L’indagine sulle opinioni politiche di Michel Houellebecq è un esercizio noto alla stampa francese sin dagli anni Novanta, senza per questo aver offerto particolari risultati alla critica letteraria, sociologica e filosofica. Una stampa che l’ha canonizzato frettolosamente, assieme a scrittori come Murray e Dantec, nel pantheon dei nuovi reazionari francesi, accostandolo a saggisti “rispettabili” come Alain Finkielkraut e a personaggi decisamente meno integri agli occhi della stessa, come Renaud Camus, teorizzatore del grand remplacement, accostamento a cui neanche la “decenza” del Goncourt è riuscito a salvarlo. Probabilmente, la confusione prodotta da questo estenuante etichettamento giornalistico ha generato solamente una certezza: diagnosticare le “vere” posizioni politiche di Houellebecq appare come irrealizzabile ancor prima che insensato.
Detto questo, è ancora lecito chiedersi se dietro alle posizioni conservatrici e ai giudizi religiosi dei personaggi tratteggiati da Houellebecq, possa emergere qualcosa di maggiormente rilevante che l’acuto esercizio letterario di un reazionario indeciso. Una risposta plausibile è che dietro alle critiche verso quelli che Houellebecq definiva i “nuovi progressisti”, che sono poi gli stessi protagonisti dei suoi romanzi, il vero fulcro polemico sia diretto verso un’ontologia sociale divenuta normativa: un “individualismo metodologico” riassumibile in due vettori ideologici, rispettivamente di stampo economico (1) e politico (2), e un vettore gnoseologico di stampo sociologico (3).
1) «l’idea che i processi economici siano la risultante di interazioni tra individui mossi dalla legge del perseguimento della massima soddisfazione in base ad un calcolo più o meno consapevole del valore delle merci in termini di utile individuale» [1].
2) «l’idea che la società sia costituita da individui e che esista in funzione degli individui la cui sicurezza e libertà diventano così il punto di orientamento assiologico dell’azione politica in opposizione ad ogni forma di collettivismo» [2].
3) «l’idea che i processi sociali vadano studiati considerando gli individui come unici centri propulsori in termini di coscienza e volontà (le istituzioni non “pensano” e non “vogliono”) e che per interpretare i processi sociali sia dunque necessario mettere in atto dei processi di comprensione dell’agire» [3].
Se questo paradigma si trova alla base di una lunga serie di epifenomeni analizzati da Houellebecq, l’incontestabile valore dello scrittore francese è di mostrare criticamente come la tendenza all’estremizzazione appaia spesso come l’unica risposta esistenziale concessa ai suoi personaggi, proprio perché “incubata” dallo stesso individualismo metodologico. Il “sociale” verrebbe allora recuperato nei romanzi di Houellebecq attraverso un estremismo disperato, i cui mezzi sono quelle formazioni reattive che emergono sintomaticamente dal negativo della nostra epoca. Negativo di cui lo scrittore francese sceglie di farsi carico, restituendocelo nella forma estetica del romanzo.
Anatomia della civilisation
Houellebecq non è un reazionario. Se non ha mai risparmiato critiche verso un sistema culturale che affonda le sue radici nel 68, nella Rivoluzione francese o addirittura nella Riforma protestante (dipende dai romanzi, spesso in tutte e tre), non crede sia possibile impostare attivamente un parziale ripristino di istituzioni sociali desuete: «un reazionario è qualcuno che ritiene preferibile uno stato precedente dell’organizzazione sociale, a cui è possibile ritornare, e che milita in questo senso. Ora, se c’è un’idea, una sola, che attraversa i miei romanzi, a volte fino all’ossessione, è proprio quella dell’assoluta irreversibilità di ogni processo di degradazione una volta iniziato» [4]. Eppure, come abbiamo detto, nei suoi romanzi permane la critica feroce alla quasi totalità delle istituzioni neoliberali, il cui spirito generale può essere accostato, fra le altre cose, a un passo de La democrazia in America che Houellebecq ha citato in più occasioni, sostenendo che contiene “la totalità di ciò che ha scritto”:
Immaginiamo sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria [5].
Non solo, se in Tocqueville l’individuo aveva ancora una famiglia o delle amicizie, di tutto ciò negli scritti di Houellebecq non resta sostanzialmente più nulla. Resterebbe invece un nuovo soggetto che si discosta dai tipici caratteri delle rivoluzioni moderne a cui è sopravvissuto, un “nuovo progressista”, il quale, a differenza del vecchio, «non identifica il progresso attraverso il suo contenuto intrinseco, ma attraverso il suo carattere di novità. Vive insomma in una sorta di epifania permanente, molto hegeliana nella sua stupidità, in cui tutto ciò che appare è buono per il semplice fatto che è apparso» [6]. Insomma, se Houellebecq non è un reazionario, molte delle osservazioni compiute dai suoi protagonisti – nonché molti interventi dello stesso Houellebecq – hanno un tono inequivocabilmente conservatore.
Tutto qui? Houellebecq rientrerebbe semplicemente nelle file corpose e ben frequentate degli scrittori conservatori, magari con l’etichetta pronta di un Chesterton postmoderno? Non è questo in fondo il motivo per cui restiamo incollati alle sue descrizioni, dal momento che possiamo vivere comodamente il brivido spaesante di veder messi in discussione i frutti maturi della civilisation? Forse, ma c’è dell’altro, e per vederlo occorre mettere tra parentesi le critiche alla Lindenberg [7] e gettare uno sguardo su alcune delle opinioni più scomode esposte dai suoi personaggi. Si vedrebbe allora che le posizioni apertamente identitarie che compaiono nei suoi romanzi sono sempre un tentativo disperato di uscire da un’insostenibile anomia sociale.
È ciò che leggiamo ne Le particelle elementari, grazie all’esternazioni grottesche di Bruno nel suo periodo réac, il cui apice è il pamphlet razzista che consegna a Sollers con la sincera speranza di venire pubblicato. Ma una volta consegnato il manoscritto, una volta ricevuto il rifiuto sorridente dell’editore, la parentesi di Bruno si rivela per ciò che è: lo sfogo disperato di un bobo (bourgeois-bohème) che ha perso irrimediabilmente il suo posto nel mondo. Ed è lo stesso Bruno a comunicarcelo:
Avrei potuto iscrivermi al Front National, ma a che prò mangiare choucroute con una banda di cretini? E comunque le donne di destra non esistono, e quelle che esistono scopano solo coi paracadutisti. Quel testo era un’idiozia, lo gettai nel primo bidone della spazzatura che mi capitò a tiro. Occorreva che conservassi il mio posizionamento ‘sinistra umanista’, era l’unica possibilità per riuscire a cavarmela, ne avevo l’intimo convincimento [8].
Va infatti notata una cosa, rispetto ai caratteri associati da Boltanski ed Esquerre alla destra contemporanea e ai suoi intellettuali, personaggi come Bruno e François si discostano per un fattore sostanziale. Gli intellettuali di destra descritti dai due sociologi, «partiti dalla critica del neoliberalismo economico, cioè del capitalismo contemporaneo, […] hanno voluto ritrovarne l’origine nel liberalismo storico – quello dei Lumi – il che li ha indotti, naturalmente, a puntare il dito contro un nuovo nemico: non più solo una minoranza di alto-borghesi e di ricchissimi possidenti, come all’epoca delle “duecento famiglie”, bensì un insieme molto più vasto e soprattutto indefinito, attualmente designato con il termine, estremamente vago, di “bobo”» [9]. Al contrario, Bruno e François non pongono alcuna distinzione noi-loro, sono anzi loro stessi a identificarsi pienamente come bobo, assolutamente coscienti dei loro privilegi e della congiuntura storica che si trovano ad abitare. Ciononostante, sembrano come trascinati verso determinate posizioni, ed è a partire da questo presupposto che dobbiamo leggere un dialogo tra François e Myriam in Sottomissione relativo al rapporto fra i sessi:
“Non ti dispiace se ti dico che sei un macho?” “Non so, forse è vero, devo essere una sorta di macho approssimativo; in realtà non sono mai stato convinto che sia una buona idea che le donne possano votare, seguire gli stessi studi degli uomini, accedere alle stesse professioni, ecc. Alla fine ci siamo abituati, ma in fondo è una buona idea?” [...] “Sei per il ritorno al patriarcato, giusto?” “Io non sono per niente, lo sai bene, ma il patriarcato aveva il minimo merito di esistere, voglio dire, come sistema sociale perseverava nel suo essere, c'erano famiglie con bambini, che riproducevano sostanzialmente lo stesso schema, insomma, girava” [10].
Le affermazioni di François non sono meno respingenti del pamphlet di Bruno, ed entrambi i personaggi sembrano condividere le sorti di uno stesso disegno: attraverso quello che Carole Sweeney ha definito un “ventriloquismo ideologico”, Houellebecq porta alla nostra attenzione il destino di una classe intellettuale, che scivola in posizioni estreme pur consapevole dei propri privilegi dati dal frequentare implicitamente o esplicitamente ciò che Bruno chiamava la “sinistra umanista”, una classe lacerata dalla coscienza di abitare l’anomia e in tensione verso formazioni reattive a cui neanch’essa crede fino in fondo.
Affermazioni respingenti, dunque, e proprio per il loro stridere col tono ingenuo di François. Ma è un tono da cui non dobbiamo lasciarci ingannare, dal momento che molte delle analisi di questo e di altri personaggi a cui Houellebecq ci ha abituato, condividono la stessa inquietudine ordinata dei pensatori sociali a cavallo tra il XIX e il XX secolo, il medesimo rigore nella ricerca dei fattori che permettono la tenuta del legame sociale. Non è un caso, infatti, se le tesi di Durkheim contro il divorzio consensuale, pur con un secolo di differenza, potrebbero uscire tranquillamente dalla bocca di François:
Il matrimonio, consentendo l’applicazione del principio del disciplinamento delle passioni, dà all’uomo un equilibrio morale che accresce la sua forza e resistenza. Assegnando ai desideri un oggetto certo, definito e, di regola, invariabile, il matrimonio impedisce agli uomini di esasperarsi nell’inseguire fini ogni giorno nuovi, ogni giorno diversi, che si esauriscono nel tentativo di soddisfazione immediata, creano un danno, scoraggiano ogni tentativo, e non fanno altro che lasciare dietro di sé fatica e disincanto. Il matrimonio impedisce al cuore di agitarsi e di tormentarsi vanamente alla ricerca di felicità impossibili o deludenti; rende più facile questa pacificazione del cuore, quell’equilibrio interiore che è la condizione essenziale della salute morale e della felicità. Ma questa consapevolezza non produce gli effetti sperati se non perché il matrimonio implica una regolamentazione stabile capace di legare stabilmente gli uomini [11].
Ciò che accomuna il protagonista di Sottomissione e il sociologo francese, è la paura (o la constatazione) che il legame sociale venga ricondotto al proprio, ovvero a una sfera di costituzione soggettiva, ignorando l’“associazione” come momento costituente e antepredicativo. Allora, in uno scenario in cui la società è intesa unicamente come sommatoria delle azioni dei singoli individui, dove al di là di ogni disegno comunitario gli unici progetti politici plausibili sono la tutela della sicurezza e l’incremento delle libertà individuali, le riflessioni “sociologiche” dei protagonisti di Houellebecq devono estendere l’austerità dell’analisi alla totalità dei fatti sociali, fino a toccare questioni che non trovano spazio nell’economia del discorso contemporaneo. Ma piuttosto che vedere in questa estensione l’identificazione ironica e compiaciuta di Houellebecq con le affermazioni più estreme dei suoi personaggi, possiamo pensare che lo scrittore francese trovi proprio in quest’ultime uno strumento privilegiato per svelare le conseguenze dell’individualismo metodologico.
L’impossibilità di una religione civile
Anche la religione – o la sua impossibilità – al pari del pensiero conservatore, ha nei romanzi di Houellebecq il compito d’indicare un vuoto sociale, uno spazio bianco sistematicamente ricoperto da ideologie non meno ridicole di quelle identitarie. Probabilmente, e lo vedremo a breve, l’elemento che denota al meglio questa compartecipazione di politico e religioso, come reazione spesso inconsapevole a un individualismo metodologico divenuto normativo, è la sovrapposizione fra islam e cristianesimo che troviamo in Sottomissione.
Ma dietro a questa sovrapposizione, che relega il religioso a una posizione reattiva, troviamo un’operazione preliminare: la neutralizzazione del religioso una volta svuotato di qualsiasi potenzialità affermativa. Operazione che lo scrittore francese esemplifica spesso col fallimento storico e ideologico delle religioni “civili”, tra le quali si staglia il progetto di Comte, figura particolarmente cara a Houellebecq. Com’è noto, il suo progetto positivista non prevedeva semplicemente un superamento dell’età metafisica e religiosa, ma la configurazione di una religione laica su basi scientiste. Un “catechismo positivista” inassimilabile alla religione civile proposta da Rousseau nel Contratto sociale o ai culti partoriti dalla Rivoluzione francese, i quali, possiamo dire, non hanno retto lontanamente il confronto con la tradizione cristiana. Come direbbe François: «la Rivoluzione francese, la Repubblica, la patria…si, ciò ha potuto dar luogo a qualcosa; qualcosa che è durato poco più di un secolo. La cristianità medievale, lei, è durata più di un millennio» [12]. Insomma, al di là della Dea Ragione e dell’Essere supremo, l’unica possibilità di rifondare su basi materialistiche qualsiasi tipo di credo è di farlo su basi scientifiche. È una delle tesi che emergono da Le particelle elementari: solo il progresso scientifico può riaprire alla possibilità di una nuova religione. Ma è proprio un dialogo fra Michel e Bruno ne Le particelle a indicare la contraddittorietà di questa tesi:
“Questi coglioni di hippy…” fece, tornando a sedersi, “sono convinti che la religione sia un passaggio individuale basato sulla meditazione, sulla ricerca spirituale, eccetera. Sono incapaci di rendersi conto che invece è un’attività puramente sociale, basata su cose concrete, riti, regole, cerimonie. Secondo Auguste Comte, l’unico scopo della religione è condurre l’umanità a uno stato di unione perfetta.” “Auguste Comte tua sorella!” ribattè Bruno, rabbioso. “A partire dal momento in cui non si crede più alla vita eterna, non esiste più alcuna religione possibile. E se la società è impossibile senza religione, come tu hai l’aria di pensare, sappi anche che non esiste più nessuna società possibile” [13].
Il disegno di Comte rappresenta infatti una classica aporia della teoria sociale: riconosce la necessità di declinare a livello sociale il suo catechismo, eppure il suo disegno nega strutturalmente ogni tipo di trascendenza. Se dunque il progresso scientifico resta l’unico elemento, alla fine delle Particelle, degno di fronteggiare la tradizione cristiana, esso non si sviluppa in senso comtiano, bensì attraverso una privatizzazione e personalizzazione delle pratiche al pari dell’infinito corollario di declinazioni new age ampiamente sbeffeggiato nei romanzi di Houellebecq. Non è un caso, infatti, se i personaggi che cercano di avviare una conversione personale falliscono miserabilmente. Sia in senso propriamente cristiano, come nel percorso che condanna François a ripercorrere i passi di Huysmans senza trovare egli stesso la conversione, sia nel senso di una generica commistione uomo-cosmo, come leggiamo nel lancinante finale di Estensione del dominio della lotta: «sento la mia pelle come una frontiera, e il mondo esterno come uno schiacciamento. L’impressione di scissione è totale; ormai sono prigioniero in me stesso: la fusione sublime non avverrà, lo scopo della vita è mancato» [14].
Ricapitolando, nei romanzi di Houellebecq:
-La Rivoluzione Francese non è riuscita, attraverso una religione civile, a portare avanti un culto secolarizzato.
-Il progresso scientifico non risulta estendibile, in senso comtiano, a un credo sociale e comunitario.
-Il riavvicinamento al cristianesimo attraverso un’iniziativa volontaristica è più volte segnalato come impossibile.
-I diversi fenomeni new age oscillano tra il ridicolo e la sacralizzazione privata di un culto del benessere neoliberale.
Solo una volta fissati questi punti la sovrapposizione precedentemente menzionata fra le due religioni rivelate acquista tutto il suo valore. Propongo a riguardo un passaggio di Sottomissione in cui Rédiger, nuovo rettore della Sorbona dopo l’ascesa al potere della fratellanza musulmana, parla della coerenza del suo passaggio all’Islam dopo un passato da ex identitario ed ex cattolico tradizionalista:
“Non ho mai nascosto i miei impegni giovanili”... continuò lui “e i miei nuovi amici musulmani non hanno mai pensato di rimproverarmeli; sembrava loro del tutto normale che, nella mia ricerca di una via d'uscita dall'umanesimo ateo, mi rivolgessi in primo luogo alla mia tradizione d'origine. Del resto, non eravamo né razzisti né fascisti - alla fine sì, ad essere del tutto onesti, alcuni identitari non ci andavano molto lontano; ma io in nessun caso, mai. I fascismi mi sono sempre apparsi come un tentativo spettrale e falso di ridare vita a nazioni morte; senza la cristianità, le nazioni europee non erano altro che corpi senz'anima - degli zombie ” [15].
Nelle frasi di Rédiger troviamo il rifiuto di un laicismo che unisce identitari e partito islamico. In un certo senso, una sorta di evoluzione distopica rispetto alla convergenza fra cattolici e nazionalisti descritta da Boltanski ed Esquerre [16]. Insomma, ancora più che l’opportunismo politico di Ben Abbes e l’attrattiva erotica poligamica vissuta da François, ciò che c’interessa osservare in Sottomissione è un Islam percepito come cura al malessere contemporaneo della società francese. Così, l’ultima citazione mostra la convergenza dei due punti finora trattati, dal momento che l’istanza politica e quella religiosa, l’adesione al movimento identitario e alla religione islamica (che per Rédiger assume un ruolo pari al cristianesimo), non solo non sono in contraddizione, ma vivono dei medesimi presupposti. Sono infatti, entrambi, movimenti al contempo reattivi e sintomatici rispetto all’individualismo metodologico, vettore gnoseologico della contemporaneità e atteggiamento sintomatico dell’ontologia sociale.
Conclusione
Il potenziale dei romanzi di Houellebecq risiede, tra le altre cose, nella capacità di mostrare un’epoca in cui il conservatorismo e il recupero di istanze religiose in senso reattivo appaiono come un destino. Ogni scenario futuro immaginabile si riduce allora a una radicalizzazione delle premesse dell’individualismo metodologico stesso, come l’ampliamento dei “gradi di libertà” proposto da J-Y Fréhaut in Estensione: «lui sosteneva – e per certi versi ci credeva davvero – che l’aumento del flusso di informazioni all’interno della società sia di per sé una bella cosa. E che la libertà non sia altro che la possibilità di stabilire diverse interconnessioni tra individui, progetti, organismi, servizi. Secondo lui il massimo di libertà coinciderebbe con il massimo delle scelte possibili. Servendosi di una metafora basata sulla meccanica dei solidi, queste scelte le chiamava gradi di libertà» [17]. Ciò che sembra squalificato una volta per tutte da questo quadro, è la paura di perdersi in ciò che non è il proprio, di affrontare il rischio connaturato alla formazione del sociale. Ma il rifiuto dell’alienazione intrinseca al sociale è lo stesso movimento che pone il sociale come invivibile. Allora, le diverse formazioni reattive interessano come tentativi (spesso disperati) di riappropriarsi in una maniera altrettanto radicale e polarizzante del sociale, di riabitare quello spazio potenziale che è al contempo rischio di perdita del soggetto e fonte dell’associazione.
[1] M. Maurizi, Antispecismo e individualismo metodologico, ANIMAL STUDIES 6.pdf (novalogos.it)
[2] Ivi.
[3] Ivi.
[4] M. Houellebecq, B-H. Lévy, Ennemis publics, Flammarion-Grasset, Paris, 2008.
[5] A. Tocqueville, La democrazia in America in Scritti politici, UTET, Torino, 2013.
[6] M. Houellebecq, Cahier, La nave di Teseo, Milano, 2019.
[7] Forse colui che ha più contribuito alla canonizzazione precedentemente accennata, inserendo Houellebecq come figura chiave del suo Le Rappel à l’ordre: Enquête sur les nouveaux réactionnaires del 2002.
[8] M. Houellebecq, Le particelle elementari, Bompiani, Milano, 2008.
[9] L. Boltanski e R. Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano, 2014.
[10] M. Houellebecq, Soumission, Flammarion, Paris, 2015.
[11] É. Durkheim, Il divorzio consensuale, Armando Editore, Roma, 2009, pp. 69-70.
[12] M. Houellebecq, Soumission, Flammarion, Paris, 2015.
[13] M. Houellebecq, Le particelle elementari.
[14] M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano, 2001, p. 152.
[15] M. Houellebecq, Soumission.
[16] «Un tema, in fin dei conti abbastanza astratto, ha permesso al di là di tutto di aprire delle vie di comunicazione tra la destra cattolica e l’estrema destra nazionalista: quello dell’identità. Nel corso dell’ultimo decennio si è conquistato un posto di primo piano non solo nell’ambito dei movimenti politici di estrema destra, ma anche nella destra classica, e pure, va detto, nel mondo intellettuale, soprattutto in sociologia, storia e filosofia, dove le riflessioni sull’identità fioriscono ampiamente, riprese dalla letteratura e da politologi di fama. Il tema, inteso nella forma negativa e quasi apocalittica di una crisi, se non addirittura di una perdita di identità, può fungere da terreno comune per cattolici e nazionalisti» (L. Boltanski e A. Esquerre, Verso l’estremo).
[17] M. Houellebecq, Estensione, p. 40.
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