vita spirituale, che necessita anche e soprattutto una partecipazione attiva da parte del fedele. Si noti comunque che, come nella storia delle religioni non si può parlare di modelli diacronici contrapposti e reciprocamente annullati, così nella storia del cinema: il cristianesimo mantiene elementi notevoli dei sistemi religiosi precedenti, integrando ad esempio il senso del numinoso da cui scaturisce il senso di awe and wonder[6] e il sacro fascinans et tremendum[7] dalle religioni pre-classiche, con la ritualità, altamente razionale e strutturata in maniera da riprodurre mimeticamente gli effetti e le azioni del personaggio-divinità e delle sue vicende divine in terra, delle religioni classiche pre-cristiane (aspetto che il cristianesimo non avrebbe potuto ereditare dalla matrice ebraica, del tutto estranea a processi mimetici in argomento divino; nel rituale ebraico non avviene ricordato il memoriale e non vengono ripercorsi gli eventi salvifici della vita di un profeta, o, men che meno, di Adonai: come nella tragedia classica greca, che non inscena mai l’osceno, è alla sola parola che viene affidato tutto il potenziale teologico della parola stessa). Allo stesso modo il cinema autoriale si innesta sulle mancanze e i punti oscuri del cinema classico narrativo, a sua volta erede del cinema delle origini, di cui conserva le mosse d’esordio e molta ritualità nella tecnica registica.


Si passa dunque sottilmente da una significazione di “simbolo” come idolo mimetico di una realtà, come al tempo stesso rappresentativa e partecipativa di quella realtà, e dunque subordinante il rappresentato al rappresentante, a una di sỳmbolon (dal greco syn-bàllo, “riunire”) tra le due realtà: “i teologi dell’icona hanno chiaramente distinto l’icona dall’idolo: […] l’icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all’ordine magico del possesso, ma all’ordine propriamente cristiano della comunione. La presenza iconica è trasparenza personale, della persona allo stesso tempo unica e in comunione”[8]. L’immagine del cinema ha la stessa valenza di apparizione epifanica, fantasmatica (nel senso etimologico di “ciò che si dà alla percezione”), di incarnazione a oggetto visivo e forma pura, una «presentazione aconcettuale dell’Essere universale»[9], che come tale non ha bisogno di ermeneutica, ma ha altresì una necessità assoluta di interazione: una nuova realtà che sospende la dualità oggettivante tra soggetto e oggetto e si lascia pervadere da un’esperienza in cui lo sguardo e la cosa vista finiscono per perdere i loro reciproci contrassegni esteriori; in ultimo, un’incarnazione a simbolo che si rende performante solo nella condizione in cui esista e sia unito anche l’altro termine di quel mettere assieme che è il simbolo cristiano, o, ancora meglio, il secondo termine dello scambio comunicativo e vitale che è il cum-munus, il mettere in comune fra due realtà, dell’appena citata comunione (l’Eucarestia). Ancora una volta, l’acuta analisi di Ejzenstejn torna in aiuto, nel riassumere tutti gli aspetti appena citati, l’Eucarestia come messa in comune fra due enti partecipanti in un simbolo, il montaggio e il rito dionisiaco dello smembramento:


«Usiamo il termine ecclesiastico “essere in comunione” (priobshchenie) con ragione: “essere in comunione” è un altro modo per dire “prendere la comunione” (prichastie). Entrambi mantengono il concetto di unire qualcosa che è in “comune”, di essere partecipanti. Entrambi definiscono il sacramento centrale delle chiese cristiane. […] Il fato di Dioniso e i giochi che mettevano in pratica quel fato furono gradualmente formalizzati, e da un atto collettivo divennero una performance. Era nata la Tragedia.»


È un superamento vitale quello che si avvera nell’eliminazione dei concetti di spettatore e spettato, di soggetto e oggetto, o anche di incontro tra due soggetti (tra io e Altro): «“Noi vediamo Dio”, “Dio ci vede”. È lo stesso. Il soggetto e l’oggetto si rimpiazzano, interscambiabili e non assicurati, aspirati da un verbo dominatore. Chi vede? Chi è visto? Non si sa più. Solo resta l’atto, slegato, assoluto. Fonde in sé soggetti vedenti e oggetti visti»[10]. Non v’è, come invece per Lacan, una lacerazione, nel contatto fra due soggetti, quanto una vera e propria cucitura garantita dalla perdita stessa di ogni soggettualità, il sanamento dello strappo originario imposto dall’alienazione dell’io: un dialogo non conflittuale tra l’io e l’Altro, ma una retta secante che passa attraverso l’Altro e giunge all’Universale, all’Assoluto, al meta-fisico, la manifestazione di un

Figura 3 - Andrej Rublëv e l'iconostasi (Andrej Rublëv, A. Tarkovskij, 1966)

sovra-mondo o di una sub-creazione che ricostituisce e risana la realtà primaria del soggetto. Non c’è spettatore e spettato, ma un “tutto sguardo”, con le parole di un’omelia dello Pseudo-Macario:


“l’icona permette l’incontro di sguardi, in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato […] da uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà”[11]


Col rituale della divina liturgia (la messa) viene ribadita costantemente la partecipazione attiva e vitale del fedele al mistero di Cristo, che, per poterne attivare la funzione performativa (in linguaggio teologico: salvifica) dandosi all’uomo, deve necessariamente presupporre tale presenza attiva del fedele, garantita dalla ritualità dell’eucarestia. E così la fruizione della nuova icona cinematografica autoriale ricuce, con la sua ritualità che procede dalla creazione di una finzione mimante la realtà prima, il rapporto fra spettatore e se stessa in un darsi reciproco, garantendo in questo modo, nella morte orfica del soggetto, un’espansione vitale della significazione, la creazione di un nuovo spazio sensibile e significabile, un processo costante di ri-semantizzazione del simbolo, mai fissato e sempre aperto per una continua e salvifica ridefinizione di senso.


 

[1] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 28. [2] Nella terminologia tecnica della disciplina storico-religiosa: la creatio ex nihilo prevede il nulla prima della creazione, da parte di un dio onnipotente, o l’ordinamento post-creazione, che prende il nome di demiurgia, da parte di un demiurgo (e come tale è tipica delle religioni monoteiste e delle correnti misterico-orientali, come l’orfismo); la creatio ab origine, tipica invece dei paganesimi politeisti, prevede un’interazione ordinatrice fra un caos primordiale e un gruppo di divinità. [3] Tutte le citazioni di S. Ejzenstejn in questo articolo sono state recuperate dall’edizione originale (Избранные произведения, Izbrannye proizvedeniya, 6 vols., Moscow: Iskusstvo, 1964-1971), e tradotti dall’autore. Si ringrazia il sito Monoskop.org per averli messi a disposizione. [4] Che Ejzenstejn pone accanto a un altro parallelo, a noi tangente ma comunque interessante per l’argomento cinema-ritualità religiosa: quello fra la pratica meditativa e gli esercizi spirituali di Loyola e la psicotecnica attoriale di Stanislavskij, adottata nel cinema sovietico coevo. [5] G. Deleuze, L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 40. [6] Cfr. R. Marett, Sacraments of Simple Folk (1930), curiosamente ripreso come concetto portante dell’intero film in The Fountain di D. Aronofsky. [7] Cfr. R. Otto, Il Sacro (1917). [8] O. Clément, Piccola introduzione alla teologia dell’icona, in “Contacts” n.181 (1998), pp. 25-32 [9] M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989, p. 20. [10] M. De Certeau, Estasi bianca, in Sulla mistica, a cura di Domenico Bosco, Brescia, Morcelliana, 2010, p. 185. [11] O. Clément, Piccola introduzione alla teologia dell’icona, cit., ivi.




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