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Quaderno di traduzioni /4 – Contributions di ‘Pemi Aguda

Allieva di Chimamanda Ngozi Adichie e due volte vincitrice del prestigioso premio “O. Henry” – nel 2022 per il suo Breastmilk (una sentita e profonda narrazione di femminilità e femminismo) e nel 2023 per l’autobiografico The Hollow – ‘Pemi Aguda è una delle più interessanti scrittrici contemporanee di racconti. Formatasi negli Stati Uniti, ma nata in Nigeria, dove attualmente vive, Aguda incarna perfettamente l’immagine del narratore transculturale: globalizzato, poliglotta, multiforme e volutamente in bilico tra due mondi, l’universo culturale d’appartenenza e quello d’adozione. Il suo dettato, fresco ma corroborato tanto dalla dignità dei classici inglesi quanto della tradizione nigeriana, è il mezzo attraverso cui l’autrice si espone a riguardo delle più cocenti questioni della contemporaneità: dalla critica femminista alla denuncia del razzismo, dagli effetti della globalizzazione sulla società alle conseguenze del conservatorismo, tutto viene fagocitato dall’incontenibile penna di Aguda, spesso più affilata di quanto si possa immaginare. È in un tono sarcastico, infatti, che l’autrice esprime la propria posizione, non mancando mai di indicare una via alternativa e socialmente sostenibile al lettore. Spesso avvicinata a scrittrici dell’attuale panorama editoriale quali Warsan Shire e Rupi Kaur, non è solo da un punto di vista formale che Aguda si presenta come un unicum letterario: la forza evocativa dei suoi scritti proviene da un microcosmo culturale fortemente connotato, ma al contempo abbastanza fluido da allargarsi al microcosmo individuale di ognuno di noi. È anche in ragione di certe qualità specifiche che la casa editrice britannica Virago ha deciso di acquistare i diritti dell’intera sua opera, progettando per il 2024 l’uscita di Ghostroots, primo tentativo di raccogliere organicamente tutti i racconti di Aguda. Come spesso accade quando si ci appresta a tradurre uno scrittore transculturale, il tasso di elementi culturo-specifici è talmente notevole da costringere preliminarmente il traduttore a prendere una posizione netta sull’uso delle annotazioni. In un caso del genere, poi, la questione si fa ancor più stringente, dal momento che non esistono traduzioni pregresse da prendere a modello, essendo l’opera dell’autrice completamente inedita in Italia. Inizialmente, si era pensato di stilare un breve glossario che permettesse al lettore di acquisire tutti gli strumenti necessari alla piena comprensione del testo. Alla fine della traduzione, però, il sentimento è stato quello di lasciare a chiunque si approcciasse all’opera la libertà di informarsi autonomamente, incoraggiando quindi il pensiero critico. Del suddetto glossario, tuttavia, un lemma ha superato la prova del tempo, probabilmente per la grande alterità culturale che si porta dietro: esusu; sistema economico-finanziario adottato in molte comunità africane consistente nella creazione di un fondo comune alimentato da un ristretto e selezionato gruppo di partecipanti, che ha il dovere di versare un contributo mensile e di riscuotere, seguendo una lista i cui nomi sono depennati ogni trenta giorni, l’intera somma accumulata.

Il seguente racconto è stato pubblicato per la prima volta nel 2019 sul settantesimo numero di American Short Fiction.


 

Versamenti


L’esusu fa parte di noi da molto tempo. Lo utilizzavano le nostre madri, lo utilizzavano le madri delle nostre madri. E probabilmente anche le loro madri. Finché non si è presentata da noi questa donna, non abbiamo mai avuto un problema con l’esusu, o almeno niente di così significativo. Ad ogni modo, niente di irreparabile.

L’esusu funziona così: ogni donna ha un mese di tempo per contribuire versando una certa quantità di naira. C’è una lista con i nostri nomi e, alla fine del primo mese, il numero uno prende tutto. Poi ricominciano i versamenti, e alla fine del secondo mese è il numero due a prendere tutto. I nomi sono sempre scritti in ordine casuale. Si continua così finché anche l’ultimo della lista non avrà riscosso i versamenti degli altri, poi si ricomincia. Da noi funziona così. Non ci servono le vostre banche e non ci servono i vostri prestiti: sappiamo prenderci cura di noi stessi da soli.

Le cose non vanno sempre lisce, però. Una volta Iya Ibeji ha sperperato il denaro per andare a Dubai – gite in cammello e shopping – e quindi il mese successivo non ha potuto versare niente. Siamo stati costretti a sequestrarle il generatore con cui alimentava i congelatori del negozio finché non ha trovato i soldi. Non siamo persone cattive, solo che questo sistema per funzionare ha bisogno di ordine, comprendeteci. Un’altra volta, la signora B. ha dovuto sostenere le spese ospedaliere per l’operazione del figlio. Se avessimo mostrato pietà, il sistema sarebbe collassato, quindi abbiamo dovuto sequestrare la figlia della signora B. La ragazza cucinava per noi, ci portava i sacchetti della spesa quando tornavamo dal mercato e ci sollevava da qualche fardello quotidiano, massaggiandoci i piedi e intrecciandoci i capelli. Appena la signora B. ha versato la sua quota, le abbiamo restituito la figlia. Abbiamo ancora bei ricordi di quella giovane: il sorriso dolce, lo stufato speziato di manzo, il modo in cui saltellava leggera da un piede all’altro, come se avesse ossa di carta. Il nostro è un piccolo gruppo. Non può essere altrimenti: è una questione di fiducia e affidabilità. E poi non tutti accetterebbero i nostri requisiti d’ammissione, rigidi e imperituri come sono. Prendiamo tutto ciò che possiamo fino all’estinzione degli obblighi, e per molti questo è troppo: troppo potere, troppi rischi. Non siamo noi ad averti invitato, diciamo a chi si mostra esitante, a chi ha il collo schiacciato dal peso delle suppliche: vai a tentare la sorte con le banche. Abbiamo lavorato troppo duramente per permettere qualsiasi stupida indulgenza che ci esporrebbe al rischio di ritornare nelle fogne. Così, quando questa nuova arrivata con i denti storti e lo shuku è venuta a sentire l’aria che tirava al nostro incontro, l’abbiamo avvisata, le abbiamo chiesto se fosse sicura. Ci ha detto di sì, che aveva bisogno di un’alternativa alle banche; ci ha detto di sì, che era sicura. Era cugina di uno dei migliori amici dei nostri fratelli, quindi le abbiamo detto che andava bene, anche se titubanti: le dita giocherellavano con le cartacce, i petti si stringevano, ma l’abbiamo accolta.

All’inizio, le cose filavano lisce. Ma le assurdità vengono sempre fuori dopo. Faceva il versamento sempre in tempo; veniva agli incontri, bevendo Fanta e mangiando chin-chin insieme a noi. Faceva valere la propria posizione su dibattiti quali il colore da indossare al matrimonio della figlia di Sisi Oge (rosa o bordeaux) o se smettere collettivamente di patrocinare Nature’s Way Spa perché il proprietario aveva dato una fiancata a una delle nostre durante l’eucarestia. Al quarto mese, però, quando le mancavano ancora sei a riscuotere, ha iniziato a inviarci messaggini in cui ci implorava di darle più tempo.

Senti, non funziona così.

Abbiamo fatto indagini su di lei alla ricerca di qualcuno da sequestrare, di qualcuno che le avremmo potuto sottrarre per farle capire la serietà dell’impegno. Ma nel villaggio non trovammo altro che il marito e una signora anziana, la madre.

Sequestrammo il marito.

Purtroppo, non ci fu affatto utile. Stava sempre lì a sedere con i nostri, di mariti, con quel suo pancione gonfio di birra insieme agli altri pancioni gonfi di birra, che ondeggiavano come ridenti budini per qualche battuta di cattivo gusto. Suo marito urlava durante le partite di calcio insieme ai nostri e giocava a ping pong nei giardini delle nostre abitazioni, strillando come un matto ogni volta che la pallina sbatteva contro la racchetta. A volte ci guardava. Ci guardava e ci ricordava l’ampiezza dei nostri fianchi, il peso dei nostri seni; ci ricordava l’ingombrante massa dei nostri corpi.

Le restituimmo il marito e, dal momento che non poteva ancora contribuire economicamente, le sequestrammo la madre.

Non fu tanto meglio. La vecchia stava seduta meditabonda in un angolo, gli occhi sporgenti a giudicarci mentre schiacciavamo l’igname o cucivamo un bottone. Camuffandosi con le ragnatele, la pelle della donna sembrò sviluppare una peluria scura e, in seguito, approfittando delle ombre in movimento, una lucente squamosità. Quando infine si trasformò in una rana, poi in una lucertola e dopo ancora in una gatta, i nostri figli impazzirono di gioia. Ma appena provarono ad accarezzarla, la gatta graffiò le loro manine, facendo schizzare via il sangue e lasciando cicatrici nella forma di uno strano alfabeto. Balzò via dalle nostre braccia punitive per appollaiarsi in alto, sopra le nostre teste, e noi tendemmo il collo per guardarla, invidiandole la soffice leggiadria e il modo in cui sapeva trasformarsi in una versione più piccola e vaporosa di sé, furtiva, astuta e irraggiungibile.

Rimandammo a casa la madre e convocammo la figlia. Cos’altro le avremmo potuto prendere, finché non avesse versato la somma? La facemmo sedere al centro del cerchio, in modo che potesse percepire i nostri occhi bucarla da ogni direzione, nonché il peso della nostra delusione. Sentite, disse, posso darvi le braccia.

Aveva braccia lunghe e muscolose, amiche del duro lavoro. Le accettammo.

Erano utili nelle nostre cucine, quelle braccia, talvolta per tagliare le foglie di ugu e altre volte per mescolare una pentola di ewedu, per pestare l’igname e per affettare le mele. Ottime per i lavori di casa, come spazzare via la polvere dal corridoio o dondolare una culla. Capitava che quelle braccia ci stringessero, quando i mariti urlavano, i bambini piangevano o opache sfumature grigie inquinavano la limpidezza del cielo. Tuttavia, ancora non riusciva a versare niente, quindi ci attaccammo alle sue braccia.

Le mie gambe? Chiese il mese successivo. Stava lì seduta in mezzo al cerchio, con le maniche del buba che cadevano ciondolanti e la testa abbassata, in modo che le trecce le oscurassero il volto dai nostri occhi interrogativi. Non ci era mai capitato di vedere un’inetta simile, una persona così rassegnata a cedere parti del corpo. Però, quelle gambe erano robuste: polpacci abbastanza sodi da poter essere sfruttati in qualche partita di calcio con i figli e ginocchia così resistenti da sorreggere la testa delle bambine quando acconciavamo loro i capelli, e un grembo che accoglieva le teste delle mamme quando piangevamo per l’ennesima giornata grigia e gli occhi si facevano troppo gonfi.

Il mio busto? Ci offrì.

La mia testa? Contribuì.

A ogni nuova cessione, la voce si faceva più eterea.

E cosa ci facevamo noi con quei seni, quel ventre, quella testa appesantita dal teschio? Ciononostante, prendemmo, prendemmo e prendemmo.

Fu solo quando finimmo di sottrarle ogni singola parte del corpo che capimmo perché lo faceva. D’altronde, anche noi non avremmo sempre voluto spogliarci dei nostri pesi, diventare leggeri, essere il nulla ma finalmente liberi?

D’altronde, anche noi non avremmo fatto di tutto, purché i nostri corpi non ci appartenessero più? Non ne facciamo più menzione, ormai, perché ci vergogniamo troppo di riconoscere come ci abbia condannato a portarcela dietro, a sostenere il suo peso per sempre, i tendini, le ossa, i denti e i muscoli, il respiro e il sangue. Ormai evitiamo di guardarci negli occhi, quando parliamo di versamenti e riscossioni. Quando ci trasciniamo fuori dagli incontri, le nostre spalle si incurvano e i passi diventano pesanti a causa del fardello di quella donna, a causa di quanto le abbiamo preso.


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