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L’indicibile che può essere raccontato: la ricerca del senso e il rifugio nell’Altrove nella letteratura contemporanea norvegese


 

Testo di: Gianmarco Rossi

Editing di: Yuri Sassetti e Andrea Peverelli

 

 

In Norvegia si scrivono i thriller. In generale è questa l’immagine che un lettore medio italiano ha di questo Paese e di quelli scandinavi in generale. Ciò è dovuto alla popolarità che hanno in Italia scrittori come Jo Nesbø o Anne Holt, autori di bestseller che contribuiscono al processo di stereotipizzazione di una letteratura e di un’identità culturale che, spesso, non trova riscontro con il vero.

Prima di affrontare la questione, prendendo ad esempio alcuni scrittori norvegesi, è necessario soffermarsi sul ruolo che ricopre oggi questo Paese. Il Nobel per la letteratura 2023 è stato assegnato a Jon Fosse per «le opere teatrali e i romanzi innovativi che hanno dato voce all’indicibile» e ciò basterebbe a dimostrare come non solo il luogo comune che vede la Norvegia patria dei thriller sia inesatto, ma anche come questo Paese inizia ad avere un ruolo sempre più centrale nella Repubblica mondiale delle lettere.

Nell’ideale suddivisione del mondo – proposta da Pascale Casanova nel 1999 – il mondo letterario viene definito come un agglomerato urbano, con centro e periferia. Il centro – per svariati fattori – è inevitabilmente Parigi[1] attorno alla quale orbitano una moltitudine di realtà alternative che subiscono l’influenza del centro e che, a volte, invertono la tendenza[2].

In questo preciso momento storico il centro ideale della «Repubblica» probabilmente non è più Parigi[3] e inizia a ritagliarsi sempre più un ruolo da protagonista la Norvegia (intesa come luogo tout court e senza tener conto delle moltitudini in cui è suddivisa) che si pone sullo stesso piano dei tanti semicentri di questo vastissimo sistema. D’altra parte Fosse vince il Nobel e altri autori norvegesi da tempo sono tra i favoriti[4], si pensi a Dag Solstad e Karl Ove Knausgård. Quest’ultimo da qualche tempo gode di una certa popolarità anche in Italia, ciò è dovuto alla pubblicazione di Min kamp (“La mia lotta”, edito da Feltrinelli e tradotto da Margherita Podestà Heir), libro autobiografico che ha reso l’autore celebre in tutto il mondo ma anche – e soprattutto – una delle migliori voci della Norvegia, nonché elemento di spicco della Weltliteratur.

Fosse e Knausgård non sono autori molto distanti e – cosa interessante – sono stati, per un breve periodo, entrambi in un’Accademia di scrittura di Bergen. Fosse insegnava e Knausgård era un suo studente, come lo stesso riporta in “La mia lotta”:

 

“Jon Fosse, 27 anni, laureato in scienze della letteratura e docente presso l’Accademia di scrittura della contea di Hordaland, ha pubblicato quest’anno il suo quarto libro” e io provai un certo orgoglio perché frequentavo l’Accademia di scrittura, era quasi come se parlassero di me[5].

 

Ciò che lega i due, mantenendo comunque una certa distanza, non è solo il rapporto docente-studente, ma soprattutto il legame con il metafisico. In Mattino e sera, Jon Fosse racconta una storia semplice, delineata e prevedibile che però tiene il lettore incollato alla pagina. Lo fa con una lentezza calcolata, con un modernismo che sembrava ormai essere superato[6], ma soprattutto con un coinvolgimento tale da portare il lettore a porsi gli stessi interrogativi dell’autore, a chiedersi sempre cosa sia il senso e cosa comporta la sua ricerca, a interrogarsi sul dopo, sull’Altrove baudelairiano: «l’esortazione a librarsi al di sopra di stagni, valli monti, boschi, nuvole, mare, sole, etere, stelle, in una sfera di fuoco ultraterrena che purifica dai miasmi del terreno»[7].

 

È pericoloso? dice Johannes

Pericoloso no, dice Peter

Pericoloso è una parola, non esistono parole dove andremo, dice Peter

Fa male? dice Johannes

Non esistono corpi dove andremo, quindi non esiste dolore, dice Peter

Ma l’anima, là si si soffre nell’anima? dice Johannes

Non esiste nessuna sofferenza, nessun tu e io dove andremo, dice Peter

Si sta bene lì? dice Johannes

Non si sta né bene né male, ma è grande e tranquillo e vibrante, se devo dirlo con parole che non dicono molto, dice Peter[8]

 

Si evince uno spirito dedito alla ricerca dello scopo umano, uno scrittore interessato alla non-realtà che vede come punto di contatto con Ibsen e Beckett (scrittori a cui spesso viene associato) solo la distruzione del principio realistico; cosa che rende Fosse universale nonostante i forti tratti di scrittore nordico. Il romanzo di Fosse è un viaggio introspettivo nell’esistenza di un pescatore che nasce, vive e muore. Da mattino a sera, come una marea che con moto lento e regolare funge da metronomo all’esistenza di un uomo che non cerca scopo e collocazione, ma aspira alla trasmigrazione dell’anima.

Knausgård, invece, evoca il sublime. Se è vero che «l’arte […] è il modo umano di disporre la materia sensibile o intellegibile a uno scopo estetico»[9] , va detto che «chi tende continuamente verso l’alto deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine»[10]. Ciò che accade in Knausgård è esattamente questo: il suo richiamarsi costantemente a un Altrove, la sua manifesta volontà di raccontare del lettore attraverso la narrazione della sua vita, ri-producendo così quanto già fatto da Proust. Arriva perennemente a chiedersi quale sia la propria collocazione nel mondo, quale sia il senso e a cosa serva l’arte, la scrittura. Ciò è dovuto all’influenza di Joyce ma anche del suo maestro, Fosse:

 

Fosse è uno scrittore che è passato dal descrivere il mondo così com’è, gli incubi social-realistici dei suoi primi romanzi incentrati su cose e relazioni piccole e ineluttabili, sature di nevrosi e panico, alla descrizione del mondo così come è veramente, cupo e aperto. Dal mondo così come può essere nel singolo individuo, al mondo così com’è tra di noi, è questa la linea evolutiva della sua produzione letteraria. La svolta verso Dio[11] e il divino ne sono una conseguenza. Tutti coloro che nelle proprie opere esplorano le condizioni dell’esistenza prima o poi devono affrontare questo aspetto. L’elemento umano possiede un limite interiore e uno esteriore, tra di essi si trova la cultura, che rappresenta ciò in cui appariamo a noi stessi[12].

 

“La mia lotta” è un enorme romanzo di sei volume che supera le tremila pagine, in cui lo scrittore, ripercorrendo proustianamente le tappe della sua vita attraverso ricordo e memoria, giunge a riflettere sul suo conflittuale rapporto con il padre, in grado di influenzare ogni singola azione che compie. Solo l’indefinito, quell’eterno domandare senza ricevere risposta, quella attrazione verso la Luce, declinata in molteplici modi, sembra appagare l’anima inquieta di Knausgård; non è un caso, allora, che questo tendere al Sublime sia un’attività che non può staccarsi dallo scrivere, l’unica sua vera ragione di vita:

 

La brama di realtà, la brama di autenticità non esprime altro che il desiderio di un significato, e il significato scaturisce dalla coesione, dal mondo in cui siamo relazionati tra di noi e ai nostri ambienti. è per questo che scrivo, cerco di scandagliare i legami di cui faccio parte, e quando provo questo afflato verso l’autentico anch’esso è un nesso che devo investigare. […] la guerra e l’arte tendono entrambe verso il punto più estremo dell’esistenza, cioè la morte, sul cui fondo sfondo riluce la vita che, che di colpo diventa qualcosa di prezioso e inalienabile, dunque carica di significato[13].

 

Knausgård affronta con filosofia solida e labile spiritualità il concetto esistenziale, lo fa fondando la sua teoria su Heiddeger, Nietzsche, Mann, Kafka e tutta quella generazione di scrittori norvegesi che – proprio come lui e Fosse – hanno un rapporto diretto e particolare con l’altrove.

Mostrare l’indicibile, dar voce a ciò che apparentemente non è avvicinabile e dimostrabile, è il fulcro della letteratura norvegese contemporanea, satura di romanzi con forme pacate e sperimentali in cui si mostrano e affrontano le fragilità e le paure che da sempre tormentano l’individuo.

Anche in Tore Renberg, autore noto ora in Italia per La mia Ingeborg – nonché amico di Knausgård[14] – affronta la questione del sublime, dello slancio che può tendere verso l’alto (come Baudelaire e Knausgård) oppure portarti nel fondo, abbassandoti (come Rimbaud e Fosse).

 

Sono Tollak di Ingeborg.

Appartengo al passato.

Lungi da me l’idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte[15].

 

e ancora:

 

Mia moglie, la mia amatissima Ingeborg, a volte sentiva il bisogno di andare in chiesa.

Io ho il mio Dio, diceva, che tiene le sue mani sopra di me.

Mi passava la lingua sugli incisivi, deglutendo la pulsione di alzare le mani su di lei. Mi trattenevo, ma le dicevo cosa pensavo della questione.

Fino a che punto arriva la tua debolezza?, le chiedevo.

Tollak, Tollak, mi rispondeva con un sospiro.

Le lanciavo un’occhiata cattiva[16].  

 

Tralasciando lo stile e la prosa: diretta, con cadenze regolari come una scarica di mitragliatrice, si osservi come, anche in questo autore, il discorso spirituale ricopra un ruolo sostanzialmente centrale. Non lo affronta con la pacatezza e la riflessione lenta di Fosse, non lo fa con la filosofia e la comparatistica da letterato sopraffine di Knausgård, ma con l’impeto travolgente di un romanziere che va dritto al punto.

Giungere a una conclusione è operazione complessa ma necessaria. La letteratura norvegese contemporanea, come la grande letteratura universale, affronta una quantità sterminata di tematiche e lo fa con voci affini, ma con distanze notevoli e ben marcate. L’aspetto metafisico e spirituale, che si mostra decadente e salvifico, vero e immaginario, è un tassello fondamentale per approcciarsi a parte dell’opera degli scrittori analizzati; nei loro testi, infatti, ci si guarda intorno e si scopre la società norvegese che da particolare si fa universale: ecco allora le debolezze quotidiane dell’individuo moderno, le paure, le ansie, le ossessioni.

La ricerca del senso non è altro che la ricerca dell’Assoluto, che porta con sé altre domande e raramente risposte soddisfacenti. Si potrebbe affermare che il senso di buona parte di questa letteratura sia l’analisi del dubbio e del rapporto con l’io. Ciò che è certo, però, è che il cliché della Norvegia patria dei thriller non sta più in piedi da anni; lentamente questa consapevolezza sta arrivando anche in Italia e ciò si deve anche, e soprattutto, a Fosse, Knausgård e Renberg.

  


 

 

[1] Vedi Casanova P., La Repubblica mondiale delle lettere, Edizioni Nottetempo, Milano, 2023.

[2] Rossi G., La Weltliteratur e la nuova «Repubblica delle lettere», in «IRdE Journal», 6 dicembre 2022.

[3] Oggi, tuttavia, è impreciso parlare di un unico centro (come lo era già nel 1999); Svariati studiosi, Buescu e Prendergast su tutti, hanno mostrato come esistano vari centri e come questi di influenzino vicendevolmente. La suddivisone ideale, come sostenuto anche da Franco Moretti, dovrebbe rifarsi al sistema-mondo di Wallerstein.

[4] La lista ufficiale dei candidati viene diffusa dall’Accademia svedese dopo cinquant’anni.

[5] Knausgård K. O., La pioggia deve cadere, Feltrinelli, Milano, 2019, p.88.

[6] La prosa di Fosse, infatti, è asciutta e martellante ma soprattutto è priva di punteggiatura, eccezione fatta per virgole e interrogativi.

[7] Friedrich H., La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano, 20162, p.47.

[8] Fosse J., Mattino e sera, La nave di Teseo, Milano, 2023, pp. 148-149.

[9] Joyce J., Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, Adelphi, Milano, 19906, p.252.

[10] Kundera M. L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 198928, p.71.

[11] Fosse da molti anni si è convertito al cristianesimo.

[12] Knausgård K. O., Fine, Feltrinelli, Milano, 2022, p.19.

[13] Ivi, p. 695.

[14] Renberg e Knausgård sono due musicisti, a Bergen erano membri dei Lemen.

[15] Renberg T., La mia Ingeborg, Fazi editore, Roma, 2024, p.10.

[16] Ivi, p. 126.

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