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Call sbagliata - Racconti | Roccia vola

  • rivistagelo
  • 31 mar
  • Tempo di lettura: 8 min


Testo di Sara Salviani

Illustrazione di emmaconlaechiusa

Editing di Lorenzo Vercesi




Da bambina questo sentiero che dal paese porta su a casa lo facevo di corsa, anche d’inverno con il ghiaccio a terra e l’aria fatta di aghi sottili.

«Che vuoi uno strappo su?» Gli pneumatici stridono alla mia sinistra.

«Ho anche le uova per Andrea, lo zabaione gli piace tanto.»

La signora Leda dell’alimentari gira tutto il giorno con una jeep scassata a portare roba nelle case e lascia giù al negozio suo marito, che non ci vede più bene e fa fatica a fare i conti. Mi sono sempre chiesta se questo sia per lei un modo per liberarsi, o forse, solo per farsi un po’ i fatti degli altri.

«Ti ringrazio, vado a piedi». Trattengo la poca aria che mi è rimasta in gola, il finestrino cigola, prendo il sacchetto con le uova, abbozzo un sorriso.

Quasi fa caldo a camminare in salita, tiro giù la zip del giaccone e alzo la faccia al sole. La primavera in montagna è proprio bella, la natura ti entra dentro, a Milano questo te lo sogni.

Quando c’erano mamma e papà la casa era sempre sistemata, il babbo faceva la manutenzione, la mamma curava il giardino e i fiori alle finestre. Ora gli infissi sono da rifare, da lontano si vede proprio che il legno è andato.

Due fischi, il nostro segnale, il secondo più lungo che va a consumarsi insieme all’aria che esce dalle labbra. Mi chiudo la porta alle spalle, butto fuori ancora due fischi. Chiamo Andrea. Nulla. Corro in cucina.

«Ma che non rispondi, mi fai prendere un colpo.»

Andrea ride, più con gli occhi che con la bocca, sempre tirata in una smorfia sarcastica. Fa girare le ruote della carrozzina. «Roccia io, Roccia».

«Sì Roccia ti chiami, lo so. Mettiamo la giacca e andiamo, facciamo un pezzo in macchina poi su a piedi fino al rifugio.»

«A piedi», ripete, e ride ancora.

«A piedi per dire, lo so che stai in carrozzina, è che sono un po’ scema.»

Ride sempre quando dico che sono scema. Noi giochiamo così, a prenderci in giro ognuno sui difetti dell’altro. Che poi non so mica se mio fratello è uscito davvero un po’ toccato dall’incidente o ci marcia. Io ho sempre pensato che lui fosse il più intelligente di tutti, a tal punto da fingere di non esserlo per mettere gli altri a proprio agio.

Ha bisogno di te, mi ha detto mia madre in punto di morte. Con te va d’accordo, con Luca no e qui vuole restare, in montagna, qui è felice. E va bene, qui in montagna vuole restare e così sia.

 

«Ci vuoi andare al matrimonio di Luca?»

«A Pajigi». La erre gli esce come un suono strascicato e sordo.

«A Parigi certo, non l’hai mai preso un aereo tu. Tocca andarci per prendere l’aereo.»

Batte le mani sulle ginocchia con la bocca spalancata, ride così lui, forte, quando è davvero felice.

A scuola Andrea era il più bravo di tutti, mi aiutava nei compiti anche se facevamo la stessa classe, siamo gemelli io e lui. Nell’incidente io sono uscita illesa, mamma se l’è cavata con un centimetro in meno a una gamba e papà ci ha lasciato per sempre.

Luca non c’era quando ci siamo schiantati contro quel camion, era a Bologna, all’università. Quella sera girava spaesato tra i corridoi dell’ospedale a cercare di capire quale fosse il suo ruolo, ora che era l’uomo di casa, il più grande di noi figli.

«Andrea, andiamo» gli abbottono la giacca.

«Roccia mi jiamo, Roccia». Anche la ci non gli esce bene.

«Ti chiami Roccia lo so, sei come la roccia della montagna, piena di crepe ma solida e viva.»

«Mamma lo diceva.»

«Sì, te lo diceva la mamma.»

 


A spingere la carrozzina mi è venuto il fiatone. Ci fermiamo nel nostro punto, sulla scarpata da dove si vede la valle. Andrea ogni volta che veniamo qui prende colore, anche la smorfia del viso sembra addolcirsi, guarda le vette innevate e chissà a cosa pensa, forse che se non fosse stato in quella macchina oggi avrebbe potuto scalarle quelle montagne. Lui ci sarebbe rimasto qui tra i monti, per scelta, mica come me che mi sono salvata e sono scappata a Milano per fare l’artista.

Con te va d’accordo, devi tornare, aveva detto la mamma prima di perdere le ultime forze che la malattia le aveva lasciato. E poi Luca è a Parigi, presto avrà una famiglia, è uomo. Ci vuole una donna per queste cose e poi Andrea vuole te qui con lui. E poi… e poi. Non l’ho mica capito se sono qui perché Luca è un uomo e io no, o perché nella vita io non ho concluso niente e le vite irrisolte sono più sacrificabili di altre.

Mi chiedo se Milano mi manchi. Se non abbia bisogno delle occasioni e delle illusioni che si possono trovare solo nelle città, tra la gente. In ogni caso è tardi ormai e a nessuno importa.

Guardo anch’io le vette. La neve, dice Andrea e le indica. Con l’altra mano gira le ruote, avanza di qualche centimetro, si sente un rumore di pietra che stride, che cade giù per la scarpata in piccoli frammenti.

Attento, che cadi giù. Lo dico, ma solo nella mia mente, la voce resta in gola. Metto le mani sulle maniglie dello schienale, la tiro un po’ indietro, ma poco, e rivoli di terra e pietrisco si staccano da sotto le ruote e scivolano tra le fessure della roccia fino a scomparire. Controllo il telefono, non prende, ma tra i messaggi di questa mattina c’è quello di Adele. Peccato tu non sia potuta venire ieri, alla galleria c’era il mondo. Ho preso due contatti top, di quelli grossi. 

Ora lo butto giù questo telefono del cavolo, tanto a che mi serve qui tra i monti. Serve che se poi Andrea mi chiama mentre sono in paese, se ha bisogno, io devo correre da lui. Vuole te, con Luca non va d’accordo, aveva detto la mamma.

Volevi me? Gli chiedo nella mia testa e le ruote della carrozzina sono sospese di un terzo sopra la scarpata. Volevi me perché non mi sono fatta niente? Perché sono quella miracolata? Proprio io che ero la meno intelligente, giusto? E che giustizia sia, riequilibriamo i destini dunque.

Andrea punta il dito verso qualcosa e gli esce un verso sbilenco dalla bocca. Indica le macchie viola sulla parete rocciosa della scarpata. La primula appenninica, dico. Cresce nella roccia, dice lui, premendo sulle consonanti e si tocca il petto perché lui è Roccia, si chiama così.

La carrozzina avanza ancora di un centimetro, altre piccole pietre cadono nel vuoto. Dovrei tirarla indietro e invece non lo faccio.  La roccia è solida, non cadrà, giustifico a me stessa l’assurdità di quella negligenza. Io non lo faccio.

«Guarda che meraviglia le vette innevate», indico i monti in lontananza.

«Meraviglia» ripete Andrea e sia chiaro ad entrambi che in tale bellezza ci si può perdere un po’ e distrarsi, che tanto di quei luoghi siamo esperti entrambi e nulla può accadere.

Dovrei tirarla indietro la carrozzina, invece dico a mio fratello che vado a prendere il cappello in macchina e corro giù per il sentiero, senza voltarmi. Da lontano ancora un rumore di pietrisco, di terra che cede e di roccia che si frantuma, mi volto di scatto, faccio per tornare indietro, ma non torno davvero. Il rumore è troppo vicino, mica sarà Andrea che cade giù, sono quei due escursionisti che salgono per l’altro sentiero. Tranquilla, non è colpa tua. Di cosa? Di nulla. Cosa vai a pensare, Andrea mica cade, è il più intelligente di tutti. È nella mia testa il rumore, solo nella mia testa, sono i frantumi  di quel che resta di me.

Mi fermo, lascio passare qualche minuto, calcolo mentalmente il tempo che ci vorrebbe per arrivare in macchina e tornare. Controllo le tasche, il cappello è in quella di destra. All’improvviso un clangore da sopra il sentiero, poi un urlo. E’ un falco, tranquilla. Tiro fuori il telefono, qui prende. Calma, mi ripeto, e rispondo ad Adele. Prendi contatti pure per me che torno presto. Bacioni.

Una morsa mi schiaccia le tempie e le gambe si fanno rigide. Alzo lo sguardo al cielo, i falchi oggi non ci sono.

Prendo a correre e col cappello stretto nella mano mi asciugo le lacrime. Ripercorro il pezzo di sentiero in salita e il cuore sembra esplodere. Andrea, urlo, mentre supero l’ultimo tratto prima di riuscire a vederlo là in fondo.

Andrea eccomi, ma lui non si gira, continua a guardare le vette. Andrea, dico più piano e tiro indietro la carrozzina, mi inginocchio, riprendo fiato. Cos’è quello? Gli apro le mani, i petali sono ancora più viola da vicino. Dove l’hai presa? E intanto gli sollevo le dita e mi avvicino a scrutare le unghie marroni di terra. Mi guardo intorno, cerco le primule che forse per uno scherzo della natura sono nate lì nell’erba, ma non ce ne sono. Nella roccia, dice Andrea. Nella roccia, e indica giù in fondo. Te l’hanno data gli escursionisti, ecco chi te l’ha data. Ma che scherzi sono?

Che scherzi sono, ripete lui, serio, e il suo sguardo penetra i miei occhi gonfi.

 

Entriamo in casa in silenzio, non ci siamo detti neppure una parola al ritorno.

Ti faccio il bagno, dico, mentre gli tiro va il giaccone e poi i vestiti. E’ più alto di me, ma riesco a sollevarlo e spostarlo nella vasca facendo forza sulle ginocchia.

Mio fratello è bello, avrebbe avuto un sacco di ragazze se non fosse successo. Lo insapono col guanto e guardo altrove perché per un ragazzo deve essere imbarazzante che sua sorella lo veda nudo e che lo lavi lì nelle parti intime, che lo tocchi con indifferenza come se non fosse un uomo. A questa cosa io e lui non ci siamo ancora abituati. Chissà se con la mamma c’era lo stesso imbarazzo, ma con le madri si sa, ci si può arrendere, si può tornare ad essere piccoli senza alcuna vergogna. Io tutte le volte che gli faccio il bagno parlo d’altro, delle cose di cui parlerei con un amico o col mio ragazzo, gli chiedo consigli, anche su questioni pratiche di cui lui non si occupa, e così mi convinco di restituirgli dignità.

«Dammi le mani, togliamo meglio la terra sotto le unghie». Non glielo chiedo come ci è finita la terra sotto le unghie, la tiro via e basta.

«Dammi l’altra mano, lasciamo il fiore?» Andrea molla la presa, poggio la primula ormai appassita sul lavandino e il viola ora è meno viola.

«Te l’hanno dato gli escursionisti?»

«Roccia.»

«Sì, sei roccia tu, ti chiami così.»

«Roccia», ripete, e fa di no con la testa.

«Era nella roccia, certo.»

«Scema». Ride con la sua smorfia di sarcasmo sulla bocca e qualcosa negli occhi che non ho mai visto prima e che sembra dolore.

Sì sono scema. Sono proprio scema io e mi viene da piangere, così tanto che non mi trattengo.

Lui mi tira a sé, mi abbraccia e in quel modo mi dice che sì, lui è superiore, è lui quello più intelligente dei due e in quella stretta mi assolve e mi consola. Affondo il naso nella sua pelle e il suo odore mi salva.

«Come hai fatto a prendere quella primula?»

Alza le braccia in alto e ride forte, mentre mima le ali di un uccello sollevarsi e abbassarsi nell’aria.

«Vola, vola».

Mi fa una carezza dove il viso è ancora bagnato di pianto.

«Roccia vola.»

  


 

 

 BIO

 

Sara Salviani vive a Termoli dove svolge la professione di avvocato.

Il suo primo romanzo, dal titolo “Libera”, è stato selezionato tra le cinque opere finaliste della Fellowship Letteraria LetteraFutura 2022, promossa dall’Associazione MIA, organizzatrice del Festival Inquiete, e la casa editrice Solferino.

Ha pubblicato racconti su riviste letterarie. Il racconto “Medea” è stato selezionato tra le opere finaliste del premio Walter Mauro 2023, organizzato dalla casa editrice Giulio Perrone.

Il suo secondo romanzo dal titolo “Zenit” è stato selezionato tra le opere finaliste del Premio Walter Mauro 2024, organizzato dalla casa editrice Giulio Perrone.


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