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Racconti | Ventitrè anni / La commessa




 

Testo di Tiziana Lunardi

Illustrazione di Angelica Stefanelli Editing di Maria Sole Cusumano

 




Cerco i suoi occhi e li trovo, ma non mi sorridono.

Gli altri, invece, nemmeno mi guardano, e se per sbaglio incrociano il mio sguardo stendono appena le labbra formando una linea retta, per poi tornare a concentrarsi su qualsiasi cosa non sia la mia faccia.

Questo sorriso di circostanza è per me un punto fermo, come il mio nome un po' eccentrico e il mio segno zodiacale che, a proposito, è il capricorno – ah quindi sei una persona determinata! No –. Anche David Lynch era del Capricorno, ed Edgar Allan Poe, e David Bowie, e mio padre. Lui si che è determinato.

Per fortuna lavorerò qui solo durante il periodo natalizio. Natalini, ci chiamano. Siamo parte dell'allestimento, arriviamo insieme ai biscotti a forma di albero di Natale, freschi e goffi, indossando cerchietti con le lucine e sorrisi falsissimi.



So già che mi verrà uno sfogo alle mani. Mia madre mi dice sempre di parlare, di esprimere la mia rabbia, di dire quello che penso. Impossibile. Io so bene che ognuno ha un ruolo da recitare e che il mio prevede solo silenzio, mediazione e grandi abbuffate. Sono abituata a farmi notare solo per le cose sbagliate, tipo per il fatto di essere quella che beve troppo o quella che fuma troppo.

Ho trovato questo lavoro tramite un'agenzia interinale in un periodo in cui la vita mi sembrava senza infamia e senza lode. Subisco spesso questi periodi di stallo, periodi in cui mi crogiolo nei miei sogni lucidi e mi focalizzo, per sentirmi meglio, su ciò che, in astratto, potrei essere. Di solito questo basta.

Qualche giorno prima di iniziare questo lavoro ho letto su un blog di cattolici – perché sono finita in un blog di cattolici? Non lo so – una frase che Paolo disse ai Tessalonicesi – chi è Paolo? Non so nemmeno questo – :

Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.

E il primo giorno di lavoro ho capito. Ho avuto un’illuminazione, mi si è svelato il segreto. Qui non avrò tempo di essere infelice. Qui la gente distrugge, ruba, si accaparra cose a un euro con la bava alla bocca, urla e chiede e spinge e ancora urla. La coda è interminabile e una donna si indispettisce quando le dico di fare il giro in senso orario e non ascolta e poi si ingorga con chi arriva dall'altra parte e allora si incazza ancora di più ed è un'onda, uno tsunami che s'infrange su di me, su di noi.



Alla fine, a noi Natalini va anche bene. Penso che pur di non lavorare in questo posto per più di due mesi morirei da fame, e poi sento una vocina stridula che mi dice: questo lo dici perché non sei mai morta di fame. 

Non vedo l'ora di essere a Berlino. Passo le giornate a pensare agli artisti, ai vecchi cinema, al Visionnaire, agli appartamenti mezzi spogli e alla droga nei vinili, al clima gelido e alle Photoautomat. Dove abito io ci sono più parrucchieri e fruttivendoli che esseri umani. Voglio rimanere sola, voglio uno scorcio di realtà, scendere da questo cazzo di palco.

Insomma, l'agenzia interinale mi chiama, io indosso questa maglietta rossa come il sangue che sgorga dal mio orgoglio ed eccomi qui: sono dodici euro signora, vuole un sacchetto? Sono trenta centesimi. Sono tre euro signore, no, mi dispiace, non facciamo pacchetti, se vuole lì ci sono sacchettini regalo. Buongiorno signore, vuole cambiare queste cuffie da quattro euro che ha preso dieci mesi fa con altre cuffie da quattro euro? Ha la garanzia?






Lui è chinato a riassortire uno scaffale di biscotti di zenzero con la faccina. Le persone non lo toccano nemmeno, intorno a lui il negozio è vuoto e io lo invidio. Il rumore è ovattato, le voci deformate. Ogni tanto, come attirato da una melodia, alza lo sguardo e fissa i suoi occhi neri sui miei.

Ieri sera abbiamo scopato e ora lui mi saluta solo con un cenno, chiuso in un silenzio incazzato. Vuole punirmi per  qualcosa che sembra consumarlo dal giorno in cui sono arrivata qui.

«Non devi dirlo a nessuno a lavoro» mi dice guardando il soffitto.

Non è bello, non nel senso classico del termine. Ha un neo sulla testa che una volta ho cercato di levargli pensando fosse un coriandolo. È introverso, misantropo e ha gli occhi più tristi che io abbia mai visto. Però ha l'ascendente di chi se ne frega.

All'inizio, durante i miei primi giorni di lavoro, non mi rivolgeva nemmeno la parola, si limitava a fissarmi, e nemmeno di questo sono sicura. Poteva essere solo una mia fantasia, per sfuggire allo sfinimento, per avere qualcosa di bello su cui rimuginare quando uscivo da lì.

«Deva, stasera pulisci tu il pavimento» mi dice come ogni volta Alessia, una ragazza massiccia con i capelli cortissimi che segue la filosofia de “la miglior difesa è l'attacco e che ha deciso con uno schiocco di lingua che mi odia.

«Va bene». Ecco cosa dico, va bene, e striscio a prendere il mocio. Posso sentire lo sfrigolio del suo ego, vedere i canini spuntare dalle sue labbra. E io sono qui da quasi dieci ore. È così che le persone si ritrovano nei vicoli a sgozzare qualcuno.

Sento dei rumori, lui mi ha seguita. Non dice niente, prende uno scatolone, mi guarda, mi dà un bacio che sa di polvere, una carezza sulla spalla, e se ne va.

«Non pensavo di piacere a una come te» mi ha detto dopo un'intera bottiglia di vino rosso che ho comprato all'ultimo minuto in autogrill prima di andare da lui. Poi mi ha strappato le calze e abbiamo scopato, ed è stato proprio come piace a me. Lui vuole il controllo e io glielo concedo. Dimmi cosa devo fare. Controllami. Insultami. Privami della responsabilità delle mie azioni. Sembrava piangere mentre mi teneva ferme le braccia e mi stringeva il collo.

Lui scrive recensioni su una rivista che tratta cinema horror ed erotico e fa foto, per lo più nudi in bianco nero. Per tutto il tempo che ho passato da lui, nel suo appartamento spoglio, quasi impersonale nell'atto di nascondere, non ha mai sorriso. Se penso alla sua cucina, ricordo solo il freddo, una moka e una grande fruttiera piena di clementine.



Pulisco e saluto tutti, ma loro nemmeno mi sentono. Stanno organizzando una cena di Natale a cui sono stata invitata anche io per pura formalità. Lui ci andrà. Dice che deve andarci, che lui ha l'indeterminato, che deve fare buon viso a cattivo gioco. Lo vedo sorridere ad Alessia. Mi chiedo se faccia davvero finta.

È il ventitré dicembre, il mio penultimo giorno di lavoro. Lui, fumando una sigaretta, mi dice che le colleghe hanno cominciato a fargli domande. Alessia gli ha chiesto come sono a letto. Lui dice che non ha risposto. Abbiamo scopato altre volte, sempre a casa sua. Abbiamo guardato quasi tutta la  filmografia di Von Trier e mi ha fotografata mezza nuda in una zona industriale. Abbiamo litigato perché quando sono andata giù a prendere le pizze mi si vedevano troppo le tette. Se vuoi, mi ha detto, possiamo metterci d'accordo. Se sono io a decidere mi va bene. È un gioco eccitante. Siamo andati persino all'Ikea e lui mi ha comprato un cuscino. Ci ha scritto sopra una piccola D con il pennarello indelebile.



Oggi sei in cassa, mi dicono. Mi guardo intorno, il mondo è fuori controllo. Sembra quella scena del Titanic dove tutti corrono e urlano e tu che sei lo spettatore ti dimentichi di respirare.

Dopo qualche ora, in un momento relativamente calmo, entra un ragazzo, carino, ma per nulla il mio tipo, si vede che gli interessa come appare. Ha uno sguardo sereno, viene verso di me e mi chiede delle batterie. Anche lui è in cassa. Finge di guardare i turni sul calendario. Il ragazzo mi fissa mentre gli faccio lo scontrino. Grazie, arrivederci. Se ne va. Sento i suoi passi gelidi, le sue gambe di stalattite. Cinque minuti dopo suona il telefono. Lui risponde. Si gira verso di me e mi guarda come un cadavere in fondo all’oceano. Mi passa il telefono. Io inizio a tremare.

«Ciao, sono il ragazzo delle batterie, volevo chiederti, mi daresti il tuo numero...» dice una voce dall’altra parte.

«No, sto lavorando,» dico, e lancio via la cornetta.

Vado da lui e gli sussurro «cos'hai», «niente» mi risponde «che cazzo fai, stiamo lavorando»

Senza chiedere il permesso a nessuno esco e corro in magazzino. Mi appoggio al muro. Inspira, espira, inspira, espira. Sento qualcuno entrare. È Giulia, un'altra collega. Non è una particolarmente cattiva, però mi tratta come una stupida, che è anche peggio.

Mi scende una lacrima perché vedo le mie parole sbattere su una pellicola gommosa che ci separa, che mi separa da tutti, e lei inizia con questo discorso pseudo femminista che nemmeno ascolto, come se fosse questo il problema, la gente non capisce mai qual è il problema e sinceramente io alla gente non lo riesco a spiegare.

«Lo so che sembro una stronza...» dico, e lei risponde «Guarda, sembri tutto fuorché una stronza,» e io sorrido, ma la odio. Mi dice di prendermi cinque minuti e se ne va.

Inspira, espira. Eccolo, ha finito il turno. Mi ignora, e domani lui non lavora. 

«Perché sei arrabbiato, cos'ho fatto.»

«Niente. Tanto non era niente.»

«Va bene,» faccio per uscire, ma lui mi prende per un braccio e dà un pugno alla porta e io vedo una casa che va a fuoco e sento Shostakovich suonare in sottofondo. 

Mi dice: «Tu sei una a cui piace essere guardata.»

Io lo bacio. Mi guarda. Mi dice che l'amore ha a che fare con il bisogno e che lui ha più bisogno di me di quanto io ne abbia di lui.

Chiude l'anta dell'armadietto e se ne va. 

Il giorno dopo mi muovo tra la gente come un fantasma, tengo lo sguardo basso e quando finisco il turno vado nel bar accanto e mi scolo due bicchieri per festeggiare, da sola. Fumo una sigaretta con gli occhi chiusi, appoggiata alla pietra fredda contro cui lui mi spingeva quando mi baciava tra un riassortimento e l’altro. La maglia rossa ora giace in un bidone coperto di graffiti.

L'amore ha a che fare con il bisogno e io ho più bisogno di te di quanto tu ne abbia di me. Getto la sigaretta per terra. Probabilmente ha ragione. 


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