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Erranti - L'algoritmo dell'outsider. Intervista a Salvatore Sanfilippo

Presentazione del format Erranti (a cura di Morgana Chittari)

Erranti è un format di interviste - dialoghi un po’ ironici e un po’ sognanti, un po’ donchisciotteschi e un po’ combattenti - a Scrittori e scrittrici contemporanei.

Voci che smarginano. Rabdomanti di suoni. Scritture visionarie e politiche.

Erranti sono coloro che, scrivendo, tracciano la rotta a occhi chiusi.

"Conquistatori dell’inutile", come Lionel Terray definiva gli scalatori. E, come chi scala, chi scrive dev’essere pazzo a concepire così a lungo un’azione tanto inutile quanto necessaria.

Il format Erranti nasce nell'ambito del progetto La Lupa


Troverai le prossime interviste del format solo su Gelo.


 

1. La prima è una domanda che vorrei porre a tutte le persone che scrivono.

Perché scrivi?


Credo che il linguaggio sia uno dei grandi doni dell’umanità. È una cosa di cui essere grati. La scrittura è il virtuosismo del linguaggio: la sua forma più alta, assieme a certa oralità quasi scomparsa. Ci sono poche altre cose che valgono i miei migliori sforzi.


2. La scrittura non è il tuo mestiere. Eppure hai scritto un romanzo, il che significa che hai una buona dose di fiato e sei arrivato fino in fondo nella maratona. A maggior ragione nel tuo caso è interessante scoprire il dietro le quinte.

Carta o computer?


Computer: sono più veloce a scrivere sulla tastiera.


Scrivi ogni giorno?


Sì, tranne rare eccezioni. Dopo aver finito Wohpe ho preso una pausa di alcuni mesi. Scrivevo per lo più sui social. Quando ho ripreso a scrivere, per i racconti di Storie di informatici illustri, ho ricominciato col solito ritmo quotidiano.


In quali ore del giorno preferisci scrivere?


Al mattino e durante le ultime ore della giornata, dalle 22 in poi. Non è una regola ferrea. Di giorno ho la giusta energia per andare avanti. La sera uso le suggestioni che ho accumulato durante la giornata; è una scrittura più riflessiva, che a volte si limita all’auto-editing, ma non sempre. Se si potessero colorare le cose che scrivo di rosso e di blu in base all’ora della loro scrittura, si potrebbe vedere che c’è uno stile variabile.


Rituali? Cosa ti è utile fare per migliorare la concentrazione?


Ciò che mi dà la spinta per andare avanti è la rilettura di ciò che ho scritto nei giorni precedenti. Se l’incipit di un racconto mi sembra buono, se riesco a sentire quella forza capace di trascinare il lettore alla scoperta di qualcosa, allora mi faccio sostenere da quel ritmo. Mi riprometto di non tradirlo e di andare avanti, così che il testo possa giungere alla fine.


Usi strumenti per l’organizzazione del materiale?


Solo Scrivener, che è un programma di scrittura fatto apposta per scrivere fiction. Ho molto rispetto per la pagina bianca, è da lì che parte tutto. Apro Scrivener a schermo intero e vedo cosa accade. In una fase successiva, per trovare eventuali errori prima di passare il testo al correttore di bozze, uso GPT-4. Ho usato GPT-4 anche per effettuare delle traduzioni in inglese del racconto su Richard A. Fox, che ho pubblicato alcune settimane fa. Non uso mai la AI per la stesura del testo in sé; mi illudo di poter fare di meglio.


Revisioni mentre scrivi o arrivi alla fine e poi torni indietro per editare?


Faccio revisioni continue. Anzi, più riesco a migliorare il testo che ho già scritto e più trovo le ragioni affinché la sua scrittura prosegua. C’è qualcosa di buono, mi dico, merita di esistere; altrimenti lo riscrivo anche da zero. Questo modo di procedere è piuttosto in disaccordo con quella che sarebbe una buona pratica di scrittura. Si rischia di bloccarsi, di farsi prendere dal demone del perfezionismo. Per me funziona.


Hai un genere prediletto o preferisci ibridare?


Le mie letture sono per la gran parte di libri che non appartengono a un genere. Quando sono di genere, e ciò succede con una certa rarità, si tratta quasi sempre della fantascienza. Per quanto riguarda la mia scrittura: il mio unico romanzo è di fantascienza, ma ciò è una specie di equivoco. Ho grande rispetto per la fantascienza, ma Wohpe è un romanzo di fantascienza solo per collocazione temporale, per necessità. I racconti di Storie di informatici illustri vanno fuori dal genere (sono biografie, in gran parte di persone mai esistite) e credo che la mia produzione futura, se continuerò a scrivere (come spero di fare), finirà per non appartenere ad alcun genere.


Fai leggere ad altri il materiale durante o dopo la stesura (prima della pubblicazione)?


Anche durante, ma solo quando c’è già del materiale valutabile. Per Wohpe è accaduto quando avevo i primi sei o sette capitoli. Nel caso dei racconti, devo essere almeno a un terzo o a metà. Voglio che coloro che scelgo come fidati confidenti valutino l’attacco, se è forte, se sentono qualcosa. La letteratura non ha bisogno di avere per forza una trama che incuriosisca, la trama può non esserci, ma deve esserci qualcosa che spinge il lettore verso quella scrittura, che lo attrae, altrimenti per me è un fallimento.


3. La prima volta che hai pensato di condividere con qualcuno una “cosa” che avevi scritto?


Avevo quattordici o quindici anni e avevo letto Majakovskij che si addossava tutte le colpe del mondo. Iniziai una specie di poemetto che diedi in lettura alla mia cotta del tempo. Per fortuna è andato perduto.


4. Quando si pensa alla scrittura di rado si pensa al corpo. Credo invece che il corpo di chi scrive sia tutto. Scrivere prevede uno spazio, un tempo, una postura, un silenzio o un suono che accompagna il gesto della mano.

Immagina ora di osservare te stesso mentre scrivi.

Che espressione hai? Cosa fanno le tue gambe? Dove ti trovi?

Tutto ciò che ti viene in mente.


Il cambiamento più evidente nel mio corpo è il fatto che quando scrivo sono meno irrequieto. Non sono uno che sta per ore alla tastiera. Mi alzo, mi alleno un po’, faccio due passi, torno alla tastiera. Invece quando scrivo a volte riguardo l’ora e non capisco come possa essersi fatto così tardi; una cosa che non mi accade quando programmo. Per il resto ci sono solo io che guardo lo schermo e scrivo, in maniera piuttosto statica.


5. Nel tuo romanzo d’esordio, Whope (Laurana, 2022), i protagonisti assoluti sono i programmatori. Non gli hacker, i programmatori: coloro che di professione scrivono codici. Nel romanzo emerge con forza la loro visione del mondo.

Da profana, vedo il programmatore come una creatura prodigiosa – mezza umana e mezza animale - che lavora nel buio, con gli occhi piccoli, la fronte contratta e la schiena curva, una creatura invisibile che di fatto ha tra le mani e maneggia con disinvoltura la tastiera dell’Infinito, quella su cui suona Dio, citando Novecento.

La mia è una visione un po’ romanzata? Cosa c’è di vero?

Facendo le tue ricerche e lavorando al romanzo, hai trovato altri libri (italiani e non) che pongono al centro questa figura chiave della contemporaneità?


Purtroppo c’è ben poco. Forse tra i maggiori solo Houellebecq si interessa agli scienziati e agli ingegneri in un modo nuovo, soffermandosi su di loro non solo come tecnici, ma come persone e come neurodiversi. Non è un limite della sola scrittura: un avvocato o un medico sono dei professionisti affermati. Un informatico che opera ai massimi livelli viene scambiato per quello che ti aggiusta il computer quando si blocca.


6. Puoi portare in vita uno dei tuoi personaggi e passarci ventiquattr’ore insieme.

Chi? Come trascorrete il tempo insieme?


Scelgo Asako, di Wohpe, per una giornata di sesso. Però quando sono stanco un po’ parliamo (anche se la conosco già).


7. Hai la possibilità di vivere per una settimana la vita del personaggio di un libro o di una serie tv. Quale scegli? Jacob Barnes di Fiesta, ma senza il difetto.


8. Tu sei il creatore di Redis, progetto che ha letteralmente rivoluzionato il mondo di internet. Nella community sei noto come Antirez e, dando un’occhiata in giro, mi pare di aver capito che nel mondo informatico sei una sorta di rockstar.

C’è chi ti ha definito “code poet”. In un’intervista hai dichiarato che ci sono parti di Redis in cui più del 50% del codice è composta da commenti, come a specificare che il linguaggio di programmazione è un concetto essenziale, che la programmazione è scrittura.

Puoi spiegare cos'è Redis a chi è digiuno di informatica?


Redis serve a immagazzinare dati: è un database. Però, tra i database, Redis occupa un posto molto peculiare; funziona come la nostra memoria a breve termine, più veloce e meno capiente dell’altra a lungo termine. Invece che sul disco, Redis tiene i dati in memoria (il disco lo usa pure, ma solo come salvaguardia in caso di riavvio). Anche il modo in cui i dati vengono inseriti dentro Redis è diverso dal solito: sono organizzati nello stesso modo in cui il programma che se ne servirà li vorrà avere. Questo rappresenta un vantaggio dal punto di vista della velocità, motivo per il quale Redis viene molto usato nei social network. Nei database classici, al contrario che in Redis, i dati vengono memorizzati in una maniera formale e predeterminata: si fanno delle interrogazioni specifiche, e il database sarà costretto a riordinare i dati per come l’utente li ha richiesti. Ciò è più flessibile ma più lento: è un compromesso. Spero che questo chiarisca grossomodo le funzioni di Redis.


Perché il linguaggio di programmazione ha molto a che fare con la scrittura?


Perché è anch'esso un linguaggio. E ha un lettore, che è la macchina che deve eseguire quel programma (potremmo dire con un gioco di parole che il codice ha un “lettore affidabile”). E poi, come per la scrittura, c’è il particolare e l’universale: la singola frase e la struttura nel suo complesso. Saper fare una cosa non garantisce di poter fare l’altra, ma ci sono certe forme comuni.


C’è un’altra cosa che accomuna le due attività: nel mondo della programmazione tutti sanno che è utile leggere i programmi scritti da altri, ma che a programmare si impara programmando. Vale anche per la scrittura. Però tra gli aspiranti scrittori c’è la diffusissima illusione che si possa scrivere bene per lo più leggendo di tutto (che è una condizione necessaria ma insufficiente: bisogna scrivere tanto). Quando il fine è lo studio, chi scrive dovrebbe fare come chi programma, concentrando le letture sulle cose migliori, e leggendo e rileggendo le stesse cose fin quando non ci si appropria di certe forme e di certi motivi che si ripetono in quegli scritti (così come in quei programmi).


Che relazione esiste tra scrivere software e scrivere un romanzo?


Sono due cose molto difficili da far bene, e l’attenzione per i dettagli deve coniugarsi con un ingranaggio complessivo che funziona.


In che modo la tua attività di programmatore dialoga con quella di persona che scrive?


Il punto di contatto maggiore è nella determinazione a dar vita a qualcosa. E poi il fatto che i programmatori sono la categoria di individui della quale la mia scrittura approfitta di più, attingendo dalla mia memoria professionale. L’altra intersezione è nella ricerca estetica, che tento di portare avanti in maniera molto simile tra le due attività; anzi, da questo punto di vista una (la scrittura) ha aiutato l’altra (la programmazione).


9. Sei parole. Per ciascuna puoi dire quello che vuoi.


Padre


Per i figli, un modello di riferimento in un verso o nell’altro: per aspirazione o contrapposizione. In ogni caso un confronto ineludibile. Essere padre invece mi sembra una specie di equilibrismo, dove serve bilanciare l’esserci e il non esserci.


Infinito


Il contrario della morte a cui non possiamo sottrarci.


Madre


Custode della civiltà.


Violenza


Può essere anche vitale, artistica, sensuale; o abbrutente e vile.


Maestri


Ne ho fatto a meno.


Compassione


Preferisco l’Illuminismo.


10 - Sei in prigione. Ti concedono di portare con te solo tre oggetti. Cosa porti?


Un computer portatile, un libro, una kettlebell.


11 - Perché sei finito in prigione?


Per un ideale per il quale non valeva la pena di finirci.


12. Ti svegli, tutti i media dicono che il mondo ha le ore contate, e dicono quante: quarantotto.

Cosa fai nel tempo che resta?


Mangio e bevo con la gente che amo.


13. Tre libri che hai amato e riletto.


Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia;

Works di Vitaliano Trevisan;

Solaris di Stanisław Lem.


14. Una canzone che ascolti in loop.


Tundra 4 di Square Pusher.


15. Una frase che dici a te stesso nei momenti difficili.


La stessa pronunciata a ripetizione da Giovanna Premoli nel libro di Pontiggia di cui ho riferito sopra.


16. Dieci parole. Per ciascuna puoi dire quello che vuoi.


Morire


Dal punto di vista filosofico il più grande errore biologico.


Bill Gates.


Non è un grande, ma è finito lì dov’è finito e ha dato il meglio di sé.


Male.


Sì annida tanto più dove meno lo si teme.


Steve Jobs.


Mito del capitalismo che deve edificare dal nulla le ragioni di una disparità inconcepibile. Però anche grande uomo di “prodotto”.


Pizza.


Overrated.


Ada Lovelace.


Ne sto leggendo un paio di biografie, sono ancora impreparato. Vorrei scriverne.


Camminare


Per me è vitale. Un atto di meditazione, di purificazione fisica. Una delle abitudini più salutari che si possano acquisire. Tanto più una società si aliena e tanto più chi vi partecipa rinuncia a camminare.


Steve Wozniak.


Un vero genio ingegneristico. Un uomo con una concezione antisistemica della vita.


Gelato (gusto/i?)


Ricotta e zuppa inglese.


Mark Zuckerberg.


Vedasi Elon Musk. Solo che alla voce Elon Musk, per un errore di stampa del dizionario biografico dell’informatica edito nel 2043 dalla Telnet Edizioni, si legge: vedasi pagliaccio.


17. L’Ultima cena di Sanfilippo. Chi inviti? Cosa si mangia? Cosa diresti al tuo Giuda?


Invito gli amici della gioventù. Si mangia la pasta, con le erbe di campo e l’uvetta, e si beve vino rosso di campagna; si sente il profumo dei carciofi che arrostiscono sulla brace. A Giuda dico: Senza di te non ci sarebbe stata verità.


18. Nella mia vita ho conosciuto pochissime persone cresciute nello stesso posto in cui sono nate. Intere generazioni di esuli, vagabondi, sradicati. Da siciliana vissuta in esilio a Milano per quindici anni per motivi di studio e lavoro, io ne faccio parte; ormai ho la sensazione che per me si tratti di una condizione dell'anima, difficile da sradicare e con cui fatico a riconciliarmi.

Sento sulla pelle il peso di cinque parole importanti riguardo a questo tema.

Cinque parole. Per ciascuna puoi dire che vuoi.


Casa.


È dove hai un po’ di amici. Questo è un test decisivo, che non permette di autoingannarsi.


Radici.


Da un lato mi sento profondamente ancorato alla sicilianità. È una questione viscerale, che si riflette in certi comportamenti arcaici che ho ereditato dalla cultura contadina. Però esiste una declinazione diversa che si sovrappone alla prima, meno sepolta, dove mi sento più in armonia con gente che ho incontrato anche solo poche volte, ma con cui ho avuto tanti contatti telematici, o con gente che è diventata mia amica in età ormai matura, che non è del mio paese o della mia regione. Non so ben decidere, però forse quello di stabilire le proprie radici non è, per me, un problema così centrale.


Lavoro.


Se coincide con ciò che vogliamo fare può essere un'esperienza esaltante. Quando è una costrizione diventa mera sopravvivenza al sistema. Credo di più nel lavoro manuale, che però ho fatto molto raramente.

Soldi.


Il trucco funziona fin quando quasi tutti ambiscono ad averli.


Classe sociale.


Un concetto superato anche dalla realtà, non solo dall’ideologia.


In generale, tu che rapporto hai con queste parole?


A me della provenienza di una persona non importa nulla, né mi interessa quanti soldi ha in tasca. L’individuo è definito da tutte le qualità fisiche e mentali che possiede, non c’è altro.


Tu sei nato in Sicilia ma hai vissuto altrove per anni? Cosa ti ha spinto nei luoghi in cui sei stato? Cosa ti ha spinto a tornare?


Sono andato altrove per far parte di una società informatica che qui in Sicilia non esisteva. C’erano i singoli, ma attorno a me non c’erano le aziende, il fare gruppo, lo scambio di informazioni e i soldi necessari a far funzionare certe dinamiche. In tutto ho vissuto sei mesi a Milano, e poi una breve esperienza tra Verona e Padova. Superata quella breve fase, non ho mai vissuto fuori dalla Sicilia, se non durante alcuni viaggi della durata di poche settimane al massimo. Però i miei riferimenti sono sempre stati esterni: ho sempre scritto software pensando alla comunità internazionale, il mio blog è in lingua inglese, i siti che frequento sono quelli globali. Gli informatici possono abitare ovunque e ugualmente appartenere alle cerchie più esclusive.


In che modo la tua esperienza di “esilio” è entrata nella tua scrittura?


Non credo ci sia questo elemento, perché non l’ho sperimentato.


Ti sei mai sentito sbagliato, emarginato, fuori posto?


Quando ero un ragazzino e non riuscivo a sintonizzarmi con la leggerezza dell’adolescenza.


19. Parlando di corpo e identità, io mi sento molto legata alla parola “queer”: nata come insulto e rivendicata con orgoglio, per una persona come me racchiude il diritto di ogni corpo ad autodefinirsi, scegliere in che modo essere nominato, quale linguaggio usare.

Un piccolo focus su questo.

Rinasci in un corpo diverso: come vorresti che fosse?


Più o meno così come sono ma molto più attraente. Aspirerei al massimo della bellezza maschile.


Quali parole usate nei tuoi confronti hai vissuto come violente?


Sono uomo, bianco, eterosessuale. Il peggio che mi hanno potuto dire è che col mio poco più di un metro e settanta sono troppo basso. Me lo hanno detto sia le donne che gli uomini (al lavoro: Ti immaginavo più alto!).


Secondo te, da quali fattori dipende il potere sui corpi?


Un sacco di potere sul nostro corpo lo abbiamo noi stessi. Possiamo decidere di allenarci, di mangiare in maniera corretta, di trarre il massimo dal nostro potenziale genetico: sia in termini di salute che di aspetto esteriore. E questo è un bene.


Poi ci sono i condizionamenti sociali. Oggi, certamente, c’è una spinta verso un ideale di bellezza irragionevole, e questo lo dico nonostante creda nella bellezza, e al fatto che bisogna esaltare ogni bellezza, quella canonica, quella di chi ha una sessualità non binaria, la bellezza transessuale e così via: tutte le bellezze.


D’altra parte, però, non credo che il modello di bellezza attuale sia del tutto sintetico: è solo estremizzato. La bellezza, nel tempo, è cambiata un po’, ma certi elementi sono rimasti grossomodo uguali: i bronzi di Riace somigliano a moderni bodybuilder, così come la venere di Botticelli è una donna molto bella anche oggi. Io mi concentrerei sul fatto che non possiamo andare appresso ai filtri di Instagram. Gli altri, e noi stessi, non siamo quelli trasfigurati dai filtri sui social network, ma quelli che esistono nella realtà fisica: sembra assurdo rimarcarlo, eppure vedo segnali che ne indicano la necessità.


Un altro potere sui corpi è quello culturale, il più banale e invadente. Spinge la donna a coprirsi o scoprirsi oltre le proprie esigenze psicologiche, in base alla necessità del caso. Castra l’uomo in uniformi monotone e stereotipate. Questa forma di potere va superata, basta però capire che superarla non coincide in tutti i casi con lo smettere di agghindarsi: tacchi a spillo, orecchini vistosi e trucco rimangono una possibilità tra le tante, che non deve essere bollata come inopportuna o retrograda. Così come non è inopportuno che un uomo si vesta da donna o viceversa. Insomma: liberi tutti.


20. Secondo te, che senso ha lo scrittore oggi?

Intendo proprio, a cosa serve? Qual è il suo ruolo nella società attuale?


Non credo nel ruolo educativo della scrittura. Pertanto considero solo altre possibilità: intrattenere, spazzare via per un attimo la noia, la miseria umana, la tristezza (sì, persino, se necessario, consolare: non in termini rassicuranti, parlo di un conforto quasi fisico, simile a quello di un buon cibo). Questo è uno scopo valido, che però a me non importa perseguire come scopo primario. E poi c’è lo scopo più alto di tutti, che la scrittura condivide con le altre arti: cercare la bellezza formale e sostanziale (lo stile fine a se stesso non mi importa, deve coniugarsi con intuizioni di pari valore), per spingersi oltre la consuetudine, oltre il conosciuto.


21. IA ed evoluzioni nel campo dei software per la scrittura. Le polarizzazioni sono all’ordine del giorno: paura e catastrofismo VS entusiasmo e ottimismo.

Il dibattito è caldissimo, tutti ne parlano ma pochi sono coloro che intervengono con cognizione di causa. Sono particolarmente felice di rivolgere a te questa domanda.

Da persona titolata a parlare, qual è la tua posizione?


Allo stato attuale è uno strumento che avvantaggia, al più, chi sa già far bene, e lascia indietro gli altri: come lo fu il computer quando divenne popolare. Per cui non mi scandalizzo se qualcuno usa le AI per scrivere. Magari c’è anche chi è in grado di riconoscere un buon testo ma non sa crearlo dal nulla, e grazie alla AI tira fuori qualcosa di buono per approssimazioni successive. A me non piace scrivere con l’ausilio delle AI: l’avventura me la tengo per me, ma non punterò mai il dito verso chi usa questa modalità. Mi interessa il risultato, non il processo.


Questi software per quali categorie di persone e/o mestieri potrebbero essere un supporto? Quali potrebbero invilire? Quali soppiantare?


I mestieri manuali saranno soppiantati solo da una robotica che ancora sembra piuttosto lontana: mi pare siano al sicuro. Quelli di concetto, non li vedo tanto minacciati per categorie specifiche, ma per livelli di competenza. Il luminare rimane. Chi è assai bravo non corre grandi rischi, ma tutti coloro che fanno la manovalanza li vedo in bilico.


22. Cinque parole. Per ciascuna puoi dire quello che vuoi.


Reti neurali.


Una intuizione formidabile. Lo si capiva anche trent’anni fa, lo ricordo bene. Ma rimane un oggetto computazionale pieno di incognite. Il paper che ha permesso di passare da GPT a ChatGPT lo ha scritto un ricercatore che, dopo aver annunciato lo studio su Twitter, ha scritto più o meno così: Anche se la rete non ha osservato istruzioni in lingue diverse dall’inglese, ugualmente è capace di rispondere agli ordini impartiti in altre lingue: non riusciamo a capirne il perché, e saremo grati a coloro che proveranno a dare risposta a questo dilemma.


Il ricercatore che ho citato vuole dire che il condizionamento che ha trasformato GPT in un assistente è stato generalizzato dalla rete neurale nel contesto delle altre lingue. Per cui, in qualche modo, deve aver capito il concetto generale.


Transumanesimo.


Da certi punti di vista sono tentato da quelle posizioni di avanscoperta. Però non credo sia il percorso migliore: in ogni caso le tecnologie fanno il loro corso quasi oltre la volontà umana, per cui è meglio andarci cauti, provare quantomeno a incanalare le scoperte in modo che esprimano la gran parte del loro potenziale positivo a scapito di quello negativo (questo dualismo esiste in tutta la tecnica).


Dio.


Non posso provare che non esista, né averne la certezza matematica. Ritengo tuttavia molto più saggio propendere per questa ipotesi – che mi viene indicata da tutto ciò che osservo – pur rispettando tutte le fedi (fin quando non cercano di impormi qualcosa).


Amazon.


Ipercapitalismo che però minaccia più direttamente i mercati che hanno già un problema. Se entro in un negozio di elettrodomestici e c’è personale incompetente, poca scelta, accordi con la distribuzione per vendere determinate marche di prodotti, e nessun aiuto reale quando le cose si mettono male col mio acquisto, lì Amazon sfrutta una fragilità esistente per farti fuori. Il vero problema per me è che non paga le tasse secondo un modello equo.


Batman.


Di fumetti non so quasi nulla.


23. Nel mondo che hai creato in Whope le uniche professioni rimaste sono quelle necessarie, cioè quelle più umili: muratori, agricoltori, ecc. È così che immagini il futuro o è siamo già nel futuro?

Come immagini il mondo tra cento anni?


Tra cento anni la robotica potrebbe essere capace di sostituirci in tutti i lavori fisici. Immagino il lavoro volontario, le persone a godersi la vita, o a lavorare con altre persone solo per il gusto di stare assieme, in progetti che hanno come finalità il benessere o l’arte. Questo è ciò che spero: magari invece saremo in mezzo a una guerra robotica. Però credo che la razza umana abbia il potenziale per raggiungere una condizione oggi utopica.


23. Mi pare che raccontare storie sia fondamentale per te, anche con Redis è stato importante.

Tu fai molto storytelling sui social, anche riguardo ai progressi della tua scrittura.

Che ruolo ha per te questo scriversi addosso?

Come immagini te stesso e la tua scrittura tra dieci anni?


Per me scrivere delle cose che faccio è un fatto di entusiasmo. Mi applico su ciò che mi incuriosisce e mi cattura, anche perché quasi tutto finisce per incuriosirmi, alla lunga. Pertanto ne scrivo: voglio condividere le mie esperienze, ma anche dire agli altri che esisto e che faccio delle cose (e che possono farle anche loro, che tutto è alla portata di chi è disposto alla fatica), e che non ho paura di nulla, né di muovere i primi passi nell’informatica dei grandi partendo da un paese agricolo, tantomeno della Repubblica delle Lettere che mi intima di rimanere al mio posto. Come effetto collaterale di questa attività piuttosto spontanea, che anzi mi tocca arginare attentamente, le cose che faccio non rimangono nel mio cassetto, ma hanno una qualche circolazione, come è accaduto con Redis in maniera dirompente (e prima con altri software che avevo scritto), e poi con Wohpe su una scala più contenuta. Anche il racconto che apre la raccolta di Storia di informatici illustri ha avuto una discreta circolazione.


24. Il momento degli sviluppatori è ora, hai dichiarato in diverse occasioni. Fare il programmatore è un’azione politica. Programmare è un atto politico. Sono d'accordo con te, ma sono anche molto di parte sul tema: per me ogni gesto è politico.

In cosa è politico, secondo te, il gesto del programmatore?

Quali difficoltà hai incontrato nel proporre le tue idee nel settore informatico?


Ci sono tanti modi in cui programmare è politico. Prendiamo Redis. Assieme ad altre tecnologie, quali il kernel di Linux, i database relazionali open source, i linguaggi di programmazione e i compilatori free, assieme a tutte queste cose ha democratizzato l’informatica. Vuoi fare un social network? Prendi queste cose già pronte per te, gratuite, non solo in termini economici: documentate, aperte, modificabili, e le usi per fare il tuo social network. Questo riduce il divario nelle condizioni di partenza. Se invece fossi andato a lavorare per uno dei colossi che a più riprese mi hanno chiesto di farlo, magari per migliorare il posizionamento della pubblicità nei siti, il mio effetto sarebbe stato diverso.


Immagino tu abbia una posizione molto precisa al diritto d’autore, quale?


Credo nel diritto d’autore. Puoi usarlo per fare open source, se vuoi: le licenze aperte sono basate sul copyright. Puoi usarlo per tentare di vivere dei libri che scrivi secondo un modello molto più vecchio: chi vuole leggere, bene: che paghi. Il copyright dice solo che il diritto di copia dell’autore viene ceduto secondo certe condizioni, espresse nel contratto, o, se non c’è un contratto, quelle implicite secondo la legge. Però in certi casi violare il copyright ha senso. Ad esempio se certi libri vengono relegati all’oblio, perché nessuno li vuole ristampare né vuole affrontare i costi per digitalizzarli e renderli degli ebook, ben vengano i siti che fanno questo sforzo violando il diritto d’autore. Ma si capisce: sono casi limite. Di solito la regola va applicata in maniera ortodossa.


25. Parliamo di donne e digital transformation.

Ad oggi, i protagonisti dell’informatica e delle tecnologie ICT sono uomini. L’85 % della forza lavoro in questi settori è maschile. Un divario che si respira anche in altri campi lavorativi ma qui la posta in gioco è molto più alta perché si tratta del mondo in cui viviamo, e vivremo.

Detto in termini apocalittici, le persone che stanno programmando il mondo - piattaforme social, software, ecc. - sono uomini.

Detto in termini semplici, e vagamente tecnici, il dietro le quinte funziona così:

gli algoritmi tradizionali hanno sempre lavorato con input programmati dall’uomo attraverso comandi e regole che trasformano questi input in output. Il “machine learning” è un po' questa cosa qui, cioè la trasformazione dei dati su cui la macchina è stata allenata in conoscenze.

Se un uomo allena il sistema a prendere certi dati, e se i dati che inserisce hanno bias inconsapevoli riguardo al sessismo, il sistema prende e rielabora pure quelli.

Ecco il circolo vizioso: il mondo reale ha bias perché non include la prospettiva femminile > l’uomo fornisce alle macchine istruzioni con quei bias > l’algoritmo processa le informazioni e i bias, e li ripropone.

La prospettiva maschile nell’output è ancora potente.

Basti pensare ai problemi già riscontrati in chatGPT.

Ti chiedo, è vero che i software sono sessisti?


L’intelligenza artificiale ha dei bias di genere, ma questi bias non hanno nulla a che fare col fatto che le AI sono programmate per lo più da uomini. La selezione dei dati che fanno gli uomini che creano i vari modelli generativi non è del tipo: Oh, guarda! Metto questo testo, questo invece no, questo sì che parla male delle donne. La quantità di dati necessaria per allenare le abilità delle reti neurali è enorme, per cui si spara nel mucchio: tutti i libri senza copyright, tutti i commenti di Reddit, tutti i testi di Wikipedia. Se c’è del sessismo nel corpo dei dati che si pescano in giro, e il sessismo c’è, perché è un po’ ovunque (anche nella produzione delle società più evolute), allora ciò che accade è che quel sessismo viene riproposto pure dai modelli generativi. Essi imparano attraverso gli esempi, come un bambino.


Ci sono, però, tre aspetti chiave che passano spesso inosservati:

1. Al contrario degli esseri umani, che sono anch’essi esposti a un bias e portatori di esso, le reti neurali possono essere corrette e indirizzate. OpenAI l’ha mostrato con ChatGPT. Non è perfetto, ma si rifiuta di fare affermazioni scorrette di vario tipo: per portarlo su posizioni scomode bisogna forzarlo molto. Al contrario, è molto più difficile correggere chi valuta la tua performance di lavoro, chi ti assume, chi ti giudica nell’aula di un tribunale.

2. Il sessismo che c’è nei testi e nelle immagini ci sarebbe almeno in parte anche se questi testi fossero scritti solo da donne e scelti solo da donne. Di sessismo è impregnata la società stessa. Ovviamente gli uomini in media sono più sessisti delle donne, perché mancano dell’esperienza di essere donne, ed essendo loro stessi uomini, per molti di loro la donna rappresenta “l’altro”. Inoltre il sessismo maschile è una situazione di comodo.

3. Non tutto quello che viene tacciato per sessismo che è presente nell’output dei modelli generativi è effettivamente sessismo. Ad esempio se chiedo a MidJourney di creare un’immagine di un’infermiera (senza specificarne però il genere: in inglese si può, in italiano no) e mi appare una ragazza, più che sessismo ciò mostra che statisticamente, per beccarci, il software mostrerà come appare più probabilmente un infermiere generico. Specialmente negli Stati Uniti, per lo più sono le donne a fare questo mestiere, e MidJourney vuole rappresentare un’immagine credibile. Ciò ci scandalizza. Però se chiedo a MidJourney di mostrarmi una partita in corso in un campo da calcio di una scuola elementare in Nigeria, e i bambini nell’immagine non sono per metà biondi, il risultato mi pare scontato. Eppure è lo stesso processo, a cui diamo però una interpretazione diversa. L’output di un modello statistico parte dall’osservazione (e non da un giudizio) della realtà. O almeno la realtà per come appare dai dati di input. Se MidJourney facesse il training solo su immagini di infermieri italiani, che sono grossomodo tanti uomini quante donne, allora non avremmo quel bias.


Hai mai lavorato con donne in team?

Si, molte volte.


Qual è la tua esperienza, e il tuo punto di vista, riguardo al ruolo delle donne in questo settore?


Le donne brave sono brave quanto gli uomini. Tra i programmatori migliori che ho conosciuto nella mia vita, alcune sono donne. Ci sono molte meno donne che uomini perché c’è un problema che nasce molto prima del contatto con l’ambiente di lavoro. Poche bambine, per ragioni di vario tipo, sociali, di modelli ricevuti, si appassionano alla programmazione in tenera età. E per fare questo lavoro ai massimi livelli, bisogna partire da giovani e farne una passione (questo in realtà vale quasi per qualsiasi cosa).

A Twitter una ragazza giapponese di cui ho grandissima stima era una delle figure più importanti del comparto tecnico dell’azienda. Era riverita da tutti, e a ragione. Una sua collega indiana, anche lei molto brava, la sostituì più avanti almeno rispetto a certi incarichi, e anche lei era brava e godeva di un grande appoggio. Anche in Italia ho conosciuto delle bravissime programmatrici. Ce ne sono anche di deboli, com’è ovvio che sia. A volte accade che l’azienda deve assumere a ogni costo delle donne, altrimenti è in difficoltà per varie ragioni che oggi sono scontate. Poche ragazze si appassionano all’informatica (per ragioni che includono una visione sessista del programmatore), dunque la capacità del mercato del lavoro di fornire brave programmatrici non è equiparata alla domanda, perciò a volte ci si accontenta di persone non all’altezza. Il rischio è che certi colleghi uomini poco lungimiranti pensino che la loro impreparazione dipenda dal fatto che sono donne: cosa chiaramente falsa. Ovviamente ci sono pure programmatori uomini assai scarsi. Quello che voglio dire è che nel nostro settore le donne sono poche: è come cercare di assumere un bravo programmatore che sia alto almeno un metro e novanta: è una nicchia, e se almeno il trenta percento della mia azienda deve essere alto un metro e novanta, alla fine mi accontento di gente con poca esperienza, purché sia alta.

E poi: non ho quasi mai assistito a situazioni nelle quali le donne siano state sminuite nell’ambiente lavorativo dei programmatori. Ogni tanto mi è capitato di notare qualche atteggiamento dubbio, ma non spesso. L’ho visto molto di più con gli indiani. Ovviamente le mie esperienze personali non fanno statistica. Ma ho visto più volte che in un ambiente dove ci sono solo uomini, le donne sono spesso incoraggiate. Se ne sente la mancanza: come all’istituto per geometri. Qualche stronzo ovviamente c’è ovunque. Invece mi pare molto più probabile che le donne si possano sentire in difficoltà per altri motivi, tra informatici. Osservate, bramate sessualmente. Questo sì.


Come si può evitare il bias del sessismo nell’intelligenza artificiale?


Bisogna scrivere contenuti e produrre immagini che siano meno sessiste. E, per ora, smetterla di additare le AI come irricevibili per il fatto di avere questo limite. Invece, cercare di migliorare per quel che si può migliorare di questa nuova tecnologia, perché potrebbe diventare tra le meno sessiste a disposizione. Anche un ausilio alla causa, visto che, ad esempio, posso chiedere a ChatGPT di scovare degli atteggiamenti sessisti in una chat o in una conversazione via mail. Le AI ci mostrano solo un problema che esiste a tutti i livelli, ma quantomeno offrono strumenti per mitigarlo, mentre la società resiste molto meglio al cambiamento.


26. La cosa più fastidiosa, ma vera, che i tuoi amici dicono di te.


Parlo troppo.


Grazie e in bocca alla Lupa per tutto!


Grazie a te!


 

Nota bio-bibliografica


Salvatore Sanfilippo è un informatico e autore di fiction italiano. Per un ventennio ha contribuito alla scena del software open source, occupandosi prevalentemente di sicurezza informatica e di database. Esordisce come autore nel luglio del 2022, con Wohpe, edito da Laurana. Nel luglio del 2023 pubblica il primo racconto della serie Storie di informatici illustri; la raccolta, che include nove racconti, sarà edita durante il prossimo inverno. Vive a Catania.






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