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Racconti | Meiyo no chouken - a Yakuza story












 

Testo di Antonio Amodio

Illustrazione di Riccardo Lameri

 


a Claudia




"La purezza perfetta è possibile, se rendi la tua vita il verso d’una poesia scritto con uno schizzo di sangue."


– Yukio Mishima –




Tomoe scoccò uno sguardo al retrovisore.

Cullata dal ringhio contralto della Jaguar di Kenzo, scrutava l’autostrada sfuggirle via un sorpasso alla volta, mentre i chiarori del Tarumi svanivano come sogni d'artificio. La baia, ora melassa di onde, ora spruzzi, risacca, emergeva dall'oscurità fra un lampo e l'altro. La ragazza riportò gli occhi sull'orizzonte. Una saetta cadde sul mare, mozzandole il fiato d'improvviso, poi esplose il tuono. Respira, Tomoe-chan, ruggiva il cielo da lassù. Quella tempesta li avrebbe afferrati presto, e come ogni kami o yōkai dell'Universo sembrava volerli morti entro l'alba. Kenzo accelerò, gettando la Mevius dal finestrino. Il volante vibrava sotto le dita.

«Pensionati del cazzo.» grugnì.

La sei cilindri sfiorò i centodieci e azzardò un sorpasso, lasciandosi dietro uno di quei torpedoni che scarrozzano i vecchi a Sumoto per metterli palle a mollo nei fanghi. Lungo il telaio della coupé frusciava un film di riflessi e neon, ma la memoria di Tomoe era una pellicola diversa. Kenzo infilò la sesta e abbozzò un suono, smagliando quel pietoso silenzio «Sei viva?».

Tomoe sospirò, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

«Ce l'avrà fatta?» gli domandò.

«Beh, c'eri anche tu. L'hai visto. È già un miracolo se respirava.» «E i ragazzi? Novità dall'ospedale?»

«Tomoe, ma dove cazzo vivi? Sulla Luna? Non puoi portarcela un'idol al pronto soccorso. Shogo e gli altri li ho mandati dal dottor Tanaka. La sistemerà lui.»

«È bravo?»

«Era il più vicino.»

«Ma è capace, Kenzo?»

«Senti, lavora all'Oji. Non lo so.»

«All'Oji?» la ragazza si voltò di scatto. Illuminati da un lampo, gli occhi liquidi le brillarono come ossidiana «Cioè l'hai mollata da un veterinario?»

«Era l'unica soluzione.»

«No, invece. Potevi chiedere consiglio a Daiki.»

«Nei tuoi sogni. È lo shatei gashira... E sì, forse oggi m'avrebbe solo umiliato di fronte a tutti perché non ho ucciso quella merda giù al club, ma secondo te» ipotizzò lui «dopo un casino così, credi gli basterà tirarmi le orecchie? No, dico, ti è sparito il cervello?".

Daiki smatterebbe. A tremila. E l'ultima cosa che ci serve stanotte è una tomba d'acqua.» «Perciò Daiki ti spaventa, ma vuoi addirittura scomodare il Presidente? È una follia.» «No. So quello che faccio, donna.»

La Jaguar superò le poste di Kamaguchi e Tomoe riprese.

«Tu conosci le regole. Tu... T-tu dovevi... Tu dovevi ammazzarlo lì, Kenzo, lì! Mentre la pestava, mentre la...» lei s'agitò di colpo «E se ti punisse lui? C-ci hai pensato?» «Oh! Sentimi un po', stronza! Che vuoi davvero giocare alla capobanda? Dovevo, dovevo, dovevo... Cioè io torno dal cesso e tutt'a un tratto dai tu gli ordini? Fosse una roba dei Two Beats riderei» disse, piede sul gas e rabbia che montava «ma ne sai un cazzo della famiglia, del Presidente o delle regole, perché il tuo compito, mh? Il tuo compito è startene al bar, a menare quel culo da trecentomila yen o farci un drink se ti chiamo. E te-lo-giuro, bellezza» scandì poi «sparami di nuovo un pezzo così e domani ti risveglierai nel buco in cui battevi prima. Nuda. Solamente con un guinzaglio al collo e un bidone di vaselina. Hai afferrato, adesso? Impicciati dei cazzi tuoi. I cazzi. Tuoi. E basta. Ti entra male in quella testaccia da puttana o parlo mandarino?».

Tomoe osservò il pugno di lui avvinghiarsi allo sterzo e mormorò «Ok.» a mezza bocca, ben sapendo che di notte i lividi guariscono sempre, sempre, peggio del solito. Kenzo allora decelerò, e nel goffo tentativo di rabbonirla «Andrà bene», sfiorandole appena la coscia «ma mi servi lucida, splendore mio, quindi perché non accendi lo stereo e ti rilassi un po', eh? Hai carta bianca. Anzi» esitò poi, l'indice sul portaoggetti «lì c'è un regalo che t'ho preso ieri. Vediamo se ti piace». Tomoe aprì lo scomparto. Dentro c'erano tre bustine di speed, una Tipo Novantadue, le Parabellum prescritte dalla mutua e una cassetta da cui ammiccava il viso angelico di Mariya Takeuchi.

«Bello.» sorrise, infilando Request nel mangianastri «Non ce l'avevo. Grazie.» Kenzo schiacciò PLAY.

«Dài, chiudi gli occhi.» suggerì. La donna ubbidì, mentre le palme del lungomare le sfilavano davanti, il citypop iniziò a sciogliersi nell'aria come morfina, e lei a svanire dentro di sè.

“Kokoro no naka itsumo

Kokoro no naka itsumo”

Tutto risuonava di miele.

“Setsuna sa ni yure teru

Setsuna sa ni yure teru

Fu allora che giunse il diluvio.

“Oh, no, tsumi na futari ne” - un lampo - “but no, hana rerare nai” - poi la sferza del fulmine a dieci metri da loro - “oh, yes, kono mama aisare tai” - la Jag tremò. Kenzo inchiodò. Tomoe batté la testa sul cruscotto.

“Oh, no, loving you is not right

Lo stomaco era una poltiglia di rovi.

“But, no, don't take me home tonight” - fu peggio che schiantarsi sulle rocce.

“Oh, yes, so baby won't you hold me tight?, e mentre Kōbe rimpiccioliva lontana, i due s'avvicinavano a Sumoto, alla resa dei conti. Kenzo tirò a fatica la Jaguar in carreggiata.

«Per poco non ci restavamo. Stai bene?»

Tomoe aprì gli occhi.

«Una favola.» rispose sarcastica, già guardando lo slargo più avanti «Anzi, accosta.» «Che? Adesso?»

«Sì... Fermati. Là.» insisté la ragazza, mani sulle labbra «I-io, io d-devo... » «Oh, merda, no! Non sui-»

Kenzo bloccò la macchina. Tomoe schizzò fuori e rovesciò le budella sul pietrisco. C’era un amalgama di vomito, yakisoba e Curaçao. Una sferza d’aria sapida di limo le spettinò i capelli viola, poi arrivò un’altra scarica. Qualche passo indietro, fra i violini di Kenka wo yamete e il fioco sibilo della Ventotto, stridevano i tergicristalli del coupé. Dopo un ultimo crampo, Tomoe s’alzò e arrancò, ritornando alla Jaguar. Sembrava una spogliarellista riemersa per miracolo da un night di tossici.

«Andiamocene.»

La donna chiuse la portiera.

«Andiamocene. Bangkok, Seoul, Hong Kong... » continuò – gli occhi, assieme ai palmi, le brillavano «Torniamo in città. Raccattiamo un po' di soldi, due biglietti, e cambiamo musica. Che ne pensi, eh?»

«Che t'è andato di traverso il cervello. Usa una pistola se vuoi ammazzarti. È meglio.» «Senti, dico davvero. Ho un brutto presentimento. Veramente brutto.»

«Oh, smettila di fare l'isterica! Solo i rōnin e i froci scappano, e Kenzo Maeda non va da nessuna parte. Perciò muta. Risolverò io. Io. E ora stop alle cazzate, ok?» grugnì lui, puntando al marsupio insanguinato sul tappetino «Quello schifo comincia a puzzare”.

Superarono lo Shioya verso l’una, la città già liquida di piombo. Altri lampi, altri tuoni. E se poco prima il temporale aveva dato solo l’impressione di volerli annegare, adesso era ben più avido d’ingoiarsi qualunque cosa, ogni villa, strada o yatai gli capitasse a tiro. Tutto, pur di scrostarli via per sempre. Dovunque pioggia e buio, mentre il respiro del tifone plasmava cieli e bitume in un limoso, mastodontico tracollo.

Quando la Jaguar svoltò sul viale a ginkgo per la tenuta del Gran Capo, i due trovarono i cancelli aperti.

Lui sapeva, ragionò Tomoe in silenzio.

Vennero circondati subito dal corpo di guardia dell’oyabun Trentasei uomini. Trentasei sguardi maligni e Tec-9 pronti a impiombarli. I gorilla sopportavano il diluvio fermi di fronte a un albicocco mutilo, e così pareva che avrebbero atteso fino a voce contraria – anche se del Giappone fossero rimasti solo ruscelli, ossa e montagne. Bip bip. Bip bip. Il Motorola suonò e Kenzo lo sfilò di tasca. Nel frattempo, il coupé oscillava sotto l’acquazzone, lasciando pigolare i tergicristalli.

«Chi è?» gli domandò Tomoe.

«Shogo.» sospirò lui, mentre spegneva la macchina

«La ragazza è morta.»

«Caz»

«Piglia il borsello e andiamo.»

Tomoe obbedì, ma due degli sgherri fecero capolino davanti ai finestrini.

«Venite con noi.» ordinò quello accanto a Kenzo «Kobayashi-sama vuole parlarvi.»

«E muti.» abbaiò il secondo.

Li spintonarono verso l’engawa della tenuta come prigionieri di guerra, la ghiaia densa da sembrare catarro, finché sul patio non apparve una giovane domestica.

«Le scarpe, prego.» s’inchinò lei, poi accompagnandoli tutti nella sala grande. Dentro altre pistole. Altri lacchè. Gocce sul tatami. E una quiete rorida d’incenso. Sadao Kobayashi arrivò col sibilo d’una shōji, e non gli servì più di un’occhiata perché la manovalanza omaggiasse il suo rango. Battè di nuovo le palpebre e forzò i kobun a capo giù, intanto che la destra, venite, spronava Kenzo e Tomoe a farsi avanti. Lei ondeggiò come nelle sue fantasie da orfana mentre le sembianze del kumicho lentamente aderivano alle nebulose visioni dove albergava quel padre che non aveva mai avuto. O il nonno. "Vecchi" - pensò Tomoe - "strana gente".

Sadao era il Principio, un’autorità capace di manipolare il mondo senza sforzi, ma ciononostante non pareva neanche lontano dai jiji tutti rughe sulla metro, immersi nei libri di Mishima e ancora saldi alle glorie d’un Giappone che, dopo le bombe, era scomparso più in fretta della gioventù dai loro capelli.

Kenzo però sapeva benissimo di non trovarsi davanti a un pensionato.

Allungando la mano a recuperare il borsello, vide che Kobayashi vestiva un haori con su stampigliati non i kamon del Clan Ōtsuka, ma quelli della sua famiglia. Era una faccenda privata, dunque, come un funerale o uno sposalizio – e a riprova di ciò, deglutì a fatica, c’erano la lisa uwa-obi che cingeva il kimono del suo patriarca.

E la katana lasca sul fianco.





«Mio padre aveva una teoria tutta sua riguardo a giorni come questi.» esordì Sadao a mani unite «Se attorno a noi domina il caos» proseguì «non dovremmo mai affrettarci a risolvere una situazione troppo complessa. Perché quando è il mondo stesso a rivoltarsi da sé, mi diceva, il fallimento è dietro l’angolo.» e allora, inarcando un sopracciglio, chiamò a sé il tirapiedi più vicino «Ma stanotte qualcosa di voi dovrò pur farne.»

La guardia timbrò le nocche sul muso di Kenzo e lo spedì kappa-o.

Tomoe gridò. Il lacché strillò di più.

«Inchinatevi al Presidente, pezzenti! Sul tatami, la testa, sul tatami

Kobayashi-sama lo fermò.

«Lei no.»

La ragazza restò in piedi a sguardo basso, appena gobba e con le ginocchia tremule.

«Voglio la verità, Maeda.» l’oyabun riprese «La versione di Daiki non mi basta.»

«Kumicho, i-io, i-io… »

«I-io, i-io, io… Tu.» il patriarca fulminò Tomoe «Raccontami.»

«Oggi al Nurebanzai è venuto un cliente. Nel privé. Di là c’era una donna, da sola.»

«Che donna?»

«Fuiji Yui.»

«La idol

«Sì, signore. All’inizio tra la parrucca, gli occhiali e quei vestiti non pensavamo fosse lei, ma dopo che ci ha detto la verità le abbiamo dato subito un bel salottino.»

«Continua.»

«Nel frattempo l’altro s’era già calato sei o sette shōchū e la situazione è esplosa. Erano soli, lui sbronzo da far schifo. Ha preso ad alzare la voce, a molestarla, stronza di qua, puttana di là, ma il peggio è che l’aveva riconosciuta, così s’è accollato, voleva un autografo.» raccontò «Io ho chiamato Kenzo, ho chiamato gli altri, la Fuiji urlava, e quello all’improvviso le ha spaccato una bottiglia in testa, se l’è messa sotto e poi, e poi l’ha massacrata. Calci sulla fronte. Quando siamo arrivati respirava per miracolo.»

Sadao volse un cenno a Kenzo.

«Perciò un verme del genere viene a casa mia, rovina una ragazza e tu? Tu te ne vai.» «N-no, kumicho, no! L’ho sistemato! L’ho… L’ho sistemato.» e l’altro, naso sul tatami e labbra sapide di ruggine, sventolò il marsupio «E-ecco, guardi. G-guardi nella borsa.»

Uno dei kyodai agguantò il malloppo e lo consegnò al Presidente.

Lui ne sfilò via cinque dita.

Fetide.

Bluastre di sangue.

Mozze ad altezza nocche.

Il medio portava ancora una banda d’oro con su inciso uno stemma.

Alla vista del simbolo l’oyabun digrignò i denti.

«E il resto?»

«C-c-come?»

«Il resto, Maeda. Dov’è il resto del suo corpo.» chiese Kobayashi.

«P-perdono, kumicho. Io, io n-non… N-n-non lo sappiamo.»

«Quindi non l’hai ucciso?»

Kenzo provò a giustificarsi.

«L-le dita erano un avvertimento. E un tributo, signore. V-volevo farne un esempio.» «Ah, un esempio.» ripeté il boss «Ma tu lo sai a chi appartiene il kamon sull’anello?» «No, kumicho

«Al Clan Azuma.» asserì Sadao, gettandoglielo ai piedi «Appartiene al Clan Azuma.» Kenzo tirò su col naso. Ormai aveva la fronte livida e la vescica in fiamme. L’oyabun s’avvicinò. «Prima quel pornografo a Kotokucho e oggi il Nurebanzai. Vedo che tassarli non è bastato, anzi li ha resi più arroganti. Kiyoshi vuole farci la guerra da mesi» spiegò lui, mani dietro la schiena «ma se fino a ieri non si s’è azzardato, adesso può. Perché gli hai dato un motivo. Ed era tutto ciò che aspettava.» rivelò il boss «Maeda, tu dovevi ammazzare il bastardo e sistemartela con Daiki, e invece qui davanti ho solo un mucchio di dita del cazzo puntate su di noi. Su tutti noi. Per colpa tua siamo bersagli.»

L’altro singhiozzò. La sua faccia grondava lacrime, vergogna e sangue.

Kobayashi lanciò uno sguardo a Tomoe.

«È uno spettacolo pietoso, non credi?» le disse «Un uomo, che si umilia così… » La ragazza rimase a testa bassa.

«Io ci ho provato, Kobayashi-sama

«Provato?»

«A farlo ragionare.» sottolineò la donna «Ma non-»

«Ma non t’ha ascoltata.»

Lei annuì.

«E che gli avevi suggerito, sentiamo.» la esortò il boss.

«Di ucciderlo, Presidente. Ucciderlo lì. E di avvertire lo shatei gashira

«Capisco.» mormorò Sadao, che nel frattempo sfiorava col pollice il paramano della

sua katana «Ed è la verità, Maeda?»

Kenzo annuì.

«Forse allora dovrebbe farlo lei il tuo lavoro, mh? Una donna. Che conosce le regole meglio di te» infierì Kobayashi «e che porta rispetto senza queste stronzate alla Kitano.»

«Kumicho, ho so-»

«Hai? Hai? E ancora cianci?» il boss gli schiantò un violentissimo pestone, spezzandogli le dita. Kenzo franò riverso sul fianco. Urlava a denti stretti «Uno zero di Osaka entra nel mio club, macella una ragazzetta che potrebbe avere l’età di mia figlia» insisté Kobayashi «e tu non solo scavalchi Daiki-kun, ma hai l’arroganza di venirtene qui, di svegliarmi, e di trattarmi come fossi uno di quei bastardelli che tieni a servizio.» e alla fine chiese a Tomoe «La idol è viva, almeno?»

Lei mimò un no e cadde il gelo.

Un gelo sordomuto, ma che a piccoli cenni dell’oyabun virò in furia.

Il kumicho chiamò a sé il tirapiedi davanti a Kenzo e gl’imboccò un paio di frasi. Lo sgherro annuì, accennò un breve inchino, poi uscì dalla sala con altri sei uomini. «Voi.» saettò il boss ai trenta kobun sul chi vive «Kiyoshi Azuma ha commesso il suo ultimo sbaglio. Per l’ora di pranzo, al telegiornale dovrò sentire che il Festival di Sumidagawa è arrivato in anticipo. Mi spiego?» gli uomini ruggirono un , kumicho, tutti assieme «Bruciate ogni singolo buco. I bordelli, le sale pachinko… Radunatevi dal waka gashira e rendetemi orgoglioso. L’inferno che farete allo Yūkaku voglio vederlo dal terrazzo.»

Le guardie ruppero le righe, ma Sadao ne bloccò subito una – la più giovane.

«Non tu, Hideo-kun. Forse avrò bisogno di te. Porta qui un secchio d’acqua fredda e lasciaci soli.» gli ordinò «Una decina di minuti basterà.»

La recluta ubbidì e aspettò da parte.

«Bene.» riprese «Gli epitaffi di domani sono scritti, ora veniamo a voi. Tu» e l’indice di Kobayashi trovò Tomoe «io non t’ho mai visto, ma da tuo Presidente, e da padre, oggi m’hai reso fiero di te. Sei sveglia» l’apprezzò «però una cosa fatta giusta a metà è pur sempre una cosa fatta male, quindi adesso devi rispondermi onestamente. Tu a che tieni di più?» le domandò «Alla tua vita o al Clan Ōtsuka?» Tomoe non esitò.

«Al Clan.»

«Sembri piuttosto decisa. Direi troppo, sai. È la paura, forse?» «No, kumicho. È solo la verità.» confessò lei.

«E saresti disposta a morire, se io lo ritenessi utile all’incolumità di tutti?» La ragazza accennò un .

«Apprezzo la dedizione, ma la nostra è una fede che non risparmia nessuno. Donna, tu andrai scalza lungo una strada tortuosa e oscura, dove non ci sarà spazio per nulla che non sia il Clan. Lo vuoi davvero?»

«Sì, Kobayashi-sama. Lo voglio davvero.» replicò «Perché prima di Maeda Kenzo battevo in un bordello a Takarazuka, e prima ancora ero soltanto un’orfana che sognava di fare la cantante. I miei genitori non li ho mai visti.» rivelò al boss «Non ho figli, né un marito. Io ho solo lui, kumicho.» e l’indice cadde su Kenzo «Lui, e i miei kyodai

«E loro chi sono per te?»

«Tutto ciò che ho sempre voluto.» ammise lei «Sono il mio Clan. La mia famiglia.» Sadao l’avvicinò a sé, al suo fianco.

«Ora però torniamo a te.» ringhiò a Kenzo, che nel frattempo sgocciolava piscio sul tatami come un rubinetto difettoso «La vita o il Clan?»

Lui crollò.

«P-presidente, pietà! Abbia pietà!»

«La pietà è degli uomini, Maeda. A me devi chiedere misericordia. E adesso rispondi.» «La vita, kumicho! La, l-la scongiuro!»

Sadao inspirò a fondo e «Perciò è così.» decretò. «Qual è il tuo nome, donna?»

E mentre il temporale fuori scemava di nuovo nei polmoni del buio, lei chinò il capo. «Maruyama Tomoe, Presidente.»

Il kumicho sfilò la spada dall’obi e la offrì alla ragazza.

«Questa katana è un cimelio della Famiglia Kobayashi da più di quattrocento anni, Tomoe-chan. Non ha nome, ma ne ha incisi tanti.» le rimarcò «E oggi dovrà farlo ancora. Per mano tua. Quindi sguainala e sta’ pronta.»

La donna ubbidì.

«Hideo.» chiamò il boss. La guardia tornò col secchio d’acqua «Appoggialo, togliti la cinta e legagli i polsi dietro la schiena.» ordinò Sadao, sguardo sull’uomo a terra.

Il tirapiedi afferrò Maeda per i capelli, lo raddrizzò e strinse la cinghia. Il cuoio sibilò. Di Kenzo non rimaneva granché – giusto un accrocco di vestiti, ematomi e piscio.

«Porgimi la sua nuca, Hideo.» una lacrima sottile un microbo rigò il volto di Sadao. Tomoe la vide. La lacrima di un dio, pensò. «Mi addolora punirvi così giovani.»

La cervicale di Kenzo arrivò a tiro di spada.

«Ragazza» riprese Kobayashi-sama «Alzala e attendi il mio » le ordinò «E mi raccomando, devi tagliare fino a metà collo. Non decapitarlo. Hideo, tu tienigli la testa.» Tomoe sollevò la katana, stringendo l’elsa con entrambe le mani.

«Hai un’ultima parola per lui?» chiese l’oyabun.

«Grazie.» mormorò la giovane a Kenzo.

Un cenno.

La donna vibrò il fendente.

Silenzio.

Quando Tomoe riaprì gli occhi, Sadao le teneva i polsi bloccati.

«Allora non mentivi.» parlò Kobayashi «Faresti davvero di tutto per il tuo Clan, anche uccidere l’uomo che t’ha levata da un bordello.»

«Sì, se è la vostra volontà, kumicho

«E lo apprezzo, ma purtroppo su di me pendono giuramenti e obblighi che la Famiglia Kobayashi ha promesso di rispettare. Se non lo facessi, getterei disonore sui miei antenati.» e allora «Maeda Kenzo.» decretò lui «Puoi tenerti la pelle, ma da stanotte sei espulso a vita dal Clan Ōtsuka. Il tuo futuro non ci riguarda più. Hideo t’accompagnerà in città. Ti darò cinque ore per lasciare il Paese, dopodiché avrai una taglia sulla testa. Tu» saettò poi al giovane lacchè «levamelo di torno, e ah, le chiavi, le chiavi della Jaguar.» aggiunse, indicandogli Tomoe «Dalle a lei.»

«Sarà fatto, kumicho.» obbedì l’altro, tirandole il mazzino. La donna lo acchiappò.

E mentre Hideo trascinava Kenzo fuori dalla sala, Kobayashi-sama guardò la ragazza. «Tomoe-chan.» esordì «Ora che Maeda è bandito, a capo del Nurebanzai mi servirà

una persona sveglia. Sapresti cavartela?»

«Sì.»

«Ottimo. Allora è deciso. Lo gestirai tu. Hai carta bianca su tutto, luci, menù, ballerine, quello che vuoi. Ma le buste dovranno arrivarmi più gonfie di prima, mh? Il trenta per cento a me, il venti a Daiki e l’altra metà è tua, ragazza. Te la meriti.»

«K-kumicho, io… Non ho parole.» ammise lei, inchinandosi.

«C’è un’altra questione, però. E conoscendo le regole, sai che non posso affiliarti.» Tomoe annuì a malincuore.

«Perché una donna vale solo quanto l’uomo che l’accompagna.»

«Brava» la lodò l’oyabun «ma credimi, piccola Tomoe, troverò una soluzione. Alla miglior figlia spetta il miglior marito.» disse lui «E il giorno che l’avrò davanti lo sposerai, così potremo bere il sakè dalla stessa tazzina.»

«Sì, Presidente.» «Perciò siamo d’accordo.» ghignò il boss «Adesso informa lo shatei gashira e trovatemi quel bastardo, se non è già crepato. Voglio la testa, non le sue dita del cazzo.»

«L’avrà, kumicho

Dopo un omaggio all’oyabun, Tomoe uscì dalla villa e attraversò i giardini. Oltre

l’engawa, i cortili, o ciò che ne rimaneva dal temporale, parevano il vomito d’un drago.

Da Est soffiava una brezza sapida di fango, e ovunque dall’oscurità balenava ora una

fronda di palma, ora un moncone d’albero, ma la Jaguar, vide Tomoe, era sempre lì.

Sedutasi al posto di Kenzo, accese la fuoriserie, sfilò Request dal mangianastri e la gettò dal finestrino, sintonizzando giro a giro sull’Ottantanove-e-nove di Kiss FM Kōbe.

Col volume che ingranava e ingranava, Tomoe trovò le Mevius e il cellulare di Kenzo. «Today I asked for a god to pour some wine in my eyes… » sincopavano i Faith No More. Lei prese una delle bionde dal pacchetto e la fumò. Sferzate di basso e nicotina

elettrica, la boccata le strizzò i polmoni. Era come respirarsi un laccio da scarpe.

Tossì.

«Never cheer before you know who's winning… » Il Motorola squillò improvvisamente. «Pronto?» disse, la mano a scacciare i fumi.

Daiki.

Tomoe abbassò il volume.

«If you give him everything, he may give you even more… »

«Tomoe?» ringhiò lui «Dove cazzo sta quell’animale dell’uomo tuo?» «Due minuti fa era con me. Dal Presidente.»

«Era?»

«Kobayashi-sama l’ha espulso.»

«Mh.» Daiki sospirò appena «Tu invece perché sei viva?»

«Perché così vuole il kumicho. E m’ha ordinato di aiutarvi col tipo del Nurebanzai.»

«Ah, sì? Allora vedi di tornare qui. Ci trovi al magazzino del Tarumi. Lo sai dov’è?»

«Sì.»

«Bene.»

«Ma quindi l’avete preso?»

«Fuori da una farmacia.» disse lo shatei gashira «E comunque sbrigati. Hai un’ora.»

Tomoe fece per agganciare.

«Ah, donna!»

«Sì, Yoshida-senpai

«Porta un tubo di lacca e un martello. Ci serviranno.»


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