Di Lorenzo Vercesi
Francis Scott Fitzgerald è considerato uno dei massimi narratori di sempre. I motivi di questa fortuna sono molteplici; ci concentreremo qui sullo stile narrativo di questo autore come esempio chiave del rifiuto di uno dei capisaldi maggiormente adottati ed inseguiti della tecnica narrativa, ovvero lo show-don’t-tell. A sostegno di questa considerazione, ci addentreremo in alcuni dei romanzi dell’autore (Belli e dannati, Al di qua del paradiso) ed in alcuni dei suoi racconti (Racconti dell’età del jazz), alla ricerca di un’analisi dello stile narrativo basata sulla distinzione fra due tempi, ciascuno corrispondente ad un momento stilistico definito e circoscritto: il tempo della descrizione ed il tempo della narrazione. Nell’equilibrio e nella ripartizione di questi due momenti, e nella modalità in cui lo scrittore declina il loro svolgimento e il loro oggetto si intuisce una delle possibili ragioni della sua grandezza unanimemente salutata.
Se fossimo costretti ad identificare in un solo elemento la caratteristica maggiormente diagnostica dello stile narrativo contemporaneo (in ogni tipo di scrittura, da quella cinematografica, alla fiction, alla scrittura creativa), la nostra risposta non potrebbe che coincidere con il meccanismo dello show-don’t-tell[1]. Per significare in maniera concisa ed efficace a cosa si faccia riferimento con questa espressione ci affidiamo ad una felice metafora dello scrittore russo ottocentesco Anton Cechov: «Non dirmi che la luna risplende; mostrami il suo riflesso sul vetro infranto ». Un monito dunque, a svelare la natura intrinseca di ciò che si vuole esprimere attraverso la sua evocazione piuttosto che attraverso la sua descrizione puntuale. La relazione fra stile narrativo e oggetto di questa sorta di imperativo fonda le basi del genere della narrativa per come è tutt’oggi concepito. Un lettore anche solo mediamente esigente si aspetta che un testo -come un film- coinvolga esteticamente in una successione di vicende o dialoghi a cui sia affidato l’onere di far emergere la tridimensionalità dei personaggi, senza che le loro caratteristiche fondative vengano rivelate apertamente. Spingendo la nostra considerazione all’estremo, potremmo sostenere che le categorie percettive con cui il lettore classifica i diversi momenti della scrittura (teniamo ad esempio descrizione e narrazione) tendono a far coincidere il momento descrittivo con l’introduzione a luoghi, paesaggi, oggetti, città, assegnando al momento più tipicamente narrativo il compito di presentare i personaggi nei loro aspetti più topici e distintivi. In altre parole: il lettore si aspetta che la voce narrante interrompa la durata temporale del racconto a beneficio della descrizione di un particolare luogo o oggetto, ma non tollera che la digressione si produca per uno spazio simile o più esteso per quanto concerne un personaggio. E di più ancora: descrizioni troppo ampie di un personaggio prima che abbia potuto agire nel racconto verrebbero valutate come segnale di una scrittura ancora acerba, poco matura, se non addirittura di scarsa qualità. In via d’eccezione, Fitzgerald, uno scrittore annoverato fra le più brillanti voci della letteratura contemporanea, sembra aver scelto per la propria scrittura uno stile del tutto estraneo e opposto a quello sopra delineato, mantenendo invariata la qualità.
Il minimo comune denominatore su cui si basa la nostra suggestione coincide col rifiuto dello show don’t tell e delle sue implicazioni sullo stile narrativo. Testi alla mano, vedremo come in Fitzgerald venga a modificarsi la sopra delineata distinzione fra oggetto della descrizione e oggetto della narrazione. Nello scrittore americano il momento descrittivo ha piena liceità di avere come oggetto un personaggio. Tale momento registra una sospensione della narrazione, che interrompe la durata temporale del racconto fino al reale ingresso del personaggio nell’ordito narrativo, a partire dal quale si ripristina il piano temporale della narrazione. Consideriamo subito un esempio, tratto dal secondo romanzo di Fitzgerald: l’esordio di Belli e dannati rende manifesta da subito questa scelta: le prime dodici pagine del romanzo, infatti, sono occupate da una descrizione di Anthony Patch, co-protagonista della storia, prima ancora che le vicende prendano inizio: «Nel 1913, quando Anthony Patch aveva venticinque anni, già due ne erano trascorsi da che l’ironia, lo Spirito Santo di questi ultimi tempi, era, perlomeno in teoria, discesa su di lui »[2]. La descrizione è addirittura divisa in paragrafi dai titoli eloquenti: Un uomo rispettabile e il suo intelligente figliolo, Passato e personalità del protagonista, L’appartamento impeccabile, che completano un quadro descrittivo che, in sè e per sè, potrebbe riassumere tutto ciò che, affidandosi allo show don’t tell, avrebbe potuto essere mostrato nel corso di un intero romanzo attraverso la nuda narrazione. E ancora, qualche pagina più in là, lo stesso stratagemma è utilizzato per introdurre il signor Gilbert, padre di Gloria, altra protagonista della vicenda:
«Il conto esatto delle uscite imputabili a Gloria si perse col cigolio della maniglia che girava per consentire l’ingresso del signor Gilbert [qui si interrompe la narrazione ed inizia la descrizione] Era un uomo basso con i baffi sospesi come una nuvoletta bianca sopra un vaso anonimo. Aveva raggiunto quello stadio in cui il suo valore come creatura puramente sociale era in netto e imponderabile negativo. Le sue idee non erano che le illusioni popolari vent’anni addietro; la sua mente teneva una rotta traballante e anemica dietro agli editoriali dei giornali. Dopo essersi laureato in una piccola ma terrificante università del Midwest era entrato nel mondo della celluloide (...)»[3]
Non serve attendere molto perchè lo stesso avvenga col personaggio di Maury Noble:
«Dietro l’attraente indolenza di Maury Noble, la sua superficialità e le sue facezie, stava una maturità di propositi sorprendente e tenace. Le sue intenzioni, stabilite ai tempi del college, erano passare tre anni a viaggiare, tre anni di puro svago, per poi diventare immensamente ricco il più presto possibile (...) I suoi vizi erano materia di speculazione esoterica (...) La madre di Maury viveva a Philadelphia con il figlio sposato e Maury li andava a trovare nel fine settimana (...)»[4]
La stessa strategia sopravvive anche nei racconti, nonostante, per loro stessa natura, si sviluppino in uno spazio meno esteso. Prendiamo in esame il primo racconto dell’antologia Racconti dell’età del jazz, ovvero Jelly-bean, parte della sezione Le mie ultime maschiette. L’incipit stesso parla da sé:
«Jim Powell era un “Jelly-bean”. Per quanto desideri farne un personaggio affascinante, sento che sarebbe disonesto illudervi su questo punto. Era nato Jelly-bean e sarebbe morto Jelly-bean (...) Jim era un Jelly-Bean (...) in qualche modo lo ritrae con un viso rotondo e appetibile, con foglie e verdure che gli spuntano da sotto il cappello.In verità Jim era alto, magro e curvo per le ore passate sui tavoli da biliardo; al nord, senza tante discriminazioni, l’avrebbero chiamato sfaticato. “Jelly-bean” è il termine diffuso in tutta la non disciolta Confederazione per indicare chi passa la vita a coniugare il verbo oziare in prima persona (...)»[5]
La descrizione del personaggio e delle sue vicissitudini -selezionate per importanza e rilevanza- si prende le prime tre intere pagine del racconto, e termina con l’ingresso reale del personaggio nella vicenda:
«L’impulso che l’aveva spinto a farlo non era meno bislacco dell’impulso di Jim ad accettare. Quest’ultimo era probabilmente un’inconsapevole noia, un semi terrorizzante senso d’avventura. E adesso Jim stava meditando sulla faccenda con aria seria. Cominciò a canticchiare (...)»[6]
Analogamente, il personaggio di Nancy esordisce nel racconto con una descrizione prima che con una vera e propria azione sulla storia:
«Il suo “Come va?” era stato rivolto a Nancy Lamar, alla quale non parlava da quindici anni. Nancy aveva una bocca come il ricordo di un bacio, occhi ombrosi e capelli corvini ereditati dalla madre nata a Budapest. Jim la incontrava spesso per strada mentre camminava con le mani in tasca a mo’ di maschietto e sapeva che con la sua inseparabile Sally Carrol Hopper aveva lasciato una scia di cuori infranti da Atlanta a New Orleans »[7]
Brevi cenni, tratteggiati come uno schizzo a matita, ma sufficienti a restituire un’idea iniziale del personaggio, prima che questo prenda parte alle vicende. Infine, notiamo che anche il successivo racconto La parte posteriore del cammello, dopo un breve prologo ed un’introduzione, getta immediatamente Perry Parkhurst, il personaggio protagonista, in pasto al potere figurativo del lettore prima che a farlo sia un suo intervento nella storia:
«Voglio presentarvi il signor Perry Parkhurst, ventotto anni, avvocato, nativo di Toledo. Perry ha dei bei denti, una laurea a Harvard, porta i capelli con la riga in mezzo (...)»[8].
Il momento di sospensione descrittiva dura due pagine e per due pagine il lettore può formarsi un’accurata immagine mentale del personaggio, prima di vederlo entrare realmente in scena:
«E’ tutto finito”, mormorò con voce rotta mentre cercava d’infilare la prima per partire (...)»[9]
Proviamo ora ad addentrarci nelle pagine del primo romanzo dello scrittore americano, Al di qua del paradiso, ove troviamo un passo a pieno titolo esemplificativo del paradigma narrativo finora descritto. Ci troviamo circa a metà romanzo, dopo che il protagonista Amory ha già vissuto qualche anno a Princeton e si imbatte nel personaggio chiave di Rosalind, sua futura fiamma:
«(E ora entra Rosalind. Rosalind è… estremamente Rosalind. È una di quelle ragazze che non devono mai fare il minimo sforzo per fare innamorare gli uomini. Sono due i tipi di uomini che si innamorano di rado di lei: gli stupidi, che di solito hanno paura della sua intelligenza, e gli intellettuali, che di solito hanno paura della sua bellezza. Tutti gli altri le appartengono per diritto naturale. Se Rosalind potesse lasciarsi viziare, a quest’ora la cosa sarebbe avvenuta, ed effettivamente il suo carattere non è proprio l’ideale; vuole quello che vuole quando lo vuole e tende a rendere chiunque la circondi molto infelice quando non lo ottiene: ma nel vero e proprio senso della parola non è viziata. Il suo fresco entusiasmo, il suo desiderio di crescere e imparare, la sua fede sconfinata dell’inesauribilità delle avventure d’amore, il suo coraggio e l’onestà fondamentale: queste cose non sono viziate (...) Vuole riuscire simpatica alla gente, ma se questo non avviene non se ne preoccupa e non si trasforma (...) Rosalind era stata delusa dagli uomini, ma aveva una grande fiducia nell’uomo come sesso. le donne le detestava (...) Ma qualsiasi critica su Rosalind finisce, quando si parla della sua bellezza. C’era quella sfumatura di splendido giallo, nei capelli, che sostiene l’industria delle tinture per il desiderio d’imitarla (...) Un’ultima precisazione: la sua personalità viva, immediata, era scevra di quella caratteristica consapevole, teatrale che Amory aveva osservato in Isabelle (...) Rosalind direste che la sua voce è musicale come una cascata)»[10]
L’esordio con la parentesi aperta segna inequivocabilmente un’interruzione della narrazione, che riprenderà solo alla chiusura della parentesi e del momento descrittivo. Il personaggio di Rosalind è stato appena introdotto al lettore, sa che esiste e che farà parte del racconto, ma, prima di questa digressione che occupa quattro intere pagine, non sa nulla di lei. Fitzgerald ne fornisce un quadro a tutto tondo, con specifiche indicazioni sul suo carattere e sulla sua personalità da un lato, e al suo aspetto fisico dall’altro; riferimenti precisi alla sua biografia. Di Rosalind abbiamo l’impressione di conoscere già tutto quello che ci serve, ora siamo pronti a vederla entrare in azione: il momento descrittivo la inquadra e la dipinge a tinte nette e distinguibili; allo scorrimento della narrazione verrà affidato il compito di tradurre questa sorta di identikit a tutto tondo in un agire che sia coerente oppure discostante. In questo stratagemma si esplica la potenzialità narrativa di Fitzgerald: una volta introdotto e descritto un personaggio, si concede la libertà di farlo interagire nel racconto in maniera coerente con quanto anticipato, prediligendo una fissità, o in maniera differente, lasciando spazio all’evoluzione dinamica.
Ma a cosa si deve una scelta così definita e in contrasto con il modus operandi proprio della maggior parte degli autori contemporanei di Fitzgerald, nel nuovo continente ed in Europa? La grande letteratura si fonda su una prassi di mutua corrispondenza fra intenzioni espressive e scelte stilistiche; proveremo a muoverci nel solco di questo postulato irrinunciabile, suggerendo una possibile ragione alla base di questa scelta quanto meno insolita. È doveroso a questo punto fare una puntualizzazione: data la natura meramente speculativa di questa suggestione, non trovandone cenno negli scritti di poetica dell’autore né in alcuna altra disamina, invitiamo a considerarla più come uno spunto, un invito che potrebbe essere fonte di ulteriori sviluppi più strutturati. L’idea si basa su un’analogia che accosta i due momenti finora delineati di narrazione e descrizione ai due principali momenti che si alternano nella grammatica basilare di un pezzo jazz: ritmo e improvvisazione[11]. Il primo consiste nella base del pezzo, che subisce variazioni ed evoluzioni, ma rimane componente strutturale fissa; il secondo corrisponde alla componente imprevedibile e di massima variazione, che interrompe la narrazione del pezzo per ritagliarsi uno spazio suo, prima di cedere di nuovo il passo alla componente ritmica. Nella nostra analogia la narrazione fisserebbe la base ritmica, entro la quale eventi e personaggi sono lasciati liberi di agire, variare e modificarsi; la descrizione ricalcherebbe il momento d’interruzione del ritmo, in cui l’intero testo prende la forma di questa variazione, sostituendosi alla narrazione fino al suo termine, segnato dal rientro alla fase ritmica. Acquisterebbe quindi ulteriore evocatività l’operazione che Fitzgerald non ha mai mancato di rivendicare, quella cioè di dar voce alla cosiddetta Jazz Age, l’era di un’America ed un mondo in fase di transizione dagli strascichi della prima guerra mondiale ai ‘ruggenti anni venti’, la cui colonna sonora era segnata dal nascente genere del jazz, così adatto ad esprimere un mutamento radicale e cruciale. Jazz Age, alla quale, senza ombra di dubbio, servivano un canto ed un cantore grande abbastanza per comporlo. Che questa funzione accessoria della ricerca espressiva fosse parte del progetto intenzionalmente intrapreso da Fitzgerald resta, per adesso, una suggestione affascinante, ma ancora da esplorare e, se possibile, ulteriormente da verificare.
[1] Per approfondimento: https://it.wikipedia.org/wiki/Show,_don%27t_tell [2] F. S. Fitzgerald, Belli e dannati, Minimum Fax, Roma, 2018, p. 42 [3] Ivi, cit. p. 88 [4] Ivi, cit. pp. 91-92 [5] F. S. Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz, Newton Compton, Roma, 2016, pp. 27-28 [6] Ivi, cit. p. 29 [7] Ivi, cit. p. 31 [8] Ivi, cit. p. 47 [9] Ivi, cit. p. 31 [10] F. S. Fitzgerald, Al di qua del paradiso, Mondadori, Milano, 1983, pp. 197-198 [11] Ci preme qui fornire una descrizione più precisa delle caratteristiche fondative di un pezzo jazz. Rispetto alla musica classica, questo nuovo genere musicale introduce, affianco alla commistione di sonorità di vario tipo ed elementi già presenti nella struttura classica (quali ad esempio poliritmia e progressione armonica), un elemento di variazione rispetto al tema portante. Dalla natura e dalle caratteristiche di questa variazione nascono i diversi sotto-generi della musica jazz. Basti qui sapere che il momento di improvvisazione acquisisce, nell’economia globale del pezzo, una dimensione autonoma e circoscritta, entro la quale l’estro degli strumentisti ha piena libertà di esprimersi. Si vengono dunque a realizzare due momenti distinguibili e definiti, tenuti insieme da una relazione di compresenza, ma l’uno conchiuso in sè stesso, senza che questo significhi esulare l’uno dall’altro. Di qui, la base della nostra suggestione sulla corrispondenza dei due momenti di ritmo e improvvisazione ai due momenti stilistici di narrazione (tema portante) e descrizione (variazione). Per informazioni più approfondite, rimandiamo alla pagina Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Jazz). Consigliamo, per uno sguardo globale sul fenomeno del genere jazz sulla cultura americana e mondiale, l’illuminante testo di Eric J. Hobsbawm Storia sociale del jazz: edizione di riferimento Hobsbawm, E. J. (2013). Storia sociale del jazz. Una rivoluzione di suoni ed. Res Gestae [titolo originale The Jazz Scene (1993)]
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