“Ma quando ritorno in me / Sulla mia via, a leggere e studiare / Ascoltando i grandi del passato / Mi basta una sonata di Corelli / Perché mi meravigli del creato”
(Franco Battiato, Inneres Auge)
“Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente… coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza”
(Carlo Rovelli, Sette Brevi lezioni di fisica, 2014).
La domanda sulla fotografia
Nel 1891 la Società dei Letterati che riuniva gli scrittori francesi e di cui era presidente Emile Zola, commissiona a Rodin una statua che rappresenti il romanziere e drammaturgo Honoré de Balzac. Per anni Rodin studia lo scrittore, ne legge i testi, visita i luoghi in cui aveva vissuto, cerca di immedesimarsi in lui. Rodin non vuole una rappresentazione fedele di Balzac, cerca il suo Balzac. La ricerca è lenta, esasperata. Rodin impiega sette anni per completare l’opera. Il 30 aprile 1898 la scultura viene esposta al pubblico: Balzac viene raffigurato in piedi, completamente avvolto in una veste da camera. Le braccia si distinguono appena, si ha quasi l’impressione di una statua non finita.
Tre giorni dopo la prima esposizione, all’affermazione della stampa “Non è possibile riconoscere Balzac”, Rodin risponde: “Non è una fotografia, ma una visione del mondo”.
La nascita della fotografia risale agli anni Trenta del XIX Secolo, quando si scopre come fissare su un elemento sensibile all’interno di una camera obscura la luce riflessa dal soggetto che ne ricrea l’immagine. Fin dagli albori la fotografia venne associata ad una rappresentazione fedele del reale e con essa nasce un nuovo linguaggio che mira a fornire una conoscenza che prescinde dall’esperienza. A tal proposito, citiamo le parole di Susan Sontang (1979): l’importanza delle immagini fotografiche, come medium grazie al quale una quantità sempre maggiore di eventi entra a far parte della nostra esperienza è, a lungo andare, solo una conseguenza indiretta della loro efficacia nel fornire conoscenze scisse dall’esperienza e da esse indipendenti.
La nostra vita è inflazionata di immagini. “D’altronde, con la loro onnipresenza, grazie alla regola oggi universalmente applicata del mostrare tutto, del tutto-visibile, le immagini, le nostre immagini reali, sono diventate sostanzialmente pornografiche, perché sposano spontaneamente il volto pornografico della guerra”(Jean Baudrillard, “Pornografia del terrorismo). Il sociologo francese, approfondendo la pornografia del tutto esposto - nuova forma di terrorismo contemporanea - analizza il serbatoio di immagini poste brutalmente e continuamente nel reale. Queste ultime pongono gli individui nella condizione di ostaggio della non verità, detto in altri termini, dell’impossibilità di distinguere tra realtà e finzione. Nonostante tutto, l’immagine gioca un ruolo centrale per l’individuo, ovvero dà la possibilità di attribuire alla realtà un senso di permanenza. La fotografia, quindi, è paradossale, perché, nonostante raffiguri qualcosa che è passato e attualmente non esiste, è comunque in grado di resuscitarlo e farlo rivivere nel presente. Pertanto, prendendo in prestito le parole di Roland Barthes in La camera chiara (1980): “Ogni fotografia è un certificato di presenza. Questo certificato è il nuovo gene che l'invenzione della Fotografia ha introdotto nella famiglia delle immagini […] come l’ectoplasma di «quel che era stato»: né immagine né reale, ma un essere nuovo in tutto e per tutto: un reale che non si può più toccare”. Lo strumento fotografico ha la capacità di protrarre nel tempo delle immagini che portano in sé significati ed emozioni, dando spazio da un lato all’immaginazione nel presente e dall’altro ereditando le memorie del passato.
Il limite della conoscenza acquisita tramite l’immagine fotografica potrebbe però risiedere nel fatto che quest’ultima è sempre il risultato dell’interazione tra il fotografo e il soggetto rappresentato.
Risulta quindi interessante interrogarsi a proposito della produzione delle immagini: come si crea un’immagine o un lavoro fotografico che sposi valori di umanità, che scavi in profondità e che favorisca l’incontro? Perché un’immagine diventa iconica?
Il concetto di interazione tra fotografo e soggetto rappresentato viene ripreso anche da Luigi Ghirri (2010). Secondo la sua visione, la fotografia diviene un modo di relazionarsi con il mondo, la ricerca di un equilibrio tra mondo esterno e interno: “Perché io credo che, dietro ai disastri dell’ambiente, a parte i meccanismi insiti in un determinato tipo di sviluppo, vi sia una disaffezione che l’uomo ha sviluppato nei confronti del suo ambiente, alla quale ha corrisposto una fondamentale incapacità di relazionarsi con l’ambiente attraverso le rappresentazioni. Quindi il recupero della rappresentazione visiva, oltre alla parola o all’informazione tecnica, come strumento di relazione con il mondo, il rapporto con l’ambiente, può avere un grande peso culturale e una grande efficacia”. A proposito della fotografia di Luigi Ghirri, Celati scrive: “Le sue fotografie ci insegnano che il mondo prende forma perché qualcuno lo osserva. Prende forma quando qualcuno sente il desiderio di contemplarlo [...] non di invaderlo o di massacrarlo per farsi strada”.
Tramite la fotografia tutto ciò che esiste può acquisire dignità. Estrapolando immagini dal reale, infatti, il fotografo ci guida nell’osservazione di dettagli che sfuggono al continuo divenire della vita. Citando Ferdinando Scianna (2021): “Il cinema, partendo dalla fotografia, ha dato vita ad un linguaggio di straordinaria duttilità, che attraverso il montaggio, per esempio, giunge fino alla finzione di un tempo della vita che può includere nel presente i secoli, la memoria dell’infanzia, il futuro. […] Macchina portentosa per creare emozioni altrettanto portentosamente subito levate via dalle emozioni successive. Magnifico marchingegno per ricordare e contemporaneamente anestetizzare e dimenticare. La vita, insomma, come spettacolo visto da un treno in corsa. Ma se sei stato colpito da un volto di una ragazza e vuoi saperne di più, sapere di che colore sono i suoi occhi, che sfumatura ha la sua espressione, allora devi scendere dal treno, come dice il mio amico e gran fotografo Gianni Berengo Gardin, devi avvicinarti e farle una fotografia”. In sintesi, la fotografia offre una possibilità di vicinanza e approfondimento ponderato e attento del reale includendo emozioni, azioni e pensieri che muovono quel contesto di realtà.
Una delle foto più iconiche sulla guerra scattata da Robert Capa (Il miliziano spagnolo) è stata definita da alcuni commenti della stampa del tempo poco affidabile, addirittura accusando il fotoreporter di aver
scattato la foto del miliziano durante degli esercizi di addestramento e non in battaglia. Successivamente, si è identificato il soggetto ritratto come Federico Borrell Garcia, colpito a morte nel momento e nel luogo della foto realizzata dal reporter il 5 settembre del 1936 a poche miglia da Cordoba. Parlare di verità è ovviamente complesso, ha dichiarato il reporter, che sostiene di essersi permesso di andare a volte leggermente al di là di essa poiché tutti gli eventi e le persone che racconta hanno qualcosa a che fare con la verità. Secondo il suo pensiero, c’è un taglio dell’evento che può mostrare più dell’intera scena anche a chi non era presente durante il suo manifestarsi. Quest’immagine, infatti, conosciuta anche fuori dai territori della fotografia, va al di là del soggetto rappresentato e oltre il luogo dove l’evento si manifesta e incarna l’universale brutalità della guerra, abbracciando le terribili conseguenze e il dolore che quest’ultima genera in qualunque parte del mondo.
Per quanto un approccio popolare alla fotografia possa inserire quest’ultima all’interno di una schiavitù e precisione descrittiva, si può anche scegliere una lettura, probabilmente minoritaria, che fa appello alla soggettività, all’autorialità e al lavoro simbolico dell’atto fotograficocon una patina di verità intrisa di filtri culturali e ideologici. Se intendessimo ontologicamente la fotografia senza alcuna mediazione esterna e senza interpretazione, considereremmo una trasparenza di un dispositivo che non include un determinato stato mentale davanti ad un’immagine riconosciuta come fotografica. Il mito dello specchio come contenitore di verità, di cui la fotografia spesso è stata metafora, si è disgregato col tempo, in quanto superficie riflettente carica simbolicamente in termini di conoscenza e contenitore dell’azione riproduttiva del vedere ma anche dell’azione speculativa. La fotografia contemporanea può soffrire di questo rigido dualismo a cui è sottoposto il fotografabile, e per estensione il reale, che separa nettamente la registrazione contingente dell’esperienza in cui l’io e la società interagiscono asetticamente e la visione della realtà come mera costruzione sociale e ideologica. La fotografia come linguaggio, tuttavia, funge da ponte tra oggetto e soggetto, tagliando il cordone ombelicale tra immagine e materia. Allontanandosi da una lettura dualistica, il significato si può trovare nella fragilità perché 'le immagini fragili divengono apparenza o impronta, finzione o indizio, ma proprio grazie a queste caratteristiche converremo nella trasmissione dei valori più intangibili e fragili dell’essere umano’. Fotografare diventa quindi un modo di estrarre l’invisibile dallo specchio e rivelarlo.
Cercando di rispondere agli interrogativi sulla fotografia documentaria, l’International Center of Photography di New York parla di una pratica in grado di alterare il meno possibile ciò a cui si vede, seguendo uno stile e un approccio di comportamento che rafforzi l’estetica , ma senza interferire con l’apparenza di autenticità del contenuto. Premesso che non esiste atto umano esente da manipolazione, tutto è propaganda di ciò in cui si crede, è più corretto parlare di verosimiglianza che di verità .
Ciò che risulta fondamentale, per una fiducia in tale verosimiglianza fotografica, è una maggiore coscienza critica. Quest’ultima consiste in un allontanamento dall’autoritarismo di certi discorsi di deriva del realismo fotografico a favore dell’esercizio del dubbio: essere in grado quindi di individuare semplificazioni, bugie o mezze verità che riceviamo dall’informazione visuale, e di conseguenza, neutralizzare gli interessi sottesi. Bisogna preoccuparsi di favorire una coscienza in grado di indurre il lettore delle immagini a non chiamare arte, che ricorre spesso a falsificazioni, ciò che è giornalismo. Le fotografie non hanno il compito di giustificare o confermare il nostro discorso, ma di saper mettere in dubbio gli assunti su cui gli altri fondano le loro verità, contestare un ordine visuale basato sull’evidenza fotografica e di conseguenza agevolare la restituzione dell’illusorio alle trame simboliche dell’immagine che continuano ad essere la produzione della realtà (Fontcuberta, 2022).
Non in tutti i territori della fotografia è urgente la domanda sulla “verità”, come nell’ambito del fotoreportage. Tuttavia, la ricerca di definizioni tra le aree della fotografia è costante ed è per questa ragione che si vuole anche fare chiarezza. Spiegare e rispondere a domande come: “per fotoreportage cosa intendi?” Al fotogiornalismo sarà dedicata una sezione che si distinguerà dalla sezione dedicata alla fotografia d’autore.
L’obiettivo della rubrica, in conclusione, è quello di introdurre e favorire il dialogo sul linguaggio fotografico, educando lo sguardo ad una visione diversa da quella di massa ed imparando a riconoscere la visione del mondo degli autori che verranno presentati.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Barthes R. (1980), La camera chiara, Torino: Einaudi
Baudrilland J. (2017), Pornografia del terrorismo, Milano: Franco Angeli.
Capa R. (2019), Leggermente fuori fuoco, Milano: Contrasto Editore.
Fontcuberta J. (2022), Il bacio di Giuda. Fotografia e Verità, Milano: Mimesis edizioni.
Ghirri L., (2010), Lezioni di fotografia, Macerata: Quodlibet.
Sontag S. (1969 ), Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Torino: Einaudi
Zoja L., (2018), Vedere il vero e il falso, Torino: Einaudi.
SITOGRAFIA
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