Testo di: Federico Metri
Editing a cura di: Yuri Sassetti e Andrea Peverelli
La masterclass tenuta da Jia Zhang-ke a Milano al Cinema Godard è iniziata in ritardo, non poteva essere altrimenti per un regista che ha sempre abitato la dimensione della dilazione. Nato nel 1970, proviene da Fenyang nello Shanxi, una delle regioni più isolate e povere della Cina, e per molto tempo non ha vissuto nello stesso spazio vitale di Pechino o Shanghai o le altre metropoli cinesi, ma in un non-luogo dove la Storia era soltanto percepita e ascoltata, dove i repentini mutamenti sociali degli anni Settanta e Ottanta erano echi lontani trasmessi dalle radio, e il massacro di piazza Tienanmen nel 1989 semplicemente un evento troppo distante rispetto alla quotidianità di un diciannovenne circondato da miniere di carbone e sterminati campi di grano.
Ed è proprio la percezione di questo forte contrasto tra una Cina immobile percepita e una Cina magmatica ascoltata che risveglia in Jia Zhang-ke un estremo bisogno di raccontare quello che vede e soprattutto quello che ancora non ha visto. Ho iniziato a studiare critica cinematografica quasi senza mai aver visto un film, i film potevo solo leggerli, a scuola arrivavano pezzi di sceneggiature e semplici script. All’università ho iniziato invece a vederne molti, soprattutto quelli della quinta generazione di registi cinesi, e dopo aver visto Yellow Earth di Chen Kaige è cambiato tutto, ho capito realmente che il cinema poteva essere il mezzo giusto per esprimermi, dice di fronte alla sala gremita.
Ciò che rende Jia Zhang-ke uno dei registi asiatici più importanti e influenti del panorama cinematografico internazionale è proprio l’essere arrivato dopo, tramite un approccio lento e asimmetrico al cinema, dove la parola ha reciso la ferita prima dell’immagine; e l’aver maturato una certa insoddisfazione nel cinema cinese del tempo perché la quinta generazione, quella laureata durante la rivoluzione culturale (Chen Kaige, Zhang Yimou), si esprimeva dentro una dimensione attenta al passato, alle tradizioni, a una Cina lontana da quella rurale, agricola e immobile che conosceva lui. Il cinema che osservavo non parlava di noi, dei nostri problemi. Non capisco come i cineasti degli anni Ottanta e Novanta non abbiano avuto il coraggio di parlare del presente, delle contraddizioni e delle complesse dinamiche sociali della Cina, ma anzi abbiano ambientato tutto dentro un passato lontano, dentro un’immagine patinata, bella, costruita, finta, mentre io dalla mia camera vedevo soltanto miniere, polvere, grigio, rumori assordanti.
Ed è da questo presupposto estetico e politico che il cinema di Jia Zhang-ke si sviluppa e prende vita. Sulla pelle gli si imprime lo shock di vedere quella Cina magmatica ancora più immobile di quella che aveva conosciuto e calpestato fino a quel momento; e allora il concetto di presente e il catturare l’estrema finzione della realtà diventano il fulcro centrale. Assorbe tutto quello che dall’esterno percepisce come utile e funzionale (Nouvelle Vague francese e Neorealismo italiano) e in pochi anni scrive e gira tre lungometraggi (Xiao Wu, Platform e Unknown Pleasures) che riescono a imprimere l’idea e la volontà di un cinema asiatico trasversale, che viene censurato in patria e incentivato e supportato dall’occidente (Xiao Wu presentato al Festival di Berlino nel 1998 e Platform a Venezia nel 2000), fino a vincere nel 2006 il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo film più enigmatico, Still Life, e successivamente continuare a sperimentare e a cambiare lente visiva e narrativa per indagare ciò che più gli preme catturare e restituire: il cambiamento e i movimenti interni di un paese che non lo vuole, che si sente smascherato, che lo lascia andare via, ma che lui non abbandonerà mai.

I lungometraggi del regista di Fenyang sono viaggi all’interno di un presente immobile, che non riesce ad avanzare: il tempo scorre ma è sempre infangato e immobilizzato da luoghi e persone chiuse in un istante ermetico. Temporalità e memoria sono però ogni volta coordinate sfruttate e inserite all’interno di personaggi che percorrono diverse linee sempre vestiti da sonnambuli alla disperata ricerca di spazio vitale, di un posto nel mondo, incessantemente a contatto e a contrasto con il cambiamento e il progresso imposto dal di fuori. Piccoli ladri di quartiere, mestieranti, minatori, disoccupati, borghesi, mafiosi: Jia Zhang-ke non lascia indietro nessuno, ogni sfaccettatura sociale viene messa sotto la lente d’ingrandimento di una focale vicina e chirurgica e ne emerge sempre un vagabondare libero e incosciente dentro un confine che invece li spinge all’ordine, all’essere fermi e asserviti a un’autorità sempre più invisibile e sfuggevole.
Lo sguardo si pone al centro, senza giudizio, tra una Cina che avanza – che si occidentalizza costruendo enormi dighe, autostrade infinite che collegano città a milioni di chilometri di distanza, che costruisce edifici enormi in occasioni delle Olimpiadi – e l'essere umano che annega e non respira all’interno di un cambiamento fittizio e che non fa altro che assicurarsi che nulla cambi nei rapporti di forza tra individuo e istituzione.
Approcciarsi a Jia Zhang-ke significa entrare nell’irrisolto, bagnarsi di un senso concreto di impossibilità e immobilità. Guardare inermi dei personaggi incapaci di muoversi, di spostarsi, di evolvere, restituisce la più lampante dicotomia che la Cina del nuovo millennio ha indotto in sé stessa. In ogni film, sullo sfondo, c’è qualcosa che viene costruito (in Unknown Pleasures un’autostrada, in Still Life il mastodontico progetto della diga delle Tre Gole) e che si scontra con chi si muove vicino - in Still Life molti centri urbani devono essere evacuati, in Unknown Pleasures si apre la possibilità di andarsene da un paesino minerario. Un cambiamento imposto e trasmesso come principio autoritario che elimina ogni forma di evoluzione per celebrare l’ego di un’intera nazione. In Unknown Pleasures la costruzione di una strada, simbolo di collegamento e progresso, non fa altro che unire ciò che resta immobile; microcosmi fermi e incapaci di spostarsi, di evolvere; chi resta fermo muore da solo, chi si muove muore da solo. Il futuro non esiste, non ha dimensione, non ha tridimensionalità. Sembra non esserci via di scampo.

E invece uno spiraglio esiste: per Jia Zhang-ke l’unica via d’uscita è l’incontro, il contatto umano: vere e proprie congiunzioni epifaniche in cui si realizzano alleanze, si affermano identità in luoghi sterili e immateriali. La luce è trovare la forza di muoversi nell’immobile, di aprire bene gli occhi e comprendere che la salvezza è dentro un gesto, una canzone cantata al karaoke con una sconosciuta (Xiao Wu), nello scendere dal motorino e salire su un camion verso l’ignoto (Unknown Pleasures), nel partire e cercare il proprio figlio (Al di là delle montagne), nel ballare un’ultima volta con l’uomo che ti ha ferito (Still Life): azioni dedite non a riempire lo spazio vuoto di un prima o un dopo, ma a resistere all’adesso.
Jia Zhang-ke lo mostra con un cinema sempre più democratico, ampio: un campo largo per consentire a chi guarda di scegliere cosa guardare, su cosa concentrarsi; un piano sequenza per non interrompere il flusso di un’immagine che vuole restituire il reale cucito dentro la sua totale finzione. I miei film, soprattutto nella prima parte della mia carriera, sono rozzi, sporchi, rumorosi, Volevo che si sentisse e si percepisse la realtà di una Cina che non viene mai raccontata: le radio che trasmettono la Storia, la polvere in faccia, il suono dei campi e delle miniere. Anche negli ultimi, che sono più formali e maturi, ho cercato di catturare la bellezza, che per me non è altro che trasmettere il naturale, il privo di controllo, incastrare nello schermo quello che si percepisce per strada. Un’evoluzione che significa continuare a cercare quella scintilla indefinita: una ricerca perenne che non si interrompe ai confini dello sguardo cinematografico, ma che è capace di sbordare e attraversare i limiti di un paese e di un’idea. Perché alla fine per Jia Zhang-ke il messaggio da trasmettere e promulgare è uno e universale: il movimento persistente compiuto nell’immobile ci salverà.
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