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Cristologia nel cinema di Andrej Tarkovskij

di Andrea Peverelli



1. Stalker e il messaggio cristologico di salvezza


Di per sé, il primo piano dello Stalker con la corona di spine nell’omonimo film di Andrej Tarkovskij (1979) non significherebbe nulla: rimanda a una precisa iconografia culturale, quella del Cristo sofferente e prossimo alla morte, e l’identificazione simbolica si fermerebbe a tale considerazione. È nel generale sistema, fortemente fideistico, e specificatamente cristiano ortodosso, dell’autore, che l’immagine diventa icona vera e propria e assume significato, senso, direzione, la stessa direzione che lo Stalker dà ai propri compagni di viaggio verso un’ignota meta che costituirà la rivelazione, il disvelamento finale. Nel film, come nel romanzo originale, il contesto di predicazione del personaggio cristologico, lo Stalker, è la Zona, landa desolata epitome del tipico paesaggio tarkovskiano (l’ambiente umano in disfacimento reclamato dalla natura).


Innanzitutto: cos’è in definitiva questa Zona, motore immobile attorno a cui ruotano le vite dello Stalker e dei suoi due compagni di viaggio? Quale il valore profondo di tale marcatura di limite, oltre cui v’è il regno del soprannaturale, la materializzazione dell’impossibile e la geometria del sensibile ultraterreno? L’unica risposta possibile è di natura negativa, una non-risposta: «l’indeterminatezza di quanto sta al di là del limite è fondamentale»[1]. Per citare lo stesso Tarkovskij:


«Mi chiedono spesso cosa significhi questa Zona. C’è una sola risposta possibile: la Zona non esiste. È stato lo Stalker ad inventarsi la sua Zona. È stato lui a crearla, in maniera da potervi guidare delle persone assai infelici e costringerle a sperare. Anche la stanza dei desideri è una creazione dello Stalker, un’ennesima provocazione nei confronti del mondo materiale. Questa provocazione, creata nella mente dello Stalker, corrisponde ad un atto di fede.» [2]

Il percorso dello Stalker assume allora una valenza del tutto diversa da quella tratteggiata da personaggi profetici di altre culture, il cui viaggio si caratterizzava unicamente per un flight of the alone to the Alone, dal solo al Solo[3]: se la visione tradizionale del profeta lo vuole come colui che “parla al posto della divinità”, ammantandosi di un potere ultraterreno e oltreumano, il profeta biblico (e, sommamente, quello cristologico) è restituito alla sua etimologia di pro-fateor, colui che “parla fra (Dio e l’umanità)”, un personaggio spesso umile, ai margini della società, detestato per il proprio ruolo, e quasi sempre inascoltato. Così è lo Stalker tarkovskijano, personaggio già integralmente apocalittico, in quanto incarna di per sé la Rivelazione: e la rivelazione finale del film sarà proprio «la nostra impossibilità di raggiungere il credere puro, il desiderio diretto in quanto uomini moderni corrotti, riflessi, scettici»[4], in quanto «Stalker s’incentra sul problema del credere, della fede: la Stanza esaudisce solamente i desideri di coloro i quali credono»[5]. La vicenda dello Stalker è un’apocalisse para-evangelica, una etimologica rivelazione, la testimonianza dell’incarnazione della Divinità che si costituisce a tramite per la salvezza, attraverso l’illuminazione di un percorso, simboleggiato dal viaggio attraverso la Zona apocalittica, per l’intera umanità (Scrittore e Professore, i due personaggi alla ricerca della propria salvezza), non più per il singolo: per amore universale dell’uomo[6].


La condizione di uscita dell’umanità dalla catastrofe apocalittica è l’evangelico «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»[7]: la via mostrata dal Cristo-Stalker - tornare nuovamente alla condizione originaria, primitiva e perfetta, di unione con l’Assoluto, con la Divinità (rappresentata dal paesaggio tarkovskiano della Zona: la natura che si riprende lo spazio antropizzato, la naturalezza dell’Uno che toglie ossigeno alla divisione e alla dis-umanità del frammentario), e dunque la necessità che “l’umanità debba essere amore” - è una via difficile, come quella propugnata nei Vangeli, ma una via che solo chi la intraprende può comprendere. È la via della fede incondizionata, che i compagni dello Stalker (Professore e Scrittore – a loro volta archetipi di atteggiamenti umani, uno iper-razionale e l’altro «ponte tra Fede e Ragione, […] cui toglie un po’ di assolutismo, non però per assumerlo in sé […] ma per perseverare nel proprio cinismo»[8] -), inizialmente entusiasti della propria guida e della prospettiva di salvezza, non riescono a comprendere e a seguire fino in fondo: non comprendono la ragione delle indicazioni dello Stalker, che pure essi devono seguire alla lettera senza porsi domande, non comprendono le strade scelte per giungere alla Stanza, all’apparenza insensatamente tortuose, eppure scaturigine di quella geometria del sensibile ultraterreno che caratterizza la Zona.


Così, nell’episodio evangelico della predicazione di Cristo nella sinagoga (Luca 4, 21-30[9]), gli astanti inizialmente sono estasiati da Gesù, perché, come nel salmo 45, «la grazia è sparsa sulle sue labbra», ma infine, rivelato appieno il messaggio di salvezza e amore, lo respingono e lo cacciano, non comprendendone appieno il ruolo di sovvertitore e guida nella fede. E la fede, naturalmente, è il motore dell’intero percorso salvifico[10]: nella sua superficiale e assoluta insensatezza, a menti ciniche ed eccessivamente logiche, la fede possiede un’insita logica di acciaio, dove ogni gesto è perfettamente sensato, se inserito in un quadro meta-fisico. Lo Stalker è lì per testimoniarlo.


«Siamo arrivati alla soglia della Stanza! È il momento più importante della vostra vita! Qui si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto. Non bisogna dire niente, basterà concentrarsi e cercare di ricordare tutta la vita: quando l'uomo pensa al passato, diventa più buono, ma l'importante è solo... credere. Ora potete andare.» [11]

Così Scrittore e Professore, modello dell’umanità incapace di amare e di vivere in un’esistenza pura in comunione con Dio, si fermano sulla soglia della Stanza, davanti al «vuoto che sostiene il desiderio»[12], ormai annullati interiormente e non più consapevoli nemmeno delle proprie volizioni. «Nessuno dei due è riuscito a rinunciare all’abitudine condizionante della ragione, ad avere il coraggio di rischiare la purezza o la bassezza del proprio profondo sentire»[13]. Addirittura, il Professore, quando esce allo scoperto e rivela la propria intenzione di distruggere la Stanza, diventa l’icona stessa della minaccia apocalittica, l’incarnazione della degradazione umana cui lo Stalker-Cristo pone un freno. Ma è lo stesso Stalker a testimoniare la cattiva riuscita della spedizione, e viene conseguentemente colto dalla frustrazione per il fallimento degli uomini nel recuperare la fede, un Cristo più umano che non ha piena e cieca fiducia nel Padre per la salvezza universale: l’umanità fallisce nella costruzione della annunciata Nuova Alleanza, colpevole di aver perso la fiducia nell’esistenza.



La profezia apocalittica di Tarkovskij è dunque molto più terribile di quella che ci si aspetterebbe: invece di configurarsi a testimonianza di un frammento di umanità che tenta, che si rifiuta di cedere alla catastrofe e si mette alla ricerca della fede, lo Stalker è già al di là del limite imposto e travalicabile della Zona come simbolo della fede universale. Lui è l’incarnazione della Zona, della stessa fede nell’esistenza e nel perduto rapporto con la divinità, e della Stanza, luogo che esplica l’efficacia della Rivelazione in una «potenza di contenimento»[14], un «recinto interiore dove l’uomo abita dentro»[15] che ribadisce la necessità di un percorso di fede tutto dentro l’uomo. Lo Stalker è già nella piena fede di essere salvato da Dio, è la testimonianza diretta del fatto che l’apocalisse può essere invertita di segno, che l’umanità può tornare alla sua propria condizione perfetta e originaria; ma è al tempo stesso l’immagine del dubbio, atroce e tutto umano, che tale possibilità possa essere rifiutata dall’uomo, ormai non più sazio neanche di atti e prove materiali di fede. Lo Stalker compie il “miracolo” dello svelamento, cui nessuno era mai giunto, della Stanza ai due compagni di viaggio, come Cristo compie quello della sconfitta della morte su Lazzaro: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà».


Ma il Professore e lo Scrittore scelgono di non crederci, di rimanere, fisicamente e metaforicamente, al di qua della Stanza, ammantata, a livello visivo, dall’onnipresente acqua, metafora della fede, come il fuoco lo sarà, più avanti, del sacrificio. Tarkovskij grida attraverso lo Stalker che la salvezza è lì, a portata di mano: bisogna solo volerla accogliere. Ma, nonostante «la luce sia venuta nel mondo, gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce»[16].


2. Nostalghia e Sacrificio: teologia della Croce e l'imitazione di Cristo

Il resto della cinematografia tarkovskiana, che ruota attorno al perno fondamentale rappresentato da Stalker, è un costante ribattere su tale punto. I suoi film non sono altro che la riproposizione di una discesa del divino sulla terra, del metafisico in materico oggettivo, che rischia di essere perduto per sempre, e della conseguente proposta di una via di salvezza per l’intera umanità. I due film successivi, gli ultimi della carriera di Tarkovskij, aggiungono però un tassello fondamentale alla radicalizzazione della via di salvezza già portata dallo Stalker. Presentato per la prima volta in Nostalghia (1983) e condotta poi alle sue estreme conseguenze in Sacrificio (1986), tale nuovo elemento di radicalizzazione si individua proprio nel titolo dell’ultimo film: il sacrificio.


In entrambe le opere viene riproposto il modello di Stalker, una prova, apparentemente insensata e inutile, da superare per ottenere la salvezza spirituale, ma con una sostanziale differenza tra i due film: in Nostalghia la separazione tra l’archetipo-cristologico (rappresentato dal profeta Domenico) depositario della salvezza, e l’archetipo-umanità (rappresentato da Andrej, il poeta) che invece ne va in cerca, è ancora netta, e a ognuno dei due corrisponde un percorso differente attraverso l’apocalisse. Per Domenico si ripropone la condizione del salmo 22[17], dell’idiota dostoëvskijano e dello jurodivij, il folle in Cristo della steppa russa che mima le parole e le azioni dei grandi profeti biblici come Isaia e Giobbe, anch’essi paradigma del nemo profeta in patria e icone della derisione pubblica e dell’esclusione sociale: in Nostalghia, Domenico viene internato in manicomio perché creduto pazzo, mentre per Andrej è lo stato di aridità interiore e lontananza dalla salvezza a decretarne l’impossibilità di qualsivoglia contatto umano.


In Sacrificio, invece, il percorso profetico è riunito in un’unica via, attraversata da quello che ormai è un polo unico di salvezza, l’unità uomo-Cristo rappresentata dal protagonista Alexander, a cui giunge, suo malgrado, una annunciazione apocalittica da parte di un ángelos, un messaggero. Tutti e tre i personaggi (Domenico, Andrej e Alexander) concorrono dunque allo stesso obiettivo, ma comprendono che, per raggiungerlo, è necessario un estremo, insensato, annichilente sacrificio, convinti che attraverso esso «sia possibile raggiungere l’innocenza della pura credenza»[18]. Domenico si auto-immola pubblicamente dopo aver pronunciato un discorso che riassume, in termini di amore e innocenza, i dettami della via propugnata da Tarkovskij e dallo stesso Gesù Cristo; Andrej si accascia a terra morto, ormai in pace, dopo aver superato l’insensata prova della candela, metafora della salvezza spirituale; ma è soprattutto il gesto di Alexander a riassumere il valore del sacrificio come «atto puro e insensato che restituisce un significato alla nostra vita terrena»[19]. Egli infatti supera la prova impostagli da Dio e brucia la propria casa, simbolo dell’attaccamento ai beni materiali, rimane muto e viene portato in manicomio, in un parallelo al rovescio con Domenico di Nostalghia, anch’esso residuo di un passato manicomio: come Alexander aveva bruciato la propria casa in segno di ringraziamento a Dio per la salvezza, così Domenico brucia se stesso come richiesta di salvezza per tutti gli uomini.


Sopravvive in lui e nel suo gesto la lunghissima tradizione del misticismo russo: Alexander è uno dei sopracitati jurodivij, il folle in Cristo depositario della verità non pronunciabile (Alexander rimane muto dopo il gesto finale), ma solo praticabile, con atti all’apparenza folli e insensati; è colui che si fa carico del rapporto con Dio, che si addossa il peso dell’Apocalisse, e che agisce per il bene dell’umanità, sventando una catastrofe atomica significante la definitiva morte non tanto fisica, quanto spirituale, dell’umanità. Domenico e Alexander percorrono lo stesso viaggio rivelatore di Gesù Cristo, mettendo in atto vie differenti e complementari per giungere alla salvezza dell’uomo: Domenico attraversa una condizione pienamente catastrofica, e giunge all’Apocalisse tramite l’oralità profetica (il discorso nella piazza), come Gesù nella sua riproposizione a nuovo e definitivo profeta non di Israele, ma dell’umanità intera; Alexander, il folle in Cristo e suo imitatore, parte invece da una posizione idillica, che tenta di salvare quando la minaccia dell’apocalisse incombe, e lo fa tramite un atto di sacrificio, accompagnato dal silenzio, come Gesù sulla croce che sceglie volontariamente di sottoporsi all’atto sacrificale accettandone appieno il destino esiziale senza ribellarsi davanti al mondo (cfr. Luca, 23, 35-39: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il figlio di Dio!»).



Il risultato è lo stesso: la via per la salvezza illuminata e raggiunta tramite un gesto estremo, distruttivo, apparentemente senza significato. «Tarkovskij sa molto bene che, per funzionare ed essere efficiente, un sacrificio dev’essere in un certo senso “senza significato”, uno spreco o un rituale inutile e irrazionale […]: solamente un gesto spontaneo, non sostenuto da alcuna considerazione razionale, può ristabilire la fede immediata che ci libera e ci guarisce dal malessere spirituale moderno»[20]. Le scene di sacrificio in entrambi i film sono icone perfette, purissime, segni di salvezza in tutti i sensi: Tarkovskij, con esse, trapassa il velo dello schermo e invita l’umanità intera a prendere parte al percorso stabilito, a seguire lo Stalker nella Zona e i tre personaggi sacrificali nel loro gesto insensato, che mira alla salvezza, come riassunto da una poesia del padre Arsenij recitata da Andrej in Nostalghia:


Nella festa, candela mi sono consumato / all’alba raccogliete la mia disciolta cera/ e, lì, leggete chi piangere, di cosa andar superbi / come, donando l’ultima porzione di letizia: / morire in levità / e al riparo d’un tetto di fortuna, / accendersi postumi / come una parola. [21]


 

[1] S. Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, Milano, Mimesis, 2011, p. 38. [2] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano, UBULibri, 1988, pag. 178. [3] Per citare una paradigmatica espressione del Kaivalya Upanishad, il “testo della liberazione”. [4]S. Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, cit., p. 40. [5] Ivi, p. 41. [6] Come lo stesso T. affermò in un’intervista a proposito del precedente Solaris: «Forse, in effetti, la missione di Kelvin su Solaris ha un solo scopo: dimostrare che l’amore per il prossimo è indispensabile per ogni forma di vita. Un uomo incapace di amare non è più un uomo. Lo scopo del “solarismo” è dimostrare che l’umanità dev’essere amore.» (da A. de Vaecque, Andrej Tarkovskij, in “Cahiers du Cinéma”, 1989, p. 108). [7] Gv 8, 12. [8] F. Borin, L’arte allo spechio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, Roma, Jouvence, 2004, p. 196. [9] “… tutti erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. [10] In T. è la fede stessa a rappresentare l’icona cinematografica: la pioggia, il filtro dorato imposto alle inquadrature, i lunghi e lenti piani-sequenza, sono tutti elementi che concorrono all’incarnazione materiale in immagine dell’icona di fede, l’icona ortodossa dal fondo oro. L’epifania dell’iconostasi tarkovskijana si ha in particolar modo nella scena “onirica” dello Stalker, in cui la macchina da presa, lentamente, dipinge un’icona bizantina sullo schermo servendosi di una superficie acquorea e del fondo oro, fino ad arrivare alla figura in posizione fetale dello Stalker “rinato” nel liquido amniotico della fede (https://www.youtube.com/watch?v=NmpeO3B4Mas) [11] Da Stalker. [12] S. Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, cit., p. 39. [13] F. Borin, L’arte allo spechio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, cit., p. 197. [14] R. Berinde, Entrando nella stanza. Metafore spaziali come dialogo tra A. Tarkovskij e I. Bergman, in «Rifrazioni. Dal cinema all’oltre», 6, 13 (2014), pp. 167-181. [15] Ibidem. [16] Gv 3, 19. [17] «Ma io sono un verme e non un uomo, / rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. / Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, / storcono le labbra, scuotono il capo» (Sal 22, CEI 2008). [18] S. Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, cit., p. 41. [19] Ibidem. [20] S. Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, cit., pp. 42-43. [21] Da Nostalghia.



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