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Call Sbagliata - Racconti | Sputo

  • rivistagelo
  • 28 apr
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 6 mag



Testo di Daniela Montella

Illustrazione di Lentilla

Editing di Arianna Cislacchi e Sofia Artuso



Devo sbrigarmi. Il tempo è poco. Questa è l’ultima volta, giuro. Raccolgo i fogli di vecchi diari, appunti scolastici, cartoline e biglietti di compleanno. Li strappo uno alla volta senza rileggerli. Infilo i resti in borsa ed esco di casa. 


La puzza non si sente ancora ma arriverà presto.


Respiro male. Il futuro non esiste. Presente in apnea. Io in apnea. Resto sulla superficie. Acqua. Mare. Prime nuotate. Tecniche di galleggiamento. Tieni le dita chiuse, muovi le gambe, testa fuori dall’acqua. Respira. Sopravvivenza. Solida. Leggera. Gassosa. Muoviti con la corrente, go with the flow, segui il ritmo. Aria. Fuffa. Sii mobile, mutevole. Come diceva Bruce Lee: be water, my friend. Adattati agli eventi quali che siano. Segui il flusso. 


Ho quarant’anni e il flusso non ha portato da nessuna parte. Il fiume da cui mi sono fatta trascinare porta al nulla. Io sono il cadavere sulla superficie e qualcuno sta aspettando il mio passaggio sulla riva. 


Cammino a testa bassa. Ho paura a guardare su, ma a un certo punto lo faccio lo stesso. È più forte di me. La curiosità insostenibile di chi vuole accertarsi che il proprio merdoso destino sia confermato. Il sole sta tramontando, il cielo è rosso e io alzo lo sguardo. Eccoli. 


Vedo grandi parallelepipedi neri e immobili sistemati in file precise nell’aria. Grattacieli di granito sospesi nell’aria. Punteggiatura del cielo. 


Ogni tanto una nuvola ci passa intorno.

Gassosa. Aria. Fuffa. 


La natura si è già adattata a loro. Gli uccelli non ci fanno caso. Sono solo un altro elemento del cielo; cose che stanno lì. 


Sono solide, rettangolari e grosse, che formano una dopo l’altra un fitto reticolato di punti. La consistenza sembra quella della pietra lavica. Buche e graffi. Hanno attraversato i meteoriti e le tempeste stellari per essere qui. Un viaggio interplanetario per uno spettacolo mediocre. Ancora aria; fuffa. Mi chiedo cosa vedano. Cosa pensano di noi. Ma vedono, loro? Pensano? Pensano a noi?


Ridono?


Ricordo l’inizio. Credo avessi trentadue anni. Stavo ancora aspettando che la mia vita cominciasse. Avevo studiato e non era successo niente. Ero stata brillante, ma non era bastato. 


Prima recessione. Seconda recessione. Terza recessione. 

Crisi climatica. Guerra. Colori brillanti solo online, mentre fuori dalla finestra il mondo è grigio. 

Io li ho visti arrivare così: nel grigio. Avevo trentadue anni, no, forse ancora trentuno. Vivevo in casa con mamma e papà. Lavoravo otto ore al giorno, a volte anche dieci, pagata in nero. Niente malattie, niente straordinari. Che vuoi che sia? Cercavo di masturbarmi in silenzio, provando vergogna all’idea che potessero sentire il mio vibratore nella notte. Di non potermi permettere nulla, neanche un orgasmo in santa pace.


Poi sono arrivate le rocce nel cielo. All’inizio sembravano delle macchie sfumate. Si sono avvicinate coi loro tempi. È il tempo a scorrere veloce. Due anni, cinque, sette. Sono talmente vicine che, ormai, il cielo è quasi nero. Alle nuvole non importa. Loro ancora passano. Gli uccelli ancora ci passano. Le mura si scrostano, i miei genitori invecchiano, io ho imparato a venire in silenzio e mi vergogno ancora, anche se mamma ormai è sorda. 


I media non ne parlano. Credo lo facciano per non alimentare il panico. Ormai è andata. Fine del mondo. Morire con dignità.


Cammino fino al parco. La spazzatura in giro non infastidisce più nessuno.


Potrei lasciare qui i miei fogli e basta, ma qualcuno potrebbe mettere insieme i pezzi. Ricomporre le frasi e risalire a me. Devo morire tranquilla.


Bruciare è rassicurante. Dona un senso di profondità alle cose. Purifica. È simbolico. Devo morire libera. Le rocce nel cielo sono troppo vicine, troppo, ci prenderanno presto.


Arrivo fino all'area dei cani, quella con le aiuole vuote, vicino al materasso lercio, lì dove gli alberi sono fitti ma ci sono meno erbacce. Brucio i fogli sul marciapiede per non rischiare di dare fuoco a qualcos'altro – qualcosa che non sia mio, dico. Ognuno deve purificarsi per i fatti suoi. Io non salvo nessuno. Prendo un pezzo, l'accendino, e comincio. Guardo la carta. Distinguo qualche parola. Una volta avevo molta cura di quello che pensavo. Prendevo nota di tutto. Mi interessava ricordare tutto. Io mi interessavo molto. Mi piacevo.


Adesso non voglio sapere più niente di me. Devo andare senza peso. Non mi devo lasciar trascinare dalla corrente. Quando loro verranno io devo essere libera.





L'inverno sta finendo. Darà vita all'ennesima estate afosa e storta prima di tornare all’inverno gelato, agli eventi catastrofici. Noi non saremo più qui. Le alluvioni e i tornado puliranno la terra. La natura si riprenderà. Gli inverni torneranno normali. Torneranno l’autunno e la primavera. Noi no, non torneremo. 


Forse loro, le rocce nel cielo, sono qui per risparmiarci una sofferenza. Forse lo sanno. Forse sono dio. Forse dio è un alieno e l’umanità è stata il suo esperimento. Abbiamo fallito in tutto. Siamo niente, siamo vuoti, siamo gossip, siamo water, my friend. Necessario annientarci. Tornare alla radice. Nuova vita, nuova luce. Cenere alla cenere, polvere alla polvere, fango alle streghe, brucia brucia brucia. Purifica me libera me. 


Fammi tornare bambina. 

Fammi tornare alla fonte delle cose. 


Foglio, accendino. La carta prende fuoco facilmente. Ho quasi finito. La mia tomba. Testamento. Una lapide di cenere nera. È il simbolo del mio talento mai appagato. Le possibilità che non ho mai avuto. Volevo fare la scrittrice, ma non pagava le bollette. Così diceva mia madre. Avevo un talento e l’ho sprecato. Non ho mai lottato. Certo, ora niente di tutto questo ha importanza.


Foglio, accendino. Devo dire che l'umanità ha reagito bene. Pensavo ci sarebbero state delle reazioni isteriche e scomposte, invece è tutto molto tranquillo. È successo e basta. Sono qui e ci guardano. La mia crisi sembra poca roba di fronte all'idea di un incontro interstellare. 


Eppure. 


Foglio, accendino. Sto bruciando le pagine di un vecchio diario. Le note di un giorno qualsiasi nel mondo prima che venissero loro. Noto le parole terapia, ancora, ho paura.


La mia malattia è un nido caldo. Allevia il senso di colpa. Sono malata, ho dei problemi, non è solo colpa mia. I miei genitori non hanno fatto nulla se non crescermi nella mediocrità. È colpa loro se non mi sono salvata. Se non me la sono cavata. Non ho sofferto in modo eccezionale. Se non hai una tragedia alle spalle non sei nessuno. 


Il sistema capitalista crea genitori traumatizzanti e sputa figli incapaci. Eccomi qua, la signora nessuno che non avrà mai nulla nella vita. Ho quarant’anni, è tardi, non sono mai uscita dalla casa dei miei genitori. Sono cresciuta senza maturare, sono marcita ancora acerba. Casa è il mio passato. È tutto quello che mi appartiene. 


Foglio, accendino. Ancora pagine del diario. Le promesse disattese sono state la mia rovina. Lavora, risparmia, sacrificati per il futuro. Eccolo qua: un mondo morto, io mai adulta, mai nata.


Il materasso continua a riempirsi di foglie e umido e terriccio e credo ci abbiano pisciato sopra i cani. Tutto quello che vorrei, prima della fine del mondo, è scoparci sopra. Con quattro o cinque uomini. I netturbini, quelli che corrono, i rider che passano, i disperati, i mai lavati, quelli sempre evitati, tutti. Guardo il materasso con le mani in tasca e immagino la scena. Le rocce sono ancora nel cielo. Mi vedono? Sanno a cosa penso? Ridono di me? 


Il fuoco si spegne. Resto fino all’arrivo dei netturbini. Spazzano via le foglie e la cenere dei miei diari. Non associano i resti del fuoco a me. O forse lo fanno, ma non pensano che scoparmi a turno per punirmi sia la reazione giusta. Non succede niente. Nessuno mi tocca. Forse non ho neanche bisogno di essere toccata. Forse avrei solo bisogno di un uomo che sia in grado di pisciarmi in faccia guardandomi negli occhi. 


Lascio i netturbini da soli. Come fanno a vivere e lavorare sapendo quello che sta per succedere? Non abbiamo un futuro, né io né loro. 


Signora, la generazione di sua figlia ha una percentuale più alta di casi di psicosi.


Il cielo è ancora puntellato di astronavi. Enormi blocchi di pietra sospesi nel cielo a distanze regolari. È tutto molto ordinato. La fine è molto ordinata. 


Voglio il tocco di qualcuno. Voglio una manata sul culo. No ne voglio dieci. No voglio che mi abbracci. No voglio che dici che mi ami. No non voglio niente vai via. No ti prego scopami. Le tue mani sui miei fianchi. Chi sei? Che faccia hai?


Camminano tutti a testa bassa. Sono l'unica che guarda il cielo. Dovrei spaventarmi? Nessuno lo sta facendo. 


“Tua madre oggi non passa?”, mi chiede la signora dietro al bancone. 

“No, ha la febbre.”


Sanno qualcosa? Devo sbrigarmi. Faccio l’ultima spesa e torno a casa. La puzza non si sente ancora ma arriverà presto. Per allora dovrò essere andata via. 


Voglio venire un’ultima volta. 


I miei genitori stavolta non mi sentiranno. Rimarranno per sempre nel letto. Pronti. Anche io sono pronta. Comincio a toccarmi. Piango lo stesso perché ho i seni molli e nessuno li toccherà mai. I miei seni come frutti mai sbocciati. Seni penduli, seni molli, seni smangiati, seni pieni di smagliature. Pancia vuota, culo inutile. Io inutile. Vuota. Sterile. Una vecchia acerba.


Non pensare non pensare per un minuto 

ecco 

l’ultimo minuto 

ecco


oh no la finestra è aperta 

sono venuti a prendermi


per favore accendete la luce 


...


Uno scarafaggio rientra nel suo tombino dopo una notte intensa. 

 

Un giovane piccione dalle penne arruffate beve il sangue accumulatosi sul bitume secco. 

Non ha l'occhio sinistro. Solleva la testa orba e vigile. Il becco rosso gocciola. Deglutisce. 


Il cielo è sgombro. 






BIO


Daniela Montella è una drammaturga, copywriter e vignettista. Ha pubblicato racconti su riviste come “Split” (Pidgin Edizioni), “The Campainer”, “The Florence Review” e “Crapula Club”.

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