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Le Siluetas di Ana Mendieta

 «Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che

sono sempre stata cieca – cerco di conoscere La Morte per avere meno paura,

cerco di svuotare le immagini che mi hanno resa cieca»

Leonora Carrington



Ana Mendieta nel 1982 è a New York. È già conosciuta per i suoi lavori, che, partendo dalle performance dei maestri Bruce Nauman e Vito Acconci, portano il corpo nella dimensione del paesaggio e della land art. Sarà una delle sue ultime performance (tre anni prima della prematura e misteriosa scomparsa). Viene fatta eccezionalmente in uno spazio chiuso, dove incontra in carne ed ossa il suo pubblico, che la conosceva attraverso le riprese girate da lei nel paesaggio di Cuba. Con le mani imbrattate di sangue, alza le braccia al cielo e si poggia sulla tela vuota che ha davanti. Il gesto è lo stesso ripreso in suo film del decennio precedente[1]. Si trascina quindi verso terra fino a stare in ginocchio. Abbandona la stanza e di lei rimangono due linee rosse che svettano sul muro. Il sangue l’aiuta nel lasciare traccia di questa sua discesa e sparizione.



Figura 1: Ana Mendieta, Señal de sangre, 1974, Galerie Lelong, New York, © The Estate of Ana Mendieta Collection.
Figura 1: Ana Mendieta, Señal de sangre, 1974, Galerie Lelong, New York, © The Estate of Ana Mendieta Collection.

Quel che è sempre mancato al pubblico di Mendieta è proprio lei. Non compare quasi mai nei suoi film, accenna la presenza, risultando poco riconoscibile negli autoritratti: si presenta barbuta, ricoperta di penne di polli, con mazzi di fiori sulla faccia, schiacciata e deformata contro un vetro. Si conosce la sua silhouette, silueta sangrienta, dapprima fedele al corpo di persona medio-alta ed esile, ma successivamente indistinguibile in linee o trame più astratte. Jane Blocker dedica un saggio ad Ana Mendieta, intitolato Where is Ana Mendieta? (1999), a ricalcare la domanda degli spettatori che cercano di ricostruirne il corpo e l’identità.  Siluetas (1973-1977) ed Esculturas Rupestres (1981) sono le serie di performance-film investigate nel saggio: si tratta di sagome di corpi nella natura messicana e cubana, che Mendieta scava intorno e sotto di sé nella terra arida, nella battigia umida sull’Oceano Atlantico, lasciando buchi d’erba nella palude o nelle grotte argillose. Non fosse per i filmati che, per qualche minuto, riprendono il disegno della sagoma, pioggia, vento, muschio, piante selvatiche o il passaggio di animali, ne avrebbero cancellato ogni traccia.

 



Figure 2 e 3: Ana Mendieta, Siluetas, 1973-1977, Messico-Cuba.



La critica si è occupata soprattutto di spiegare la scelta dell’eliminazione del corpo di carne dalla sua arte: si è indagato il suo esilio (fu costretta molto giovane durante la rivoluzione di Castro ad emigrare negli Stati Uniti), l’essere donna, la condizione di «membro del Terzo Mondo»[2] razzializzato dai «fiori bianchi» nordamericani. La silhoutte bucata, secondo Blocker, sarebbe connessa ad una frattura che vive all’interno di chi, non avendo una terra in cui mettere radici, corre il rischio di perdere anche il proprio corpo: «Orfandad vivo / Allá cuando se muere / la tierra que nos / cubre habla»[3] recita Dolor de Cuba, cuerpo soy (1981). In Mendieta la frattura incontra anche un livello più profondo e impersonale. In un’intervista[4] riportava: «C’è il vuoto, la terra prima di essere battezzata»[5].



Figura 4: Cristóbal León e Joaquín Cociña, La Casa Lobo, 2018, Cile.
Figura 4: Cristóbal León e Joaquín Cociña, La Casa Lobo, 2018, Cile.


Questa frattura più sotterranea è stata ripresa ed esplorata in un’ottica simile anche nel cinema degli ultimi anni, che opera la stessa scelta di Mendieta di nascondere il corpo di carne. L’image manquante (Rithy Pan, 2013) e La casa Lobo (Cristóbal León e Joaquín Cociña, 2018) costruiscono sagome intagliate nel legno o sculture di carta che si sfaldano per raccontare in stop motion esperienze di furto di terre e corpi –  rispettivamente nella dittatura Khmer cambogiana, vissuta in prima persona da Rithy Pan, e in una colonia tedesca nel sud del Cile (metafora della dittatura di Pinochet). In entrambi i film ci si pone all’interno del più ampio problema della rappresentazione “mancante”: i nuovi corpi di legno e di carta dialogano sulla questione dell’immagine con gli altri corpi di carne.



Figura 5 Ana Mendieta, Silueta, Courtesy Galerie Lelong, New York, © The Estate of Ana Mendieta Collection.
Figura 5 Ana Mendieta, Silueta, Courtesy Galerie Lelong, New York, © The Estate of Ana Mendieta Collection.


Ana Mendieta indaga la frattura da uno scorcio diverso. La sua urgenza è più vicina a quella di Antonin Artaud, che, insistendo su un “corps sans organes”, riconduceva il problema dell’immagine alla sua dimensione più fisica, come problema del corpo, di tutti. Mendieta e Artaud ricorrono al cinema non perché la rappresentazione sia il loro punto di interesse, ma perché il cinema è il modo più diretto per incontrare, modificare e toccare corpi; attraverso l’utilizzo di figure carnali, raggiungere gli spettatori in platea. La domanda che il lavoro sulla silueta fa nascere non è “dov’è Ana Mendieta?”, quale sarebbe la sua identità e sofferenza, o cosa vorrebbe dire. È più aperta: com’è fatto il corpo? Per poi, come direbbe meglio Deleuze, “cosa può il mio corpo?”.

Ana Mendieta cancella la carne, perché essere corpo non finisce con una faccia o un blocco di muscoli: «La réalité n’est pas encore costruite parce que les organes vrais du corps humain ne sont pas encore composés et placés»[6], scriveva Artaud, suggerendo che il corpo non è mai dato: si crea e si vive. «Lorsque vous lui aurez fait un corps sans organes, alors vous l’aurez délivré de tous ses automatismes et rendu à sa veritable liberté.»[7]. Andrebbe tolta la faccia, scomposta, stropicciata, e così con tutto il resto, smettendo di usare le gambe solo per camminare. Ana Mendieta prende ispirazione dal fuoco, dal sangue, dai fiori, il fango, l’oceano, per esplorarsi. Diventa Silueta Sangrienta (1975) che ribolle come pozza di sangue, si fa rossa e liquida, attecchisce alla terra fino a penetrarla, entrando in fratture sotterranee più remote (del terreno di carne?). Quindi sparisce. Qualche mese dopo riappare tra le bouganville, sbocciando in un già appassito Flower Body (1975). «Mas cuando el amor de/ patria llena mi alma/ ando dejando huellas/ en la tierra, andar/ es la victoria[8]». Trascinata via dalle onde, è già altro; grazie al mare, esplode di gratitudine e calore in Alma Silueta en Fuego (1975).

 



Figura 6 e 7: Ana Mendieta, Silueta Sangrienta ,Hong Kong, © The Estate of Ana Mendieta Collection / Ana Mendieta, Flower Body,  The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, The Judith Rothschild Foundation.


La silhoutte appare-scompare nei paesaggi, dileguandosi rifuggendo l’irrigidimento tronfio di chi si ribadisce intero, di chi impone la presenza e non sa sparire in tutto il resto. Ricorda le apparizioni-sparizioni delle silhouette luminose di alcuni cartoni animati, in cui i bambini riconoscono una situazione magica connessa ai personaggi. Nell’anime Sailor Moon la silhoutte appare in presenza di un nemico, segnale di lotta e gioia: la protagonista Usagi sparisce in un tripudio di colori, metafora di una connessione con la Luna, riapparendo nelle vesti di Sailor Moon. Così anche Goku, in Dragon Ball, nella lotta si indora di giallo brillante. I vari Super Saiyan della serie, nelle situazioni di crisi, trasformano i propri capelli colorandoli di giallo, azzurro o rosso in base al nemico che stanno affrontando.

L’indagine sulla silhouette si potrebbe allargare anche nel lavoro di un’altra regista, Maya Deren, il cui interesse verso il ritualismo e la danza è comune a quello di Mendieta, lettrice critica di Mircea Eliade ed informata di antropologia cubana, che trasmigrava all’interno delle proprie esibizioni. The Very Eye of the Night (1958) di Maya Deren è un cortometraggio che sperimenta con il negativo della pellicola, per svuotare l’immagine di corpi dei ballerini protagonisti. Le silhouttes bucate di luce vengono fatte danzare nel vuoto, con il risultato, come auspicava Artaud, «danser à l’envers, comme dans le délire des bals musettes, et cet envers sera son véritable endroit»[9].




Figura 8: Sailor Moon, Naoko Takeuchi e Jun'ichi Satō / The Very Eye of the Night, Maya Deren.


Il gesto di Ana Mendieta non vola verso l’alto come in Maya Deren: è un movimento verso il basso, sempre fedele alla terra. Non esiste corpo senza una terra. Ana Mendieta è un fiore, perché Cuba fiorisce. Ana Mendieta è fango, perché piove sulla terra. «El arte de pensar es / ver las ideas en / globo desde raíz / a fruta[10]»: tutta la sua arte l’ha imparata dal lavoro dei contadini che studiano l’evolversi della natura, ma soprattutto da talpe e procioni, i più esperti di scavi, buchi e sparizione.

  

 

[1] Ana Mendieta, Señal de sangre n°2/Huellas del cuerpo, 1974.

[2] Ana Mendieta, A Selection of Statements and Notes, “Sulfur” (XXII-1988), p. 72.

[3] «Vivo in questo essere orfana / Nel punto in cui si muore / la terra che ci copre /parla»

[4] «La mia arte si basa sul credo di un’energia universale che scorre attraverso tutte le cose […]. Le mie opere sono le vene d’irrigazione di questo fluido universale. Attraverso di loro la linfa ancestrale sale, le credenze originali, l’accumulo primordiale, i pensieri inconsci che animano il mondo. Non esiste un passato originale che si debba redimere». Ibi.

[5] Ibid.

[6] «La realtà non è ancora costruita perché i veri organi del corpo umano non sono ancora stati combinati e sistemati», Antonin Artaud, Le théatre de la cruauté (manifeste), Gallimard, Paris, 1932.

[7] «Quando avrete fatto all’uomo un corpo senza organi, lo avrete allora liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua autentica libertà», Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu, XIII, 103-104.

[8] «Quando l’amore della mia terra mi riempie l’anima / cammino lasciando impronte / andare è vittoria», Ana Mendieta, Dolor de Cuba, cuerpo soy, in Isla en la luz, a cura della Jorge M. Perez Family Foundation, Tra.Publishing, Miami, 2019, p. 45.

[9] «Danzare all’inverso, come nel delirio delle balere, e l’inverso sarà il loro autentico luogo», Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu, cit., 103-104.

[10] «L'arte di pensare è / vedere le idee / nella loro interezza dalla radice / al frutto», Ana Mendieta, Dolor de Cuba, cuerpo soy, cit., p. 45.

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