top of page

Vertigo | La lingua di Gesù


 

A cura di Laura Scaramozzino

 



Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?

Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.




 

Testo di Andrea Ferri

Illustrazione di Giulia Pavani Editing di Laura Scaramozzino

 



Io mi son sempre chiesta com’è la voce di Gesù.

E voialtri, ve lo siete mai domandato?

L'amore per il Signore l'ho imparato nella chiesa di San Giacomo, quella col coccodrillo. È incatenato proprio sulla navata centrale; entri in chiesa, alzi gli occhi e vedi quella pancia giallastra. Un collare di ferro al collo e altri più piccoli che gli tengon su le zampe.

Mi ha spiegato il don che quello è un monito contro il diavolo. Perché quel coccodrillo lì aveva mangiato i bambini che facevano il bagno nel fiume, giusto dietro la canonica. Era prima che io nascessi. Quel mostro ne aveva fatti fuori cinque, prima che lo prendevano e lo consegnavano a nostro Signore Dio.L'era un bel diàvòl! Ci penso a quelle mamme, coi loro figli sbranati da quel demonio coi denti appuntiti. Io, il mio bimbo, lo proteggerò sempre.


Oggi è un giorno speciale, la vigilia di Natale. E domani è il compleanno del mio bambino. Proprio ora gli sto preparando la torta, abbiamo le nostre procedure.Il forno è a duecento, non ventilato perché non cuoce bene e a me piace cuocere alla vecchia maniera. Torta cioccolatino, servita con due cucchiaiate di panna montata. Lui non ringrazia, ma lo vedo dagli occhi che è contento. Certe volte mi dico che forse lo vizio, ma non importa. Ho patito una vita di sofferenze, non dico stenti, perché la campagna è un posto duro ma ti ripaga. Una vita di lavoro nei campi, a raccogliere i cocomeri e i meloni da vendere nel casotto che mio papà aveva allestito sulla provinciale.

Io, a mio figlio, l'ho sempre tenuto lontano dai pericoli. Quando penso al male del mondo mi viene in mente il coccodrillo in San Giacomo, ma penso anche agli occhi rossi dei topi che catturava mio papà. Disseminava di trappole collose tutta l'aia e la rimessa, poi si metteva nell'ombra, sopra la sedia di vimini, ad aspettarli. Passava lì intere notti. Quando sentiva quei versi striduli, si avvicinava alle assi, dove le zampe e la pancia erano ormai saldate al legno. Prendeva un secchio pieno d'acqua e ce li ficcava dentro, poi stava a guardare le bollicine che salivano in superficie. Fino a che non ne salivano più. Mi chiamava per farmi vedere anche a me.


Io son diventata mamma come la Madonna. È stato per Pasqua, vent'anni fa. L'avevo capito subito che era un giorno fortunato. Quel mattino di marzo era calata una nebbia che era peggio di una cataratta. Muovevo un passettino dopo l'altro e ogni volta l'era un sgrìsor che saliva dalle ginocchia fino al collo. Mentre attraversavo la sterrata che porta verso la provinciale, avevo trovato una pelle di biscia. Mio babbo diceva sempre che quando trovi la pèla vuol dire che anche te stai cambiando. È un buon segno.

Il mio angelo mi aveva avvicinata appena uscita dalla messa della mattina. Non sono biondi gli angeli. Voialtri, lo sapevate?

Diceva di conoscermi, mi chiamava per nome. L'età, mi chiedete? Non la so, gli angeli c'han tutti una pelle liscia e lucente. Mi ha riconosciuta e si è offerto di accompagnarmi a casa. Faceva tante domande, su di me, sulla mia vita. Nessuno mi aveva mai chiesto quelle robe lì. Ho lavorato nei campi per quarantacinque anni, non mi sono sposata, a sun armèsa pùta. Singòl, direste voialtri. Perciò non è che ho molti con cui parlare.

Gli ho preparato un tè e gli ho offerto una fetta di torta. Lui ha spiluccato qualcosa, si vedeva che lo faceva solo per farmi piacere. Perché gli angeli hanno un cuore grande e mica hanno bisogno di mangiare le nostre pietanze.La rivelazione è avvenuta poco dopo. Mi ha chiesto se in casa c'avessi degli ori, dei gioielli, delle banconote, perché lui poteva darmi una mano. Abbiamo disposto tutto sul letto. La collana d'oro della nonna Nella, la fede nuziale della mamma, il bracciale con il rubino, tutto. In modo preciso e ordinato. Poi è avvenuto il miracolo ed è calato il buio, ma non lo so mica per quanto.



Quando mi sono risvegliata avevo un gran mal di testa, e sul letto non c'era più niente. Tutti i risparmi che avevo e quello mi aveva lasciato il papà per la vecchiaia. Più niente.

Mi è preso il panico, non sapevo cosa fare, chi chiamare. Ho aperto la rubrica e ho visto il ricordino del babbo. Dietro c'era stampato un crocefisso con scritto: La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò.

E lì, ho capito.

Lui era l'angelo e mi aveva appena liberata. “Non abbiamo bisogno di tutti questi beni materiali di cui riempiamo la vita terrena, i figli sono il vero dono”, ripeteva sempre don Claudio.

Ora che ero davvero spogliata di tutto, pura, potevo accogliere il figlio di Dio. Mi son messa nuda davanti allo specchio e mi son accarezzata la pancia, poi sono scoppiata a ridere. Non ero mai stata così felice.

Il giorno dopo la rivelazione sono andata in chiesa a pregare. Sentivo un magone dentro, un alveare di malinconia per aver perso tutti i risparmi e i ricordi di una vita. Mi sono messa a invocare la benevolenza di Dio, che mi aveva scelta. Non so se ero pronta. 








I giorni erano passati uno via l’altro, veloci come faine. Ero certa di essere stata scelta, eppure mi guardavo allo specchio e la pancia era sempre la stessa. Ho cominciato ad avere paura, a battere i denti la notte. Stavo per diventare mamma. Non c’era giorno che non ci pensassi, al mio bimbo. Lo sognavo. Pregavo e mi confessavo e pensavo al neonato, quando ti capitano queste cose è come se c’avessi una spina piantata nella carne. Ci pensi sempre. Chiedevo al nostro Signore perché la mia pancia non diventava grossa.

Capitava alle vacche, alle cagne, alle gatte, alle scrofe, perché a me no? Provavo a colpirmi, lì sotto allo stomaco, per vedere se succedeva qualcosa, certe notti stavo sveglia con le mani sul ventre per sentire se si muoveva, ma niente. Avevo fatto anche la prova mescolando la pipì all’aceto, non aveva cambiato colore però c’era venuta un po’ di schiuma. Buon segno. Sapevo che le altre donne del paese facevano in questo modo, loro che avevano già avuto i figli.

Poi, un venerdì, la pancia ha cominciato a crescere. Non perdevo più sangue, mi alzavo sempre che avevo la nausea. Facevo il giro nella stalla e poi nei campi che mi sembrava di dover buttar fuori la colazione da un momento all’altro. A fine novembre avevo i seni gonfi e pesavo cinque chili in più. Sarebbe nato bello forte, il mio bimbo.



È successo tutto nel giro di pochi giorni. Subito ho pensato che era perché Lui era arrabbiato con me, perché aveva capito che non ero all’altezza, che ero un’incapace, come diceva sempre mio papà quando sbagliavo a dare il pastone. Ho fatto tutto da sola quella sera, mi sono ficcata un burazzo della cucina in bocca, da stringere e dentro cui urlare. Ho spinto, ho spinto per ore, ma sono usciti solo liquidi, robe mollicce, e nessun bambino. Non sono andata dal medico perché non avrebbe capito. Alla zia Rosa, ai tempi, avevano detto che era un’isterica, che era colpa della testa. Quelli hanno sempre una risposta e un farmaco per tutto. Ero disperata, Nostro Signore era arrabbiato con me, poi ho capito.

Per la festa dell’Immacolata, fuori dalla chiesa, c'era quella donna che chiede l’elemosina e se ne sta tutta chinata in avanti. Accanto a lei, ben infagottato, un bambino minuscolo che sembrava nato da una settimana. Era una donna molto fortunata e sembrava non saperlo. Mi sono avvicinata per lasciare qualche moneta, e quel marmocchio non mi levava gli occhi di dosso. Erano grandi e scuri, riflettevano le luci degli addobbi. Ho passato così tutti i giorni, fino alla vigilia di Natale. Ogni volta che ero dalla chiesa lo vedevo, e il piccolo mi guardava. Poi, finalmente, ho capito quale fosse la Sua volontà.



Sono uscita prima della fine della messa di mezzanotte e mi sono avvicinata. La donna non staccava la fronte da terra, mentre borbottava in continuazione frasi di ringraziamento. Io non so come ci sono riuscita, ma nessuno mi ha vista. Nessuno ha gridato. Così l'ho preso e me lo sono messo sottobraccio, quel fagotto. Il mio bimbo. Il figlio di Dio. Non ha strillato, se n'è stato buono fino a casa. Una volta arrivati, l'ho sistemato come Braun, il segugio del babbo. Era stato il miglior cane di mio papà, uno di quelli che non gli scappa neanche una lepre. E aveva avuto un trattamento di favore. La sua ciotola e la sua bella gabbia, con una catena più lunga degli altri. Povera bestia, quando non era più all'altezza, una fucilata dopo il tramonto e via. Non è neanche morto subito, e anche se avevo le mani a tappare le orecchie, i suoi guaiti mi entravano dentro come spifferi gelidi. Il babbo diceva sempre che se non lavoravo sodo mi faceva fare anche a me quella fine lì. Io ridevo, ma intanto rigavo dritta.

La torta è pronta. Ne taglio una fetta e la metto sul piattino accanto alla panna montata, poi vado giù dal mio bimbo.

«Tesoro mio».

«Mmmmmmpf».

«Non ti agitare, guarda la mamma cosa ti ha preparato».

Quando si agita butta fuori quei versi strani, come di bestia. Io non gli ho mai insegnato a parlare, perché a me interessava lasciarlo santo, mica sporcarlo con le nostre cose terrene, con le nostre parole ingannevoli.

«Non tirare la catena, lo sai che non viene via. È quella di Braun».

Ho sempre preteso il meglio per lui. Se solo poteste vederlo. Ha una pelle bianca, talmente chiara che sembra una seppiolina. Si vedono le vene blu e il disegno delle ossa. Ha barba e capelli lunghi, è un ometto ormai.

«È per il tuo bene».

Mi avvicino e lo imbocco. Se fa resistenza sa che finisce in punizione e non mangia per una settimana. Quindi non rifiuta. Gli infilo la torta in bocca. La biàsa un po', poi la sputa. Allora passo alle maniere forti e gli spingo il cucchiaio in gola.

«Devi mangiare» dico «è Natale. Il tuo compleanno».



Certe sere, quando lo sento che si agita e penso che forse sta lottando col diavolo tentatore, mi chiedo quanto durerà. Io non lo so se resistito ancora a lungo. Prendo il fazzoletto e mi asciugo le lacrime, perché Signore Dio mi ha chiamato a una bella fatica, a quest'età. Se le cose si mettono male, ho sempre il fucile del babbo.

Spengo l'abatjour e sento che il mio bimbo mugugna, tira la catena e gratta sui muri. Grida qualcosa in quella sua lingua strana. È come un latrato. Lungo, profondo e scuro come una grotta.

Io mi son sempre chiesta quale sia la voce di Gesù bambino.

Ora lo so, e voialtri?

bottom of page