di Marco Casiraghi
Ora, mio eccellente amico, disse il signor C…, possedete tutto quello che occorre per comprendermi. Noi vediamo che nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura, la grazia vi compare sempre più raggiante e imperiosa. Ma così, come l’intersezione di due linee, considerata da un punto dato, dopo aver traversato l’infinito, d’improvviso si ritrova dall’altra parte di quel punto, o l’immagine dello specchio concavo, dopo essersi allontanata all’infinito, d’improvviso ci ricompare vicinissima davanti; così si ritrova anche la grazia, dopo che la conoscenza, per così dire, ha traversato l’infinito; così che, contemporaneamente, appare purissima in quella costruzione umana che ha o nessuna o un’infinita coscienza, cioè nella marionetta o nel Dio.
H. von Kleist, Sul teatro di marionette[1]
L’esotismo radicale dell’oggetto
In un testo del 1938, Il sacro nella vita quotidiana (letto di fronte agli uditori del Collège de Sociologie nel gennaio del 1938 e pubblicato in Pour un Collège de Sociologie nel luglio dello stesso anno), Michel Leiris ripercorre la sua infanzia parigina per scovarvi quei luoghi e quegli oggetti che hanno accolto per lui
«quel misto di timore e di fascinazione, quell’atteggiamento ambiguo determinato dall’avvicinarsi di una cosa attraente e insieme pericolosa, prestigiosa e respinta, quella mistura di rispetto, di desiderio e di terrore che può considerarsi il segno psicologico del sacro»[2]
Prendendo la propria vita come campo di indagine, Leiris si applica a una fenomenologia del numinoso che, distogliendosi da un “sacré officiel”, ne mostri il condensarsi negli oggetti più umili.
Se paragono questi fatti vari – cappello a cilindro, come segno dell’autorità del padre; Smith e Wesson a tamburo, come segno del suo coraggio e della sua forza; portamonete, come segno della ricchezza che gli attribuivo per il fatto che era il sostegno finanziario della casa; stufa dove ci si può scottare benché in teoria sia il nume tutelare del focolare; camera matrimoniale che è il compendio della notte; wc nel segreto del quale ci scambiavamo racconti mitologici e ipotesi sulla natura delle cose sessuali […] se metto insieme tutti questi fatti mutuati da ciò che fu la mia esistenza quotidiana, quando ero bambino, vedo formarsi a poco a poco un’immagine di ciò che è per me il sacro.[3]
I segni dell’autorità paterna, la stufa, la camera da letto, il bagno: è grazie a questi elementi che il trascendimento può aver luogo, è con loro che un «mondo radicalmente distinto, diverso dal mondo profano quanto il fuoco dall’acqua»[4] può sgorgare dall’ordinario, irradiare il quotidiano sovvertendolo dal suo interno. Gli oggetti presentati da Leiris accolgono dunque una scissione interna: sono lì di fronte a noi, tangibili e addomesticabili nel loro maneggiamento quotidiano, nondimeno, in quanto vere e proprie ierofanie, alludono contemporaneamente a qualcosa di incommensurabile. In questo modo, Il sacro nella vita quotidiana testimonia come negli oggetti risieda un fattore sovversivo a partire dalla loro funzione semiotica (come nota Didier Hollier commentando il testo, «vi sono sviluppate congiuntamente una pratica e una teoria della crittologia»[5]), ed è proprio a partire da questa funzione, relativa agli esempi di Leiris, che ci domandiamo se sia possibile riscontrare un simile fattore sovversivo al di là della natura evocativa dell’oggetto, al di là della sua funzione allusiva.
In proposito, Jean Baudrillard è stato sicuramente uno degli autori maggiormente interessati a portare tale interrogativo alle sue estreme conseguenze, chiedendosi se ciò che vi è di perturbante nell’oggetto non sia più vicino a un’immanenza “fatale” che all’evocazione di un piano trascendente. Ma prima di avvicinarsi a quest’immanenza, Baudrillard si è dimostrato, fin da Il sistema degli oggetti (1968) e La società dei consumi (1970), l’interprete più acuto dell’oggetto nella sua pura funzione di rimando, dell’oggetto-segno quale vera e propria realizzazione dello strumento, “svelandolo” in quanto
«simulacro funzionale (make-believe), dietro il quale gli oggetti continueranno ad assolvere al loro ruolo di discriminazione sociale»[6]
Un oggetto-segno che, indifferente alla materialità dell’oggetto quanto alla sua facciata funzionale, sguazza in un sistema di scambio differenziale simile alla langue saussuriana (nessun termine positivo, solo differenze). Al contrario, l’oggetto resosi autonomo dal gioco differenziale del valore dovrà mantenere un carattere straniante («l’étrange est qu’il n’y a justement pas des termes opposé»[7]), assieme a quella che Baudrillard chiama letteralità: «the object is literal in the sense that it is fully exhausted in itself»[8].
A partire da queste due caratteristiche, autonomia e intraducibilità, è possibile iniziare a delineare la transizione da un oggetto-segno a un oggetto puro, un oggetto “assoluto”[9] che presenti un fattore destabilizzante non più a partire dalla sua significatività, dalla sua pregnanza simbolica, bensì dal loro opposto:
«l’oggetto assoluto è quello il cui valore è nullo, la qualità indifferente, ma che sfugge all’alienazione oggettiva in quanto si fa più oggetto dell’oggetto – il che gli conferisce una qualità fatale»[10]
Tramite un eccesso di materialità, l’oggetto va incontro al disgregarsi del suo stesso carattere “oggettivo”, tuttavia,
«an object that is not an object is not nothing. It is a pure object which doesn’t cease to obsess us with its own immanence, its empty and material presence»[11]
Ritraendosi in un’alterità irriducibile, l’oggetto mostra la sua vera insistenza, allora esso ci minaccia a partire dal vuoto che sembra abitare serenamente. Ciò che sembra meglio ricalcare una simile alterità, è quell’esotismo “radicale” trattato da Victor Segalen e particolarmente caro a Baudrillard; sostantivo che non indica «la perfetta comprensione di un fuori-di-sé che si rinchiuderebbe in sé, ma l’acuta ed immediata percezione di un’eterna incomprensibilità»[12]. Non è un caso, allora, se lo stesso Segalen ne trovi un esempio privilegiato nell’incontro angosciante col Gegenstand, in un esotismo
È necessaria una precisazione. Sarebbe affrettato sovrapporre l’alterità dell’oggetto assoluto che cerchiamo di accostare, la sua esteriorità, con la ricerca “realista” di un mondo in sé tramite una netta recisione fra ontologia e gnoseologia (esemplificata dal Grande esterno di cui parla Quentin Meillassoux[15]), posizione che rischia di scadere in un paradossale «pensare il mondo come non pensato»[16]. Al di qua di tale recisione, è dalla sua posizione liminare che l’“assoluto” dell’oggetto mantiene il suo carattere inquieto. Piuttosto che coincidere con un mondo senza di noi, l’oggetto è ciò che ci angoscia perché richiamandoci al suo vuoto interrompe la rete delle nostre significatività: non
«l’oggetto asservito e che rivendica la sua autonomia dal soggetto, ma l’oggetto in quanto sfida il soggetto, in quanto lo rimanda alla sua posizione impossibile di soggetto»[17]
È a partire da questa paradossale provocazione che l’oggetto “seduce”, portandoci così in un luogo intermedio: se da un lato siamo attirati verso ciò che non chiede mai la propria liberazione, la propria disalienazione, rischiamo dall’altro di sparire sempre al suo orizzonte.
Al di qua dell’evidenza
«Non esiste la redenzione dell’oggetto; in qualche luogo c’è un “avanzo”, di cui il soggetto non può impossessarsi»[18]
Questo “avanzo” a cui allude Baudrillard sembra rappresentare la controparte del principio husserliano dell’evidenza, quell’esperienza dell’essente che, abbracciando ogni atto intenzionale, mira al presenziarsi del fenomeno nella sua autofferenza originaria, caratterizzandosi per una differente gradazione di completezza. Un esercizio infinito che ha come correlato nient’altro che «la verità pura e autentica»[19], teso a «pervenire al riempimento del significato dell’intenzione»[20] attraverso un graduale denudamento del fenomeno. In quanto compito rigoroso, in quanto telos della coscienza, l’evidenza fenomenologica è la strada maestra per approssimarci alla cosa. Tuttavia, ed è qui che si affaccia l’ombra dell’oggetto “puro” baudrillardiano,
«il voler vedere le cose “in carne e ossa” o “completamente nude”, che il principio dell’evidenza eleva a metodo, significa in fondo riconoscere che nella loro esteriorità resta l’eco dell’estraneo in sé primo che ancora si continua a cercare in esse»[21]
Allora, provocando l’oggetto a manifestarsi nella sua completezza, lo sguardo puro del fenomenologo “disinteressato” rivela una matrice che Stefano Bancalari ha acutamente definito “pornografica”, perseverata da una pulsione scopica correlata alla ricerca dell’evidenza (e in particolar modo alla ricerca dell’evidenza “adeguata”, il cui punto limite è spinto fino all’irraggiungibile). Essa risulta dunque la
«legittimazione sistematica di questo tendere alla visione di cui l’intenzionalità consiste, il quale viene elevato al rango di principio metodologico ultimo: in linea di principio e per principio – il principio dell’evidenza, appunto – si deve vedere e poter vedere tutto»[22]
E se aldilà di tale funzione scopica fosse proprio l’oggetto, fin dall’inizio, a farsi esca trascinando lo scrutatore in un gioco seduttivo? E se precedentemente all’atto visivo fossero le cose stesse a offrire un dare-a-vedere? Sono questi gli interrogativi a cui giunge inevitabilmente Baudrillard tramite un ragionamento sull’oggetto e, in particolare, sulla fotografia. L’operazione fotografica richiede un’oggettivazione coscienziosa, il godere della propria assenza a favore dello “scaltro genio dell’oggetto”. Con questo non intendiamo semplicemente il destino spettrale in cui incorre il soggetto trasformato in modello («per raggiungere la fotogenia bisogna farsi inumani»[23]), quanto piuttosto il suo “giocare” con un dileguamento sempre parziale per portarsi al cospetto dell’oggetto assoluto. Il fotografo può così diventare un ottimo medium dell’operazione fotografica solo a patto di auto-interrompersi, di declinare per quanto possibile il suo possesso sullo sguardo. È prima di tutto l’oggetto, la scena stessa a volersi fotografata: «il soggetto è solo l’agente dell’apparizione ironica delle cose»[24].
È il lato “insignificante” delle cose a espropriare il soggetto della sua facoltà prospettica (togliendo la distanza rassicurante che separava il soggetto dall’oggetto della rappresentazione), nonché a permettere un’estetizzazione sempre parziale dell’oggetto. Ne abbiamo un esempio con ciò che Roland Barthes, nel suo saggio dedicato alla fotografia, definisce come punctum. Troviamo quest’elemento in un particolare, in un dettaglio della fotografia che, captandoci, sembra avere la proprietà di espandersi, di catturare totalmente la nostra attenzione “riempiendo” la totalità dell’immagine. Il dettaglio può “me poindre”, sconvolgere la relazione visiva che intrattengo con una fotografia: «un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa di qualcosa la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione, un satori, il passaggio d’un vuoto»[25].
Gli esempi apportati da Barthes testimoniano non solo l’assoluta arbitrarietà del punctum, ma soprattutto la sua necessaria “insignificanza”. Lungi dal concentrarsi su dettagli che sembrerebbero colti dal fotografo per poter rendere un effetto volutamente anamorfico, nella maggior parte degli esempi Barthes si interessa a elementi relegati rispetto al soggetto principale della fotografia: i denti storti di un sorriso sullo sfondo, delle dita tozze, elementi del vestiario ecc. Sono questi elementi a captarlo irrimediabilmente, mostrando come ciò che è posto intenzionalmente a fare punctum non può adempire a pieno alla sua funzione. Ciò che è pre-significato nel suo carattere nominabile di sorpresa, di stupore, trascina con sé la sua riconoscibilità:
«ciò che io posso definire non può realmente pungermi»[26]
Il punctum è il formarsi di un vuoto nel cuore stesso della rappresentazione che, attirando lo sguardo, richiama me stesso in quanto vuoto. L’esempio migliore ci è dato probabilmente da Proust nel celebre passo de La prigioniera nella Recherche, dove lo scrittore Bergotte cerca una “piccola ala di muro gialla” nella Veduta di Delft di Vermeer. Esempio stupefacente, dal momento che nel passaggio di Proust, il riconoscimento del dettaglio coincide col massimo grado di nullificazione del soggetto, ovvero, con la morte di Bergotte in seguito a quello che appare come un sorprendente effetto causale.
La merce e il suo resto
Uno degli esiti più interessanti della navigazione di Baudrillard nella teoria marxiana e marxista riguarda la relazione fra oggetto e merce, ovvero, la prospettiva al contempo sociologica ed estetica aperta dall’impossibilità di ridurre il primo alla seconda.
«L’oscenità della merce dipende dal fatto che essa è astratta, formale e leggera, in opposizione alla pesantezza, all’opacità, alla sostanza dell’oggetto. La merce è leggibile: in opposizione all’oggetto che non svela mai completamente il proprio segreto, la merce manifesta sempre la propria essenza visibile, il proprio prezzo»[27]
Per il suo volersi trasparente, per il suo volersi totalmente leggibile, la merce assume quel tratto pornografico che Bancalari associava all’analisi del fenomeno; al contempo, la sua vacuità le permette di tramutarsi in puro segno, segno senza sbavature. Ciononostante, perfino nella codificazione più efferata, l’oggetto è restio a lasciarsi avvolgere completamente dalla sua patina merceologica: fra l’oggetto e la forma-merce vi è un resto costitutivo che consente un denudamento sempre possibile. Allora, più che ciò che sta al di sotto, l’oggetto assoluto è lo iato inesauribile tra i due.
In Per una critica dell’economia politica del segno (1972) Baudrillard ci offre due chiarimenti per intendere correttamente questo resto. Anzitutto, è necessario un determinato inquadramento del “feticismo delle merci” affrontato da Marx nel primo libro de Il Capitale. Quest’ultimo
«non va interpretato più, come avviene nella drammaturgia paleo-marxista, come la presenza, in questo o quell’oggetto, di una forza che ossessiona l’individuo, separato dall’oggetto del proprio lavoro e da tutto il prestigio di un investimento (affettivo e di lavoro), ma invece come il fascino (ambivalente) di una forma (logica della merce o del sistema del valore di scambio), come il coinvolgimento, nella buona e nella cattiva sorte, entro la logica costrittiva di un sistema di astrazione»[28]
È dunque necessario non trasformare in feticcio lo stesso concetto di feticismo isolandolo dalla merce in quanto forma. In secondo luogo, Baudrillard critica la ricaduta sempre parziale della merce entro il medesimo sistema feticistico: «il “feticismo della merce” (cioè il fatto che ciò che è un rapporto sociale si maschera sotto forma di qualità e di attributo della merce stessa) non agisce sulla merce, definita contemporaneamente come valore di scambio e valore d’uso, ma sul solo valore di scambio. Il valore d’uso, in quest’analisi restrittiva del feticismo, non appare come un rapporto sociale, né, quindi, come luogo della feticizzazione: l’utilità, in quanto tale, sfugge alla determinazione storica di classe»[29]. Ora, seguendo Marx, osserviamo come nella merce siano presenti contemporaneamente il valore d’uso e il valore di scambio. I valori d’uso, i quali si realizzano unicamente nel consumo, formano il “contenuto materiale” della ricchezza, il corpo della merce, ovvero, sono i «depositari materiali del valore di scambio»[30]. Il valore di scambio è invece rappresentabile come il rapporto quantitativo che intercorre fra due merci: due merci fra loro incommensurabili incontreranno comunque una forma d’eguaglianza, rapportandosi a un terzo elemento riducibile a un valore di scambio.
Questo elemento terzo, che funge da possibile comparazione, è qualcosa di non materiale, dal momento che astraendo dal valore d’uso astraggo dalla concretezza stessa del lavoro in vista del “lavoro astratto”, in vista della «pura gelatina di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza badare alla forma del suo dispendio»[31]. Finché la merce è intesa relativamente al suo valore d’uso e, dunque, nella forma della soddisfazione di bisogni umani, essa non sembra offrire problematiche rilevanti. Tuttavia, non potendo l’analisi fermarsi a questo punto, non potendo cioè ignorare il valore di scambio, la merce risulterà pregna di «sfumature metafisiche e di arguzie teologiche»[32].
È a questo punto che Baudrillard compie un passo laterale rispetto alla linearità dell’analisi marxiana: e se lo stesso valore d’uso, insieme ai “bisogni umani” a esso correlati, fosse una determinazione sociale dell’oggetto? Se anche in esso parlasse una «passione del codice»[33] più che una «passione delle sostanze»[34]?
Quale sarebbe allora l’elemento che nel valore d’uso permetterebbe un’astrazione universalizzata pari al valore di scambio? Il fattore che consentirebbe la comparazione in seguito a una riduzione è l’utilità in quanto «medesimo denominatore comune funzionale/razionale»[35]: il valore d’uso è il luogo in cui la funzionalità si fa codice. Se il valore di scambio tramuta il produttore in forza lavoro sociale astratta, il valore d’uso tramuta il consumatore in «forza di bisogno sociale astratto»[36].
Per Marx, ci troviamo in un sistema feticistico dal momento che incorriamo in una “naturalizzazione” di un potere sociale assunto dalle cose, abbiamo quindi un rapporto cosale sotto le sembianze di un rapporto naturale; le relazioni sociali fra produttori, possibili solo entro lo scambio, non figurano ora «
come rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose»[37]
A questo punto, ciò che preme a Baudrillard è mostrare come lo stesso valore d’uso, lungi dal riposare inalterato sul fondo della merce, concorra esso stesso a una naturalizzazione alla seconda
«il valore di scambio è la cancellazione del processo reale di lavoro, al livello della merce, per far si che questa appaia come un valore autonomo. Il valore d’uso fa di più: dà alla merce, inumana nella sua astrazione, una finalità “umana” […] così, senza cessare di essere un sistema, cioè storicamente e logicamente solidale con il sistema del valore di scambio, il sistema del valore d’uso naturalizza quest’ultimo»[38]
Il livello ideologico del valore d’uso sta nel presupporre sotto al rivestimento della forma-merce l’oggetto utile, l’oggetto che coincide pienamente col suo telos strumentale, laddove esso non è nient’altro che la sua controparte. Solo l’oggetto assoluto allora, eludendo ogni funzionalità, rappresenta il vero rovescio della merce; solo il suo silenzio, indifferente ad ogni facciata funzionale quanto al ronzio della circolazione della merce, è in grado di riscattare l’opacità della materia.
[1] H. von Kleist, Sul teatro di marionette in Bambole, giocattoli e marionette a cura di L. Traverso, Passigli Editori, Firenze, 1999, p. 93. [2] M. Leiris, Il sacro nella vita quotidiana in Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di D. Hollier, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 32. [3] Ivi, p. 40. [4] Ivi, p. 32. [5] Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di D. Hollier, p. 124. [6] J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano, 2010, p. 19. [7] J. Baudrillard, Simulacres et simulations, Editions Galilée, Paris, 1981, p. 205. [8] J. Baudrillard, J. Nouvel, The Singular Objects of Architecture, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2002, p. 66. [9] Per un approfondimento sul passaggio dall’oggetto segno all’“oggetto assoluto”, si consiglia la lettura del terzo capitolo (“Soglia”) di Cose. Per una filosofia del reale (F. Cimatti, Bollati Boringhieri, Torino, 2018). [10]J. Baudrillard, Le strategie fatali, SE, Milano, 2007, p. 109. [11] The uncollected Baudrillard, a cura di G. Genosko, Sage Publications, London, 2001, p. 139. [12] V. Segalen, Saggio sull’esotismo. Un’estetica del diverso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001, p. 36. [13] Ivi, p. 28. [14] Ivi, p. 49. [15] «Le Grand Dehors, le Dehors absolu […] ce Dehors qui n’était pas relatif à nous, qui se donnait comme indifférent à sa donation pour être ce qu’il est , existant tel qu’en lui-même, que nous le pensions ou non» (Q. Meillassoux, Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, Éditions du Seuil, Paris, 2006, p. 21-22). [16] F. Cimatti, op. cit., p. 21. Come osserva Felice Cimatti, questa forma radicale di anti-correlazionismo è possibile solo al prezzo di una vera e propria rimozione linguistica, dal momento che le stesse entità che il realismo speculativo vuole liberare dal peso del soggetto non sono altro che nostre formazioni segmentarie: «l’oggetto isolato, che è una astrazione linguistica, o meglio, è l’estrazione artificiosa operata dal linguaggio di un solo e isolato elemento dell’evento complessivo a cui poi è assegnato un nome» (Ivi, p. 35). Ciò che non viene adeguatamente questionato è il principale strumento da parte del soggetto per quietare l’oggetto: la stessa componente isolazionistica insita nel linguaggio, ovvero, come le differenze non siano “nel” mondo (un mondo inteso come agglomerato di cose) ma nella nostra facoltà linguistica d’intenderlo. [17] J. Baudrillard, Le strategie fatali, cit., p. 107. [18] J. Baudrillard, Parole chiave, a cura di G. Biolghini, Armando Editore, Roma, 2002. [19] E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, a cura di A. Canzonieri, Morcelliana, Brescia, 2017, p. 84. [20] Ibidem. [21] S. Bancalari, Fenomenologia e pornografia, Edizioni ETS, Pisa, 2015, p. 39. [22] Ivi, p. 27. Avendo accennato all’evidenza husserliana, non possiamo non trovare delle assonanze fra la ricerca sull’oggetto compiuta da Baudrillard e la trascendenza dell’oggetto trattata da Husserl, per il quale, l’oggetto percepito mantiene sempre un’eccedenza rispetto alla sensazione attraverso la quale si presenta al percipiente, dal momento ch’esso si presenta entro la relazione intenzionale solo tramite innumerevoli adombramenti. Ciò nonostante, questi adombramenti non costituiscono una modalità difettiva dell’accesso al fenomeno, quanto piuttosto la modalità stessa del darsi dell’oggetto. Allora, l’immanenza dei singoli momenti percettivi comporta costitutivamente un elemento differenziale che permette all’intenzionalità fenomenologica di non ricadere, al contempo, entro un realismo o un idealismo di stampo psicologico. [23] J. Baudrillard, È l’oggetto che vi pensa, Pagine d’Arte, Aprica, 2003, p. 11. [24] Ivi, p. 5. [25] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, p. 50. [26] Ivi, p. 52. [27] J. Baudrillard, Il sogno della merce, Lupetti, Milano, 1987, p. 51. [28] Ibidem. [29] Ivi, p. 125. [30] K. Marx, Il Capitale. Libro primo, Avanzini e Torraca editori, Roma, 1965, 1968, p. 25. [31] Ivi, p. 27. [32] Ivi, p. 67. [33] J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, cit., p. 85. [34] Ibidem. [35] Ivi, p. 127. [36] Ibidem. [37] K. Marx, op. cit., p. 70. [38] Ivi, p. 133.
Kommentare