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Racconti | Il torturatore divenne un uomo qualunque



 

Testo di Emanuela Lancianese

Illustrazione di Angelica Stefanelli


 


Ogni mattina lui si alza, tardi, così dicono gli uomini dei servizi segreti: «ha dormito male», è scritto nel rapporto, «lamenta dolori alle reni», «le telecamere hanno registrato movimenti nel settore H»: succede ogni notte, negli ultimi tre mesi, sempre alle tre. «Ha fatto regolarmente una nuotata nella piscina del palazzo». 

Contatta le figlie in videochiamata criptata a intervalli di tempo regolari: un dossier interno degli inglesi chiarisce i dettagli delle rispettive carriere scientifiche e le definisce «presuntuose e spietate». Con videochiamate multiple, sempre criptate, il presidente contatta sempre le stesse persone. Il personale addetto al monitoraggio e le segretarie hanno sentito i soliti insulti: «avidi, abietti, pigri…Sechin, cane bastardo, tu sei il peggiore ma stai attento, ti dico, solo questo, stai attento». 

Ogni volta che nomina uno di quei bastardi a capo di una azienda va dai cani: le telecamere inquadrano il capo mentre li frusta a sangue. Ne sono morti quattro negli ultimi sei mesi. 

Nei dossier dell’Fsb ci sono registrazioni, in possesso anche della Novaja Gazeta, mai diffuse, in cui lui definisce «disgustosi e fanatici i membri di идущие вместе - Iduščie vmeste - (Quelli che camminano insieme)»… «bruciano in piazza i libri di Sorokin per farmi piacere: leccaculo e della peggior specie. Niente altro che leccaculo». 

«Nessuno sa veramente cosa gli piaccia», dice un anonimo informatore. 

I medici confermano che sta rispettando i protocolli sanitari con un senso di disciplina militaresca ma le telecamere inquadrano il volto di un uomo che ha sempre paura: in ogni incontro pubblico, gli esperti di fisiognomica captano «il solito impercettibile tremolio sotto l’orbita perioculare sinistra». 

Sa che qualcosa di mostruoso gli cresce dentro, dicono altri informatori che i giornalisti definiscono «fonti ben informate, vicine al presidente» e aggiungono: «non prova paura né pietà, non prova emozioni: si considera l’uomo moderno, un profeta, l’incarnazione della patria». 

«Una forte anosmia gli impedisce di sentire gli odori e di gustare appieno i sapori, questo sarebbe un handicap per le missioni sotto copertura»: è scritto nel rapporto che i militari hanno redatto quando era un tenente del Kgb, «aggravato dalla ricorrenza di disturbi legati alla personalità: narcisismo patologico, incapacità di provare emozioni e di articolare desideri»


In un libro della biblioteca privata del presidente, nello spolverare i dorsi, la signora Irina, afferrando maldestramente un tomo, ha fatto cadere una cartolina dell’uomo da giovane: ha le maniche arrotolate, le mani nervosamente affondate nella farina sparsa a fontanella sul tavolo di una cucina degli anni ‘70. 

«Disturbo della percezione corporea», conclude il rapporto degli psichiatri: «non vuole che gli altri lo fissino o lo guardino diritto negli occhi», tranne che nelle riunioni del consiglio federale della Sicurezza: lo sguardo fisso piega ogni infedeltà. 

La cartolina è della serie без галстука (senza cravatta). Fatta per le famiglie.

Le telecamere inquadrano un uomo che maledice l’invisibile, lo sentono dire «le parole sono prive di forza, che lingua maledetta». 


Ha «perso il senso dell’ironia: non ride nemmeno alle solite barzellette», aggiunge un altro anonimo amico del presidente. Poi, in un secondo passaggio secretato dei Servizi, precisa: «ha un incubo, ricorrente: gli compare l’occhio fuori dalle orbite sulla faccia sfigurata di Gheddafi. Si sente circondato da corpi interi o a pezzi, scie di sangue sui pavimenti, ossa spezzate: in sogno tutta quella carne aperta marcisce e puzza, dice. Morti, ovunque, nei sogni sempre più numerosi dei vivi, i morti in mezzo al sangue, con le loro alte uniformi». 


Da anni le telecamere lo filmano mentre si lava le mani, facendo scorrere l’acqua nel lavandino, lo registrano mentre ripete: «il segreto del nome sta nel cavo della mano». 

Suo padre gli ha spezzato un dito quando era piccolo, dice la sua scheda personale di arruolamento nel Kgb. «Il dolore sta nelle mani e le mani non dimenticano», ripete ai medici del reparto.  


Gli anni in missione a Dresda, i suoi colleghi riferiscono che pensava che tutti loro fossero «INUTILI»: invece quelli che erano «a Berlino, erano dei veri ufficiali, loro sì facevano qualcosa di utile, si portavano via pezzi di muro». 

Arruolato nel KGB, lo avevano messo a una scrivania a mettere timbri. Invece lui, fin da piccolo, mentre gli altri coetanei alla domanda: «Cosa farete da grandi?» Rispondevano: “Il cosmonauta», lui, LUI NO, lui rispondeva: «Farò l’agente segreto!». 


A Dresda leggeva tanto, a Dresda, rasa al suolo dagli alleati, dove la gente non amava parlare più dei migliaia di morti bruciati vivi, lui leggeva per capire il decadente occidente. 

«Leggo molta letteratura americana, inglese, francese, signore». 

«Ovvero, cosa sta leggendo tenente?» 

«In questo istante sto leggendo il racconto di una famiglia in gita, signore: madre, padre, un bambino e una bambina, la nonna, più un gatto. Una macchina nera avanza lentamente lungo i tornanti verso l’auto della famiglia, finita in un fosso. Poi il capo degli assassini li raggiunge e prima di ucciderli gli fa una domanda: vi sembra giusto, signori, che un uomo sia castigato senza pietà e un altro non sia castigato per niente?»

«Perché lo sta leggendo, tenente?»

«Trovo molto interessante la domanda formulata dall’assassino, signore, è molto indicativa di certi atteggiamenti mentali del nemico, signore»   


Una mattina, all’alba in giardino, con le telecamere, sempre puntate ovunque - ancora più solo - aveva visto dei corvi, posarsi sui rami più alti delle betulle e poi fare dei giri per tornare al punto di partenza: un grumo scuro sussultava nel punto più alto della pianta, un uccello vi era rimasto impigliato. Sembrava crocefisso, e nonostante i suoi sforzi disperati non riusciva a liberarsi, lui era rimasto a guardare per mezz’ora con il desiderio che riuscisse a svincolarsi mentre gli altri corvi si erano già allontanati. 

Lo guardava e gli piaceva pensare a Navalny, che nella prigione Ik- 2 di Prokov stava per ore seduto su una panca sotto il suo ritratto, a meditare, come forma di disciplina morale. Si era detto che sarebbe bastato colpire la base dei piccoli rami con un colpo di fucile perché il corvo si liberasse, senza motivo lo sperava, anche se con gli anni la vista gli era molto calata. 

Quindi era rientrato, aveva preso il suo fucile ed era tornato al suo punto di osservazione. L’uccello era ancora lì appeso, con il corpo abbandonato e le ali aperte impigliate, non si muoveva più. Era un garbuglio in croce, come quella notte, visto dall’alto delle telecamere di sicurezza mentre appena diventato presidente penetrava quella ragazzina agile, elastica, candida: al momento in cui le era entrato dentro lei si era inaspettatamente divincolata e lo aveva supplicato di fermarsi, poi non si era più mossa fino a che lui non aveva finito. 

Visto nel monitor il presidente aveva caricato il fucile, aveva mirato al rametto in basso, a circa una spanna dall’animale, e aveva tirato: l’uccello si era subito rianimato, forse lo aveva colpito per sbaglio. 



Da cadetti, al centro addestramento reclute, si esercitavano bersagliando i gatti, agli occhi, alle zampe. Di nuovo il presidente aveva caricato, mirato e sparato. Il legno aveva ceduto e l’uccello, mentre precipitava, aveva aperto le ali per poi alzarsi in volo e il presidente aveva sentito l’uccello alzarsi in volo dentro di lui per soffiare con le ali il potere delle bestie e dare allo spirito la devozione assoluta.


Un suo amico, un amico di quando erano giovani, era andato in America, e da altri conoscenti gli giungevano ogni tanto notizie e cartoline; sono conservate in cassaforte, chi ha redatto l’inventario ha letto il contenuto e lo ha trascritto: c’è la «cupa bruttezza» di città come Boston, e New York negli anni ’80 «il luogo più orribile sulla terra di Dio». Il suo amico aveva scritto: «che la maggior parte dei giovani di talento che aveva incontrato in quel paese sembravano essere alquanto squilibrati(…) E perché non avrebbero dovuto esserlo questi americani? I giovani sovietici vivono in città dalle architetture brutaliste, con i palazzi presidenziali uguali a quelli di Bucarest o di Tashkent. I giovani americani di talento vivono in mezzo a gorilla spirituali, ai maniaci del mangiare e del bere, fabbricanti del successo, fanatici della tecnica, segugi della pubblicità: i giovani russi hanno ottanta modi diversi di descrivere il dopo sbronza».  


Gli ultimi dispacci dei suoi generali lo fanno sussultare e maledire. Anche davanti alle icone del padre Kirill sta con una smania insanabile, lacerato tra la furia del dio che lo chiama alla gloria del popolo e la vergogna per quello stare da miserabile, da supplice, nell’oscurità degli altari. E poi il russo confonde l’anima: ha delle parole che significano una cosa e l'esatto contrario, come воздаяние, che al tempo stesso vuol dire ricompensa e castigo. Invece, lui, come quel corvo, ha visto dall’alto le cose come sono. Perché se di dio si dubita, come nel racconto di quella americana, tutto può accadere.  


«Cosa si aspettano da me?» Chiede a padre Kirill in sogno, le telecamere captano il suo dialogo notturno: «Pensano che sia il loro salvatore? Lo spirito umano ha più bisogno di piombo che di ali». E di nuovo gli si formano immagini febbrili: panchine rotte, fontane senz’acqua, finestre frantumate, gabinetti sporchi, strade piene di buche, edifici ricoperti di graffiti, statue rovesciate. Gli abitanti sono stupratori o vecchie da strangolare, assassini, orfani, bambini le cui madri vanno a lavorare. A un certo punto i lacci delle sue scarpe si rompono, come da piccolo quando restava immobile, raggelato, mentre intorno lampadine continuavano a fulminarsi. La violenza criminale dei sogni è sempre in bianco e nero.

«Se dio ha fatto davvero quel che dice allora non si può fare altro che fare tutto come vuole lui, e se non le ha fatte non c’è piacere più grande, negli ultimi minuti che ci restano, che togliere la vita a qualcuno, bruciargli la casa, o fargli qualche altra cattiveria». Si rammenta tutte le parole che compongono le frasi dell’assassino, nel racconto. Lui è d’accordo. Indietro ci sono solo parole, le facce dei morti. Indietro non si torna. 


Una notte le telecamere hanno registrato un mormorio uscire dalle labbra nere del presidente, come da un altrove: “…questo è il mondo …bolla di sapone tra bolle di sapone».

L’uomo dei servizi segreti sta avanzando tra le ombre montanti della stanza che la telecamera inquadra con il grandangolo, la qualità angosciosa del momento è aumentata dall’imminenza dell’evento: la cautela dell’esperienza gli impone di non lasciare tracce e di non alterare la scena del crimine. Si avvicina al viso del capo, quasi si inginocchia al letto per misurare attentamente i parametri vitali. 

Croci blu si sono formate sugli zigomi del morente, le pinne del naso sono affilate e tese nella disperata ricerca di un soffio d’aria, il gorgoglio rauco però è cessato: «Presidente…sono il cane guardiano…presidente…guardatemi…aprite gli occhi…guardate me…guardate la patria che vi aspetta…presidente», l’uomo non continua, fa un cenno brusco di entrare alle presenze mute rimaste fuori dalla soglia.

 

Solo, nell’ombra, immobile sui guanciali impilati, il presidente sente troppo tardi la voce che si fa largo fino alle misteriose lontananze in cui si trova ora il suo spirito e in risposta a quella voce, sotto la chiusura perpetua delle palpebre annerite, gli viene in soccorso solo una lacrima, una sola lacrima che nessuno ha visto.      


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