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Racconti | La confessione


 

Testo di Thomas Lehn

Illustrazione di Rebecca Fritsche

Editing di Yuri Sassetti e Sofia Artuso


 


La donna osserva il marito nel letto bianco dalle sbarre cromate. Siede nell'unico angolo buio della stanza, dove le tende spesse, legate, non fanno filtrare la luce del sole primaverile. Vorrebbe accarezzargli il braccio, ma si trattiene. Le hanno detto che si è agitato molto durante la notte, non vuole svegliarlo. Lo guarda a lungo, con un’ombra di spavento negli occhi, non è pronta al congedo, alle scartoffie, alla solitudine del letto di casa, che già ora sente freddo. La vescica fa pressione. Forse è niente, il bagno in stanza è difettoso dal giorno prima. Forse è un po’ di incontinenza e le mutandine assorbenti potrebbero bastare. Decide di alzarsi, e rimane un momento in piedi, cercando di assicurarsi che il respiro del marito sia uguale a quello che ha ascoltato ogni notte per quarantadue anni. Alza l’indice della mano destra, lui si metteva in riga come un soldatino a quel solo ammonimento. Che non le faccia qualche brutto scherzo e se ne vada senza salutare, lo avverte con quel dito che lui non vede. Quindi esce dalla stanza per cercare un bagno in corridoio.

Al ritorno, un prete la sta aspettando davanti alla porta socchiusa.

«La signora Clara?» chiede e, senza attendere risposta, allarga le braccia morbide e volge i palmi spalancati al cielo, come una madonna che ha perso il figlio. «Non vuole farmi entrare.»

«Perché no?» si sorprende Clara. «Ha urlato tutta la notte che voleva confessarsi, così mi hanno detto.»

«Forse delira, succede a questo stadio.»

«È perfettamente lurido» s’impappina Clara, «lucido, ieri era perfettamente lucido.»

«Dio ci fa tornare bambini» suggerisce il prete, congiungendo le mani dietro la schiena, «all’ultimo ci richiama a sé innocenti…»

«Ci parlo io» chiude la conversazione Clara, ed entra nella stanza.

Suo marito è sveglio, l’orecchio teso verso la porta. Gli hanno alzato lo schienale e ora sta seduto con le mani in grembo, rotea di continuo la fede nuziale di oro bianco; l’ha fatta restringere già due volte, ma continua ad andargli larga.

«Non voglio un becchino.»

«Lo hai chiamato tutta la notte.»

«Chiamavo te.»

Clara solleva la sedia per avvicinarla al letto, e una nuvola di luce l’avvolge. Si sporge per raggiungere la mano dell’uomo, con una penna inesistente collega le macchie che hanno entrambi sulla pelle, crea costellazioni immaginarie. Vorrebbe piangere, ma non vuole diluire il tempo rimasto.

«Ci sono cose che non ti ho detto.»

«Sapessi io, Felix!» risponde la donna con una voce che riempie di allegria. «Abbi fiducia nella meccanica del mondo, ricordi?»

«Scemenze…»

Felix afferra le dita della moglie con entrambe le mani.

«Sei tu lo scemo» lo rimprovera la donna, scegliendo di reagire divertita. Ha male ai lombi e si muove leggermente verso lo schienale della sedia; non troppo, perché il marito le trattiene saldamente le dita in una morsa.  

«Non è stato destino» dice piano Felix.





Si sono incontrati per caso in un vivaio ai margini della città: lo frequentavano entrambi, avevano poi scoperto, vi passavano ore a frugare tra le piante. Dopo quell’incontro, si erano dati appuntamento al giardino botanico e, ammirando gli alberi tropicali nelle serre, avevano detto contemporaneamente non le palme. Si erano poi visti per un’escursione in montagna, e incontrandosi alla stazione si erano messi a ridere perché avevano lo stesso identico zaino. Da allora le coincidenze erano state tante da riempire un taccuino, cosa che Clara faceva meticolosamente. Queste non sono coincidenze, aveva detto Felix un giorno mangiando un’albicocca, il frutto preferito di entrambi, è la meccanica stessa del mondo che si muove per farci stare insieme. Clara aveva trovato quella proposta sdolcinata, ma le era piaciuta l’idea che ci fosse qualcosa di intangibile che li unisse, e da allora fidarsi di quella meccanica era stato il loro modo di amarsi incondizionatamente.

«Quarantadue anni insieme lo sono diventati, un destino» insiste la donna con premura.

«Ti sei fidata troppo» la rimprovera l’uomo con clemenza, ma non le lascia tempo di ribattere. «Non credi che siamo noi a dare un significato ai segni della vita?»

«Che importa? Danno un senso alle cose.»

«Anche quando sono forzati?»

Clara tira via la mano, le dita cominciano a dolerle.

«Non sono forzati» prova a correggerlo, «le coincidenze accadono e basta.»

«Ti ho seguita» dice Felix riprendendo a roteare la fede. Punta gli occhi verso la finestra, la luce del sole gli fa male. «Dopo la mostra di Mirò.»

«Non siamo mai…» Clara prova a fare mente locale.

«Eri bellissima.»

«Ti stai confondendo» Clara cerca di non suonare allarmata e chiude gli occhi, si mette a rovistare nella memoria. «Sono stata solo una volta a vedere Mirò, poi mai più. Ero con…» esita, come sempre quando deve pronunciare quel nome, e mentre lo articola inumidendo le labbra, ritrova quel primo appuntamento con un ragazzo biondo dalla mascella pronunciata. «Ero con Dario, noi ancora non ci conoscevamo.»

«Eri davanti al Carnevale di Arlecchino, immobile. Tutti quei colori erano così squallidi rispetto a te.»

«Ma…» Clara non è sicura di cosa vorrebbe obiettare.

«Ti ho seguita per due mesi» Felix continua a guardare la luce, gli occhi si riempiono di acqua. «Ti ho guardata andare al vivaio, fare la spesa al fruttivendolo, ti ho ascoltata parlare al caffè con le tue amiche.»

«Mi stai prendendo in giro?» la donna non sa come gestire le espressioni mimiche che si affollano sul suo viso.

«Era un gioco, cerca di capire. Una sbandata, se vuoi. Ma ero sicuro fossi tu, l’anima gemella, il mio destino. Ero… non lo so cosa ero. Sciocco? Innamorato? Volevo conoscerti, è per questo che ti ho seguita. Un gioco, sembrava un gioco all’inizio: carpire quanti anni avevi, che frutta ti piaceva, come passavi il pomeriggio la domenica. E più ti conoscevo più mi piacevi. La tua intelligenza, la tua risata, non avevo altro in mente. Mi sono innamorato di Tolstoj grazie a te.»

«Chi sei tu?» Clara si allontana dal letto, la sedia quasi urla strisciando sul pavimento.

«Sono io, tuo marito. Clara, siamo ancora noi. Ha funzionato, questo noi, il matrimonio, siamo stati felici. Tutti questi anni. Ho solo dato una spinta agli eventi, ho aiutato i segni a manifestarsi. Ma i sentimenti, quello che abbiamo costruito insieme, tutto il resto è vero, ci siamo amati. Ci amiamo»

«Tu… tu mi hai fatto credere che» balbetta Clara alzandosi in piedi, «che ti piacciono le albicocche.»

«Certo che mi piacciono» l’uomo cerca di alzarsi a sua volta, ma non ci riesce. «Io le adoro, come te.»

«Tu… mi hai imbrogliata» Clara afferra la borsetta, ci guarda dentro, rovista senza prendere niente, la richiude. Il taccuino degli eventi è rimasto a casa. Lo porta sempre con sé, in genere. Tutta una vita a due è lì, il succo ristretto di anime gemelle trasfuso in inchiostro. Ma è così? Quante persone detestano le palme? Chi non odia i semini dei peperoni? E Tolstoj, chi non ama Tolstoj? Chi non ama ballare con la musica ad alto volume? Quanti vivai ci sono in città? Clara alza lo sguardo verso l’uomo. «Tutti questi anni.»

«No, tesoro» l’uomo vorrebbe togliersi i tubi infilati nel braccio, ma li fissa dubbioso. «Quarantadue anni non sono un imbroglio. Siamo stati felici, no? È quello che conta.»

Clara cerca di afferrare il cappotto, che le scivola, si abbassa a raccoglierlo e, spazzandolo con impeto, si avvicina alla porta, senza aprirla. Guarda l’uomo pallido, quasi incolore nella luce di aprile che entra dalla finestra. Ripensa a Dario, che l’ha baciata la sera prima del matrimonio. Quella volta, solo quella, aveva pensato di ignorare la perfezione delle coincidenze e abbracciare il caos.

 



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