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Neuroimaging for dummies | 1: Registrare l'attività del cervello

Nel 1953 un uomo di nome Henry Gustav Molaison venne inviato all’Hartford Hospital per una valutazione di una forma molto grave e persistente di epilessia, resistente ai farmaci e a qualunque tentativo terapeutico. Il medico che lo seguì propose una soluzione tanto promettente quanto radicale, che prevedeva l’asportazione integrale del lobo temporale mediale, considerato la sede degli attacchi epilettici di cui soffriva. L’intervento chirurgico richiese la rimozione di entrambi i lobi frontali, con conseguente asportazione di tre quarti della formazione ippocampale, del giro paraippocampale e dell’amigdala e di parte della corteccia temporale anterolaterale. Quando il paziente si risvegliò gli attacchi epilettici erano del tutto scomparsi, ma qualcosa di completamente imprevisto spiazzò l’equipe medica che lo aveva seguito. L’uomo infatti non era più in grado di costruire nuovi ricordi. La sua memoria a breve termine era perfettamente funzionante, e solo un leggero danno era stato inflitto alla capacità di rievocare ricordi già formati. Per la prima volta si iniziò a ipotizzare una dissociazione [1] fra i sistemi di memoria e le aree del cervello che ne costituiscono i substrati biologici. Il paziente HM -così conosciuto da quel momento in poi- è diventato uno dei casi di studio più citati, oltre a segnalare ancora una volta la fondamentale importanza dell’indagine del rapporto fra cervello e funzioni mentali. Dietro all’importanza del caso del paziente HM c’è una logica di ragionamento che vale la pena esplicitare. Non essendo ancora padroni delle tecniche di registrazione dell’attività cerebrale, i medici che se ne occuparono dovettero affidarsi all’unica evidenza direttamente osservabile della manifestazione di una funzione cognitiva, ovvero il comportamento. Se prima dell’intervento l’uomo aveva intatte sia la memoria a breve termine sia quella a lungo termine, successivamente l’incapacità di formare nuovi ricordi a fronte della conservata memoria a breve termine segnalava che qualcosa si era irrimediabilmente modificato. Appariva dunque chiaro che quel qualcosa doveva necessariamente avere a che fare con le porzioni di cervello rimosse durante l’intervento.



Essere costretti a inferire stati mentali dal nudo comportamento è a tutti gli effetti una limitazione significativa, che casi come il paziente HM sottolineano nitidamente: almeno qualcosa del comportamento umano deve essere collegato al funzionamento del cervello e alla sua organizzazione strutturale e funzionale. Ma partire da osservazioni di tipo neuropsicologico [2] (che mettono in relazione cioè il funzionamento del cervello al comportamento a partire da danni che il cervello subisce, ricavando dalle difficoltà nell’eseguire compiti quotidiani l’informazione su cosa, come e dove funziona a partire da casi in cui quel qualcosa non funziona) non poteva essere l’unica via d’accesso allo studio del legame fra mente e cervello. Si rendeva necessario, allora, un altro modo per mettere in relazione regioni cerebrali e loro specifiche funzioni. Ed è in questo contesto che la nascita delle tecniche di registrazione dell’attività cerebrale (dette neuroimmagini [3]) si inserisce provvidenzialmente a colmare questa onerosa e importante lacuna. Immaginate di dover comprendere come funziona il motore di una macchina senza conoscerne i meccanismi. Il compito, certamente complesso, può essere svolto a partire da due livelli di informazione. Prima di tutto, l’osservazione del funzionamento della macchina, quindi la gamma di movimenti che può compiere, dalla partenza all’arresto, considerando ovviamente le sue componenti strutturali interne (volante, pedali, freno a mano, ruote motrici e così via) ed esterne (generatore, alternatore, marmitta, radiatore e via dicendo) che consentono di guidarla e mantenerla in attività (l’equivalente cioè dello studiare il cervello a partire dal comportamento). Le conclusioni che si possono trarre da queste osservazioni permettono un guadagno conoscitivo limitato e circoscritto, che per quanto possa giungere a spiegare alcune relazioni fra componenti del motore e funzionamento, non potranno esaurire ciò che è necessario a padroneggiare la conoscenza precisa e accurata su come funziona. Si potrà allora, in aggiunta, pensare di osservare cosa cambia nel funzionamento della macchina quando una o più sue componenti sono danneggiate (ed è qui che l’analogia si completa: questo secondo livello corrisponde al metodo neuropsicologico prima descritto).


Quest’ulteriore step permetterà di affinare le conclusioni tratte osservando la macchina funzionare, aggiungendo informazioni utili; tuttavia, neanche in questo modo avremmo guadagnato una conoscenza approfondita dei meccanismi alla base del funzionamento del motore. Immaginiamo allora di poter vedere cosa succede nel motore mentre la macchina si muove, in stretta contiguità temporale. Il legame allora ci apparirebbe immediato e lineare: ciascuna componente del motore, potendola osservare all’opera, sarebbe associata ad una specifica funzione, il cui insieme determinerebbe il funzionamento dell’intero meccanismo. Poter registrare l’attività del cervello mentre questo è impegnato nell’esecuzione di un compito corrisponde esattamente a quest’ultimo stadio di osservazione. Si capisce allora quale possa essere stato l’impatto di queste tecniche nello studio dei rapporti fra mente e cervello e comportamento. Le neuroimmagini consentivano per la prima volta di osservare cosa stesse avvenendo nel cervello mentre si osservava un comportamento specifico. Un’innovazione realmente rivoluzionaria, il cui impatto epistemologico fu a tutti gli effetti epocale e cruciale.


 

[1] In neuropsicologia, si parla di dissociazione quando è possibile separare la funzione di due specifiche aree cerebrali. Poniamo si osservi la relazione fra l’area A e l’area B e la funzione X, che viene indagata tramite un compito cognitivo che la identifica (ad esempio: la capacità di ricerca visiva e attentiva si può studiare richiedendo di riconoscere uno stimolo target (una freccia rivolta verso l’alto) in un insieme di stimoli distrattori presenti su uno schermo (tante frecce rivolte verso il basso)). Un’associazione fra l’area A o B e la funzione X si avrebbe nel momento si possa dimostrare che la loro attività è correlata alla performance nel compito cognitivo che misura la funzione X. In assenza dell’informazione sull’attività del cervello mentre il compito viene svolto, possiamo ottenere quest’associazione solo confrontando la performance di partecipanti sani (che hanno un cervello normofunzionante e intatto) con quella di pazienti con un danno selettivo all’area A o B. Avremmo una dissociazione fra le aree A e B solo nel momento in cui la performance nel compito dei partecipanti sani differisce da quella dei pazienti con un danno nell’area A, ma non nell’area B o viceversa.



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