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Racconti | Il pozzo della carne





 

Testo di Claudio Kulesko

Illustrazione di Finepiano

Editing a cura di Lorenzo Vercesi


 

 

 

 

The impossible could not have happened,

therefore, the impossible must be possible

in spite of appearances.

 

Agatha Christie, Assassinio sull’Orient Express

 

 

 

Erano le sei meno un quarto di un tiepido pomeriggio d’autunno. Uno di quegli strani scherzi di ottobre, sospesi tra un giorno di nebbia e uno di bufera.

Quella sera, come ogni venerdì sera, a casa di Miss Jane Marble si era radunata per prendere il tè la solita compagnia: io, Benjamin Godfrey; la signorina Betty Fogart; l’ammiraglio Bruno Lovasz; Teddy Banks, l’avvocato del paese, e sua moglie Henrietta. Si era aggregato a noi anche un mio vecchio compagno di college, Henry Burke, il figlio di un ricco magnate di origini austriache, proprietario della maggior parte delle acciaierie a nord di Bradley Stoke.

Da appena due settimane Burke aveva fatto ritorno in Inghilterra dagli Stati Uniti, dove era stato spedito dal padre per studiare. Io stesso non lo vedevo da più di quindici anni. Potete immaginare la mia sorpresa quando, due giorni prima, l’avevo incontrato per strada mentre tornavo dal mio studio a Main Road. Tra abbracci e strette di mano avevo finito per invitarlo a uno degli incontri più regolari e, per così dire, istituzionali della mia piccola cerchia di conoscenti. Da quell’incontro fortuito, tuttavia, non ero riuscito a scrollarmi di dosso la sensazione che vi fosse qualcosa di diverso nel mio vecchio amico. Del ragazzo timido, così chiuso in se stesso da sfiorare il mutismo, non era rimasta neppure l’ombra. Dal transatlantico Queen Elizabeth, al posto di Henry Burke, era sbarcato una sorta di doppelgänger, come dicono i tedeschi: un uomo di mondo fatto e finito, elegante, spigliato, la lunga barba curata, sempre armato di sigaro Avana, bastone d’avorio intarsiato e orologio da taschino.

Era naturale che, quel giorno, tutta la nostra attenzione fosse puntata su di lui, sul suo accento yankee e il sorriso smaliziato. Neppure la vendita della grande villa del defunto Sir Iain Parson, l’argomento che da settimane dominava le conversazioni tra le vecchie signore del paese, era riuscita a imporsi sul nuovo arrivato. Persino l’ammiraglio, un omone serio e composto, sembrava ipnotizzato dal grosso sigaro che ballonzolava tra le dita dell’americano, come avevano iniziato a chiamarlo i nostri concittadini.

L’unica a sembrare immune al suo fascino era proprio l’anziana Miss Marble, che, tra un sorso di tè e un biscottino al burro, aveva proseguito, imperterrita come suo solito, a lavorare a maglia.

Allo scoccare dell’ora, quando i fondi di tè cominciavano a languire nelle tazze, sul gruppo calò una fitta coltre di silenzio. Fu allora che Miss Marble alzò lo sguardo, si posò in grembo il cappello di lana e disse: “Eppure, eri così diverso da bambino”.

Nell’udire quelle parole, Henry Burke mi parve trasalire. Mi trovavo proprio di fronte a lui, all’altro capo del tavolino di cristallo, e lo vidi bene. Fu come se, per un breve istante, uno sfarfallio avesse solcato i suoi grandi occhi verdi. In tutta risposta, Henry sorrise, se possibile con ancor più vigore di prima.

“L’America può far miracoli ai bifolchi come noi, Miss Marble”.

Nella sua voce non c’era neppure un accenno di ripicca.

La nostra ospite rise in tono amabile, per poi tornare a occuparsi del cappello di lana che, ci disse, non aspettava altro che scaldare quella testolina di ratto di suo nipote.

 

Quella domenica si sparse la notizia che nella villa di Parson fremevano già i lavori per l’imminente trasloco. File e file di furgoni facevano avanti e indietro dal porto al maniero e viceversa, appestando di smog le strade del paese.

Come tutte le cose che avvengono in un piccolo centro urbano, anche stavolta a causare una simile euforia non era stata la sorpresa, bensì, l’aspettativa. Sir Parson, centenario e aristocratico di sangue, era stato noto non solo per la sua cortesia e costumatezza ma anche, e soprattutto, per la sua leggendaria tirchieria. Come minimo, la gente del paese sperava che, in contrasto a Parson, il nuovo occupante dovesse essere una specie di Mecenate con la passione per la redistribuzione socialista delle ricchezze. Non giovava il fatto che gli operai e i facchini che trafficavano attorno e dentro la villa, fossero stati visti trasportare ogni sorta di meraviglia: dragoni cinesi di legno laccato; maschere africane; orologi a pendolo; grammofoni e intere casse di dischi; campane tibetane; due Buddha di giada a grandezza naturale e un’intera collezione di flauti traversi.

Michael Dedekind, eccentrico pascià belga, giunse il giovedì dopo, in piena notte, e prese in tutta fretta possesso della residenza. Nessuno in paese era riuscito a scorgerlo. Solo la signora Falmouth, la perpetua del parroco, che soffriva di insonnia e restava spesso sveglia a leggere seduta davanti alla finestra, si era vista sfrecciare davanti casa la Jaguar del belga e, in quel breve istante, ne era riuscita a scorgere il volto cupo e spigoloso, sormontato da un cappello a cilindro. Al mattino, la donna non aveva potuto fare a meno di lasciar casa di buon mattino e riferire a ogni altro abitante del paese ciò che aveva visto. Anche Frolic Town, ora, poteva vantare il suo novello Dracula.

Da quella notte, nessuno vide Dedekind passeggiare o far compere; nessuno venne chiamato alla villa per svolgere lavori o badare al giardino. Era come se il maniero fosse rimasto a tutti gli effetti disabitato.

L’arrivo così ravvicinato dei due forestieri aveva portato scompiglio nelle conversazioni che si tenevano dopo la messa nel cortile della parrocchia. La gente non riusciva a decidere di chi si sarebbe dovuto sparlare per primo: dello sfrontato yankee o del ricchissimo eremita?

Dopo la visita a casa di Miss Marble, anche Burke pareva sparito dalla faccia della terra.  Ero poi venuto a sapere da un nostro comune amico che tale ritrosia era dovuta ai suoi doveri filiali. Dopo circa una settimana dal ritorno di Henry, il vecchio Johan Burke, rimasto vedovo all’epoca in cui il figlio era ancora adolescente, si era ammalato ed era andato peggiorando di giorno in giorno. Afflitto da un male che lo rendeva sempre più sensibile ai rumori e alla luce, Johan Burke era ormai costretto a trascorrere le giornate nella penombra della sua stanza, in attesa che una squadra di medici londinesi trovasse un rimedio al morbo. O che rinunciasse a trovarlo. Nel frattempo, però, necessitava di qualcuno che lo aiutasse a mangiare, a lavarsi e a vestirsi.

Il figlio, tanto orgoglioso quanto il padre, aveva deciso di non affidare tale compito a nessuno che non fosse lui stesso.

Questo, almeno, fino al primo omicidio.      

 

Saranno state le nove e un quarto del mattino quando la cameriera del Dottor Jeffrey Fairway, la signorina Halifax, giunse battendo con foga alla mia porta. La feci entrare. Aveva il grembiule storto in vita e la cuffia stretta tra le mani, ed era così sconvolta che dovetti costringerla a bere un sorso di liquore. Quando fu di nuovo in grado di parlare, mi riferì tra le lacrime di aver trovato il mio collega sul pavimento del suo studio

Beh, non proprio sul pavimento, si era affrettata ad aggiungere, “un po’ in tutta la stanza, un piede qui, l’altro lì. Un orrore. Un vero orrore vi dico. Ma quel che era peggio era…era…la…testa”

Dopo aver pronunciato la parola testa si piegò in due e rimise con forza, schizzando bile giallastra fin sulle mie scarpe

“La testa…” riprese la signorina Halifax tirando su col naso “era poggiata sulla scrivania”

 

In qualità di unico medico legale del paese, dopo aver fornito alla ragazza una generosa dose di laudano e averle consigliato di tornare a casa, telefonai alla polizia e mi recai sul posto. Ciò che trovai lì non si discostava molto da quello che mi aveva raccontato la cameriera.

A esclusione delle mani, gli arti e le estremità erano stati sparsi per tutto l’ufficio, come se una creatura mostruosa lo avesse fatto a pezzi in preda a una furia cieca. Questo, con ogni probabilità, sarebbe ciò che avrebbe pensato un individuo del tutto privo di esperienza forense. In realtà, era evidente come tutto il lavoro fosse stato svolto grazie a una grossa sega. Il torso dell’uomo era al centro dello studio, sul lettino medico, deprivato di braccia e gambe, simile al guscio di una grossa testuggine delle Galápagos. Il piatto forte, però, era la testa, che l’assassino aveva provveduto a recidere con estrema cura a pochi centimetri dal mento.

Per qualche strano motivo, il colpevole aveva cucito tra loro le labbra e le palpebre del cadavere, usando un ago e un rotolo di spago trovati in uno dei cassetti dello studio. In ciò lessi subito le tracce di un delitto premeditato, di valore simbolico o, forse, persino allegorico.

Quello che la signorina Halifax non aveva potuto vedere, però, erano le mani. E anche noi ce ne eravamo del tutto dimenticati. Furono scoperte circa un’ora dopo dall’agente Galloway, mentre raccoglieva e catalogava gli indizi, nel cassetto della scrivania: una di fronte all’altra, i pugni serrati, gli indici distesi l’uno a indicare l’altro, come in atto di reciproca accusa.

Per tre giorni, brancolammo nel buio. La polizia non solo non riuscì a trovare il colpevole, ma nemmeno lo straccio di un movente. Tutto quel che si sapeva era ciò che ero riuscito a scoprire interrogando i resti del mio anziano collega. Verso mezzanotte qualcuno aveva suonato alla porta dello studio e Fairway, riconoscendolo, aveva aperto la porta per farlo entrare. Poco dopo, il misterioso ospite aveva colpito più volte il medico alla nuca con un oggetto contundente, forse un manganello o una stecca da biliardo, per poi farlo a pezzi con la sega da amputazione trovata nel lavandino del bagno. L’omicida, inoltre, si era premurato di seminare ulteriori indizi, allestendo il corpo e la scena del crimine come se si trattasse di una sorta di macabra esposizione.

Il giorno del funerale, si presentò alla funzione anche il giovane Burke, elegante come sempre. Mi sorprese il fatto che avesse deciso di abbandonare il padre, seppur per poche ore, per porgere l’ultimo saluto al vecchio dottore. Quando mi avvicinai per salutarlo, ne approfittai per chiedergli in che rapporti fosse con il defunto. Mi rispose che era stato il suo medico, quando era ancora un bambino. Sulla strada per casa, mi ritrovai a pensare a quanto fosse straordinario che un uomo a tal punto schiacciato dalla vita, avesse trovato il tempo di vestirsi in modo così squisito e di continuare a curare con tanta attenzione la propria barba. L’America doveva davvero fare miracoli.

 

Il venerdì successivo, nel corso del nostro abituale appuntamento a casa di Miss Marble, l’ammiraglio Lovas, in pensione da vent’anni e solito dedicarsi a lunghe passeggiate, aveva riferito di essersi imbattuto quella stessa mattina in Dedekind, mentre camminava lungo il sentiero che costeggia il fiume Plough. Ne era rimasto molto turbato, dal momento che lo strano miliardario se ne andava in giro avvolto in una marsina insolitamente lunga, color nero pece, abbinata a camicia, pantaloni, mocassini e addirittura un cappello a cilindro dello stesso identico colore. Portava sottobraccio un bastone da passeggio che gli aveva ricordato un lungo osso femorale, e che aggiungeva un che di funebre a quell’insieme già di per sé inquietante. Come se non bastasse, il collo della camicia era tenuto così alto, e i bordi della marsina così spessi e imponenti, da coprire quasi totalmente il viso dell’uomo, del quale si intuiva solo un paio di baffetti sottili e due penetranti occhi chiari.

“Pareva uno spettro” aveva esclamato l’ammiraglio “uno spettro che fa ritorno alla sua tomba”

Gli domandai come avesse fatto a capire che si trattava davvero del signor Dedekind, se non l’aveva visto in volto. Vedendolo esitare, ero già pronto a sfoggiare un sorrisetto derisorio e fregiarmi di un’aria di superiorità intellettuale. Quand’ecco che lui, dopo aver preso un profondo respiro, rispose:  “Me l’ha detto lui stesso. Si è fermato e si è presentato. Un signore molto a modo…”

Ammutolii. Con la coda dell’occhio vidi Betty Fogart sgranare gli occhi e Miss Marble alzare lo sguardo dall’ormai semi-compiuto cappellino rosso.

Rimanemmo assorti, in silenzio, a chiederci perché, tra tutti, Dedekind avesse deciso di manifestarsi proprio a quella testa di rapa dell’ammiraglio. Forse, perché era stato il primo che aveva incontrato, pensai. Non eravamo preparati a ciò che Miss Marple aveva da dire.

“Santo Cielo, Bruno! Ma se Dedekind neppure esiste, come avresti fatto tu a incontrarlo per strada?”

L’ammiraglio si voltò a guardarla, esterrefatto

“Che intendete, Jane, mia cara?”

“Quello che ho detto, Bruno caro. Anche a me oggi è capitato di incontrarlo e, anche se non mi si è presentato, l’ho riconosciuto proprio perché non si trattava di lui. Mi sorprende che uno come te, che ha avuto a che fare con ogni sorta di spione e infiltrato, possa cadere con tutti gli stivali in un trucco del genere”

L’ammiraglio arrossì con violenza ma non batté ciglio. Come tutti noi si era già rassegnato ad attendere, come sempre, che Jane Marble esponesse per filo e per segno la sua verità. E fu così che cominciammo a tendere i primi fili della nostra ragnatela.

Ma Dedekind fu più rapido di noi.

 

Nei giorni a venire, in tutto il Middleshire fu denunciata la scomparsa di tre ragazze fra i dodici e i diciassette anni, e di due donne, entrambe sotto i trenta. Due mani femminili e un piede provvisto di caviglia furono scoperti nelle cassette delle lettere di tre abitazioni dai proprietari di queste ultime, su Fairfax Street, a Frolic. Altri due medici furono trovati macellati nei loro ambulatori: l’intestino di uno era stato usato per impiccare l’altro e diversi strumenti chirurgici e sostanze chimiche erano state sottratte dagli armadietti. Per finire, un ubriacone locale era stato rinvenuto crocifisso a una vecchia quercia non lontano dal pub nel quale aveva trascorso la serata. L’uomo era stato sventrato e ricucito con la massima cura. Nel suo stomaco la polizia trovò altre due mani, forse, a giudicare dalle prime rughe, appartenenti alle due donne scomparse: una sinistra e una destra, disposte l’una a toccare l’attaccatura del polso dell’altra, come se si stessero inseguendo a vicenda.

Fu come se l’Inferno avesse spalancato i suoi cancelli nel bel mezzo della contea, esortando tutti i suoi diavoli a farsi una lunga passeggiata di piacere al chiaro di luna.

A chiudere la vicenda, però, fu un fatto per certi versi ancor più bizzarro. In una tarda serata fitta di nebbia, un noto furfante proveniente dal vicino paese di Saint Mary Meat si recò alla stazione di polizia di Frolic per autodenunciarsi. Si faceva chiamare Slimy Jim, quel tipo di farabutto che sapeva come restare perfettamente lucido per il tempo di scassinare qualche porta e una cassaforte, e che non era tipo da ripensamenti dell’ultimo minuto. In breve, l’equivalente criminale di un buon avvocato di provincia. Come si scoprì, a persuaderlo a confessare tutto alla polizia erano stati due fattori. Il primo consisteva nel fatto di aver compiuto solo la prima parte del reato, ossia l’effrazione con scasso e la violazione di proprietà privata. Il secondo, invece, nelle sue stesse parole, era stato il fatto che:

“Ho una figlia. Una bambina piccola, cioè, e non voglio che viva in un posto pericoloso. E lì dentro c’è un dannato carnaio, cioè. Un’intera vetrina di cristallo, piena di occhi, cioè, di bulbi oculari, dentro dei barattoli”

La polizia non ci mise molto a capire che si riferiva al maniero del vecchio Parson, dal quale Dedekind sembrava essere evaporato ai primi accenni di caldo. Slimy Jim aveva ricevuto una soffiata da un lavoratore del porto, secondo il quale il belga aveva lasciato il paese ormai da giorni, lasciandosi alle spalle, però, grandissima parte delle sue lussuose stravaganze. Per questo aveva deciso di intrufolarsi nella villa, trovandola, di fatto, disabitata ma anche piena di sorprese sgradite. Per la precisione, non si trattava di barattoli ma di un’intera collezione di preziose coppe in vetro di Murano. In ciascuna, Dedekind aveva posto un paio di occhi del colore corrispondente a quello del contenitore, a sua volta riempito di una miscela trasparente appositamente impiegata dagli anatomopatologi per rallentare i processi di putrefazione.

Più avanti, nel corso della sua deposizione, il postino dichiarò di non aver notato nessuno nella villa fin da quel fatidico venerdì in cui l’ammiraglio Lovasz aveva incontrato il belga sulle rive del fiume.

Attraverso Scotland Yard, la polizia locale emanò un mandato di cattura internazionale per Michael Dedekind. Il problema fu che, nessuno, in tutto il Belgio, pareva corrispondere all’identikit dell’uomo. Né in tutta Europa, se è per questo. Fu solo incrociando gli identikit realizzati dalla polizia di Frolic e quelli nel database dell’Interpol, che ci si accorse che l’unico profilo con un certo grado di corrispondenza era quello che un testimone aveva fornito del maniaco noto come Jack the Eyecarver.  Con la sola eccezione che tutti i delitti attribuiti all’assassino si fossero verificati negli Stati Uniti.

Il caso Dedekind riempì le pagine di cronaca per settimane. Giornalisti e lettori di quotidiani andarono in visibilio per l’efferetezze dei delitti e l’alone di mistero che avvolgeva la vicenda.

I corpi delle tre ragazze e delle due donne non furono mai ritrovati. Per procedere all’identificazione fu necessario fare ricorso unicamente agli arti e agli occhi rinvenuti nel corso delle indagini.

 

Era ormai trascorso più di un mese da quando l’uomo che si faceva chiamare Dedekind aveva lasciato il paese. L’inverno cominciava ad allungare i suoi artigli sulle campagne, minacciando gli inquirenti di occultare i cadaveri delle giovani scomparse per altri tre mesi. Le indagini della polizia erano giunte a un punto morto. Tutti gli indizi che potevano essere individuati erano stati individuati. Tutti i testimoni che potevano essere interrogati erano stati interrogati. Come si suol dire, non restava altro da fare che chiudere il cerchio.

Il primo venerdì di novembre, alla nostra solita riunione, era stato invitato anche Henry Burke. Stavolta, però, non da me ma da Jane Marble in persona. Quando l’americano suonò al campanello, eravamo già tutti pronti ai nostri posti come i passeggeri di un treno. Betty, la cameriera di Miss Marble, comparve alla soglia del salottino, stringendo tra le braccia il cappotto e il bastone da passeggio del giovanotto, che le veniva subito dietro togliendosi la sciarpa

“Buonasera, carissimi, è un vero piacere rivedervi!” esclamò Burke, porgendo la sciarpa alla cameriera e prendendo posto tra me e Miss Marble. Prima di congedare la donna di servizio, l’anziana signora la chiamò a sé con un cenno della mano

“Betty, mi raccomando, non dimenticare la miscela speciale. Oggi abbiamo un ospite di riguardo” disse, rivolgendo un ampio sorriso e un’occhiata compiacente all’uomo alla sua sinistra. Poi, si chinò a frugare nel cestino sotto la poltrona, dal quale spuntavano già i ferri e un cumulo di lana rossa.

Per tutta la prima ora, Teddy ed Henrietta Banks ci riferirono le loro prime impressioni sulla loro nuova cameriera e conversammo amabilmente su quanto fosse difficile, di quei tempi, trovare del buon personale di servizio. Il mio ex-compagno di scuola sembrava essere tornato in pompa magna alla sua antica spavalderia: commentava a gran voce, annuendo o disapprovando con vigore, agitando qua e là il grosso sigaro fumante. Non si arrestò neppure quando Betty rientrò nella stanza per deporre sul tavolino una panciuta zuccheriera di porcellana vittoriana e sette tazze di tè ancora fumante. Anche lui, prese a dire Burke, aveva perso fiducia nella servitù, da quando, all’epoca di Princeton, un maggiordomo lo aveva alleggerito di ben cinquecento dollari, prima di darsela a gambe ed essere beccato dalla polizia in un casinò di Las Vegas. Nel frattempo, Miss Marble ricamava i bordi di una lunga sciarpa per quel piccolo castoro di suo nipote Philip, come ebbe a dire lei stessa.

D’un tratto, mentre Burke era ancora intento a magnificare l’abitudine, tutta americana, di fare a meno di cameriere e maggiordomi, l’anziana signora prese a guardarlo con insistenza. Henry se ne accorse dopo un bel po’ e si interruppe, per fissare a sua volta Miss Marble con sguardo interrogativo

“Signor Burke, non per essere scortese ma mi pare che le sia caduta la barba…”

 




Henry chinò il capo. Fu in quel momento che si rese conto di avere gli occhi di tutti addosso. La signorina Fogart emise un urletto stridulo e Burke d’istinto, si portò la mano alla bocca

“Io…” fece per dire, ma Miss Marble non gli diede tempo di continuare la frase

“Signor Burke…o, forse, dovrei dire Signor Dedekind, non ha alcun bisogno di giustificarsi. Non c’è tribunale sulla terra in grado di valutare l’entità dei suoi crimini.  Ciò che ha fatto potrà essere giudicato solo da Dio in persona” disse, in tono cordiale.

Burke parve rilassarsi. Tornò ad appoggiare il dorso sulla poltrona e accennò un mezzo sorriso intriso di sarcasmo

“Il vapore. Che trucchetto del cavolo. Ci sono cascato come un allocco”

Miss Marble non smise di tenere gli occhi puntati sull’uomo, come se si aspettasse, da un momento all’altro, che quello potesse farsi spuntare un paio d’ali e volare via dalla finestra

“Il vapore non è che uno scherzo, signor Burke. La ciliegina sulla torta”

“E mi dica” proseguì l’americano, ignorando le parole della donna, “come avete fatto a capire chi ero? O ci siete arrivati tutti assieme, da buon circolo del Bridge?”

Ci squadrò tutti, uno dopo l’altro, per tornare alla nostra astuta ospite

“Beh, è stato semplice. Si ricorda quando ci siamo incrociati sul sentiero che costeggia il fiume? Io sì, come fosse ieri. Stavo andando dalla signora Mason a organizzare il mercatino di beneficenza della parrocchia, e non ho potuto fare a meno di notare che Dedekind se ne andava in giro con il suo stesso bastone da passeggio. Un pezzo originale, di avorio intarsiato, forse acquistato proprio in Africa. Chiunque a Frolic Town sa che quel sentiero collega la villa dei Burke alla magione dei Parson. Fu Ian Parson in persona a far realizzare il canale, pagando fior di quattrini al padre di suo padre per avere la stessa fornitura idrica fresca di sorgente. A quel punto, è bastato fare due più due”

Henry Burke applaudì, estasiato

“Meraviglioso, lo ammetto. Ma…di cosa mi accusa, di preciso, Miss Marble?”

Fu il turno dell’anziana, stavolta, di sorridere

“Dell’omicidio del dottor Fairway, tanto per cominciare£

“E che interesse avrei mai potuto avere nell’uccidere un povero vecchio?”

£Tutto l’interesse del mondo, signor Burke. Rammenti quando ti ho detto che da piccolo eri totalmente diverso? Lascia che ti dia del tu…”

L’altro annuì cauto, portandosi la mano al mento

“L’ho detto perché lo ricordo bene. Quand’ero giovane ero molto amica di tua madre Helga. Andavamo spesso a messa insieme e coordinavamo il gruppo di ricamo degli scout. Avremmo avuto sì e no quarant’anni, all’epoca. Spesso, prima di andare in parrocchia, prendevamo il tè a casa vostra, nel grande salone verde. Tu te ne stavi sempre in camera tua o in biblioteca, al piano di sopra. Ma il dottor Fairway, pace all’anima sua, era una presenza ricorrente tra quelle mura. Faceva su e giù dai tuoi quartieri, al punto che giunsi a chiedermi se non stesse arrotondando lo stipendio facendoti da balia. A un certo punto, presa dalla curiosità, domandai a tua madre la ragione di tutte quelle visite. Lei si fece scura in volto, come mai aveva fatto prima di allora in mia presenza, e, sull’orlo delle lacrime, mi rivelò che eri molto malato. Qualche anno dopo, Helga ebbe un incidente e volò giù dalle scale del secondo piano; non ti sto accusando anche di questo, anche se ho cominciato ad avere dei dubbi in proposito. Mi sono sempre chiesta perché Johan ti avesse allontanato in fretta e furia dal Middleshire.

Per certo, quello che hai fatto è stato approfittare della malattia di tuo padre. Forse ne eri già a conoscenza addirittura prima di partire. Una forma galoppante di demenza senile che l’avrebbe reso sempre più incapace di rivelare la verità su di te. E, poi, alla sua morte, saresti diventato l’unico erede delle acciaierie Burke. Ti saresti sbarazzato di lui da qui a poco, o sbaglio? È per questo che non hai voluto nessun aiuto in casa.

Ma, prima, dovevi sgomberare il campo dal vecchio dottore e seminare un po’ di confusione qua e là. Il punto è che Fairway sapeva qualcosa di cui nessun’altro, a parte tua madre e tuo padre, era a conoscenza”

Nel salottino restammo tutti impietriti, in attesa della rivelazione finale

“Ossia” proseguì Miss Marble “che sei affetto da un raro caso di personalità multipla. Dirò di più: scommetto di non star neppure parlando con il vero Henry Burke, che è sempre stato un ragazzo d’oro, ma con quel furfante di Michael Dedekind. Non c’è stato un solo istante in cui Dedekind non abbia finto di essere Burke per arrivare ai suoi soldi”

Un largo sorriso si allargò sul volto dell’americano

“Come volevasi dimostrare” chiosò l’anziana signora

“Non avrei mai risolto al caso senza l’aiuto di Henry. Sebbene fosse tenuto prigioniero nell’inconscio di Dedekind, è stato lui a disseminare i vari indizi che mi hanno condotto a formulare la mia teoria: le mani che si indicavano e toccavano a vicenda, ritrovate nella ghiacciaia di Fairway e nel cadavere di quel poveretto erano un’allegoria della duplicità. Un tocco di classe in una serie di omicidi eclatanti e spettacolari, progettati per apparire tutto tranne che inglesi, così da attirare l’attenzione sulla partenza frettolosa di Dedekind. Forse, il giovane Burke ti ha addirittura persuaso a portare con te il bastone. Mi ricorda il caso di quelle due sorelle Skinner, che vivevano…”

Fu allora che Henry Burke o, meglio, Michael Dedekind fece scivolare una mano nella fodera del soprabito e scattò in piedi. Ne estrasse un lungo revolver, che puntò contro Miss Marble. Per un brevissimo istante, immaginai la testa della vecchia signora andare in frantumi come un cocomero maturo sotto una mazza da cantiere. La signorina Fogart prese a urlare. I coniugi Banks si strinsero tra loro. Betty doveva aver saggiamente deciso di restare in cucina. Io mi sentivo come pietrificato, incapace di muovere anche solo un dito. Solo l’ammiraglio provò a reagire ma fu subito fulminato da un’occhiataccia dell’americano e ricacciato in poltrona con un cenno dell’arma.

In tutto ciò, Miss Marble non aveva battuto ciglio

“Lui ha sempre avuto tutto” prese a urlare Dedekind, in tono lamentoso “e io niente, niente di niente. Ero stufo di dover rimanere nell’ombra. Io, che sono un genio, un talento grandioso, immenso come il cielo”. Calcò con forza le ultime parole, battendo il piede a terra come un bambino adirato.

Poi, vedemmo tutti la pistola ruotare su se stessa e scivolargli in bocca, come se una forza invisibile l’avesse guidata fin lì contro la sua volontà. Lo stesso Dedekind la vide, attraverso gli occhi gonfi e sgranati che, ora, si andavano incrociando al di sopra del naso. Mezzo secondo di silenzio. Un boato. Schizzi di sangue e frammenti di ossa e cervella mi raggiunsero sul volto e sulla camicia.

Per l’ennesima volta, Henry Burke era giunto in nostro soccorso. Aveva preferito farla finita, piuttosto che essere schiavo del suo doppio malvagio.

Solo allora Miss Marble si alzò in piedi. Fece per sorbire un sorso di tè dalla sua tazza, ma rinunciò non appena vide qualcosa galleggiare sulla superficie. Chiamo Betty che doveva essere nascosta in corridoio, perché apparve subito alla porta e le disse, in tono amabile come sempre

“Per piacere, Betty, potresti chiamare la polizia? E, più tardi, tieniti libera per fare un salto in tintoria”.

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