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Aperitivo | Forse le stelle



Concorso per racconti inediti a tema APERITIVO | Terzo classificato




 

Titolo: Forse le stelle

Autore: Alberto Giangiulio

Illustrazione: Alessandra Boiti


 

*


Luce blu, rossa, verde. Poi di nuovo blu. Un negozio cinese di prodotti elettronici. Cavi, prolunghe, casse bluetooth, miriadi di piccole scatoline. Cuffiette. E quelle luci led, lampeggianti. Tutta una fila lungo il bordo della vetrina. Caratteri cinesi, rossi. Verde. Blu. Rosso, come i caratteri, un po’ scoloriti che si leggevano al centro della vetrina. “Elettronica” forse. Sì, i primi due erano sicuramente “elettronica”. Ai lati del mio campo visivo automobili grigie, bianche, arancioni. Le catturavo ai lati dei miei occhi per brevi istanti. E poi sparivano. Il solito trambusto della periferia. Mi ero svegliato di soprassalto, senza sveglia. Per fortuna era il mio giorno libero. Mercoledì. Il bar mi lascia a casa. Però quella storia del cavo del telefono me l’ero scordata. Ed ecco qui: telefono spento e una dormita fino alle undici di mattina. Del tutto imprevista. Il mercoledì che doveva essere mio e di nessun altro. Il giorno in cui finalmente potevo prendere la mia macchina fotografica e andare per le strade a rubare le vite degli altri. Di nascosto, metodico, silenzioso.

Avevo già perso le ore migliori della mattina, quelle con la luce migliore. Che scende come un velo di brina dal cielo pallido, e si posa sottile sui marciapiedi, ritagliando ombre di lampioni e segnali stradali. Si posa sui vetri delle auto, creando riflessi a caleidoscopio. E soprattutto si ferma sulle persone, sulle loro teste e nei loro occhi ancora assonnati, mentre tutti si affrettano sulla strada che li porterà al lavoro, o alla sua silenziosa mancanza. La danza dei propri mestieri, chi lo ha conquistato e chi lo ha appena perduto, tra i giochi del consumo e delle politiche aziendali, sulle quali, ancora una volta, la luce decide l’ombra e i punti chiari. Su tutti si rifrange in mille scintille polverose, accarezza i volti stanchi, sfiora le labbra secche al vento del mattino, si confonde tra i capelli sciolti, raccolti, brizzolati, sulle fronti imperlate dal sudore di rincorrere gli autobus, gli orari dei treni.



Non mi era facile tirare dritto a passo svelto. Mi ero svegliato tardi, e quel malumore, vischioso e agrodolce, di essermi fatto sfilare dalle tasche ore preziose di libertà restava incollato alla pelle. Distraeva il mio corpo, ricurvo da troppe ore dietro a un bancone e sempre prostrato al servizio di ogni maledetto cliente. Per fortuna qualche amico dell’università si degnava ancora di venirmi a trovare al bar a bere qualcosa in compagnia del barista. Pensavo che smettere di studiare sarebbe stato diverso. Che avrei continuato a vederli tutti, i miei amici. E invece la routine dietro al bancone diventava ogni giorno più asfissiante. E ogni giorno ero sempre più solo, pensai strisciando i miei scarponi rossi sull’asfalto. Due anni e non riuscivo a togliermi dalla testa le loro facce. Le nostre facce. Sfigurate da smorfie di giovialità e sana, meritata sbronza. Durante quelle nostre uscite serali, sempre impreviste e sempre dirottate. Il viso di Clara, gli occhi di velluto e la risata del mare. Finiva così, ogni volta che pensavo a quella combriccola con cui passavo le giornate in biblioteca e le notti per le strade, il ricordo della mano di Clara nella mia, per brevi istanti, poi in aria a gesticolare l’ineffabile, ritornava, ricorreva, inebriava sempre i miei pensieri per attimi di piombo sulla pellicola di celluloide della memoria.



Proprio ieri doveva passare a salutarmi Clara. Durante il turno peggiore che poteva mai capitarmi. Ci eravamo scambiati uno sguardo silenzioso, capace di fermare il tempo. E il tempo si era fermato, cristallo lucido e freddo. Lei accanto alla porta d’ingresso del locale, appena entrata. Una giacca di pelle, la sua giacca di pelle, consumata dalla notte, nelle cui tasche si rifugiavano al sicuro le mani. Il piede sinistro di lei leggermente alzato a completare il passo, sicuro e incerto come le maglie esagonali delle calze a rete che indossava. Davanti una selva di teste, sempre immobili, sorrette da manichini vestiti di giacche di jeans e cotone, blazers, cappotti leggerissimi, vestitini da sera. Teste d’alabastro ferme a mezz’aria, capelli rossi, blu, verdi, bianchi, neri. E Clara immobile che mi fissa con le labbra quasi dischiuse in un immobile, eterno sorriso, più eloquente dei mesi passati a scolpire le nostre carni con scalpelli d’ebano e a leggerle nell’oceano degli occhi poesie d’amore rubate. Guardava me, e me soltanto, o così credevo. Ed io lei, o così credevo. Io però immobile non lo ero affatto. Al contrario della realtà che mi stava accadendo attorno, cristallizzata nell’ambra come zanzare del mesozoico, io non ero bloccato in un’istantanea. Saltavo, mi dibattevo, dietro al bancone in legno di noce e acciaio. Sbracciavo per dirle: “Vieni subito qui e portami via, non ce la faccio più”, ma vani erano tutti i miei movimenti e inabovibile la sua immobilità.



Poi di colpo con il fragore di diecimila cascate il tempo ritorna a scorrere. Le teste dei clienti ondeggiano, si voltano, parlano a destra e a sinistra, i capelli si scompigliano, le spalle si sfiorano in un fuoco d’artificio di movimenti frenetici come gli scatti del volo di un colibrì. Sopra tutto il rumore, costante, del vociare claustrofobico di quaranta persone in una stanza di venti metri quadri. Tutto si mosse dunque, ma, questa volta, io no. Mentre Clara riprendeva la sua camminata felpata in direzione del bancone tirando fuori le mani dalle tasche della giacca e portandone una ai fianchi e l’altra alla ciocca di capelli neri che scendevano fino alle spalle, io diventavo sempre più l’ombra tetra e immobile di me stesso: un povero, stanco, vessato barista.

Saranno state le sette soltanto quando Clara era entrata nel locale. L’apice paradossale di quello strano martedì sera doveva ancora rivelare il suo volto ghignante, ammantato sotto una coltre scura di gesti ripetitivi ma densi di significato. Ogni bicchiere servito, quelli alti e capienti della birra, leggermente sformati verso l’alto, quelli scolpiti come diademi preziosi per gli scotch e i negroni, giusti e sbagliati, ogni scultura cava di vetro, quelli a cono capovolto per i martini, nasceva da un gesto aperto della mia mano, un gesto di servizio e di dono e finiva nell’accettare avido ma riconoscente di colui che in mano lo riceveva. Un attimo di mani sfiorate e di raschiante strofinio sul legno di noce scolorito del bancone. Una transazione monetaria, certo, ma un rito di trasmutazione centellinato e ripetuto milioni, miliardi di volte, nell’arco di poche ore dilatate dai fumi di quell’etere d’ambrosia, che gli scettici chiamano collante sociale, gli intenditori un meritato premio, gli assetati acqua e i dipendenti sangue. Alcol come luce, che su tutti i corpi ha effetti uguali e infinitamente diversi, che scende, si diffonde ed espande, scalda e si rifrange, acceca e rischiara, infine annebbia e oscura, gli umori e le bili, nera e gialla, ma soprattutto unisce in chiaroscuri di sguardi ed emozioni. Lì dove la timidezza e il riserbo morale impongono dei gesti misurati dona l’impeto della curiosità e scioglie le lingue in profusi torrenti di parole.



Ma ancora una volta tutto ciò apparteneva alla dimensione che un barista potrebbe chiamare con ostentata sicurezza abitudine. Nulla di straordinario era ancora accaduto. I clienti erano numerosi ma composti. Spezzoni di dialoghi. “Da quanto tempo! Come va? Al lavoro tutto bene? Io sempre smart working.” “Ti aspettavamo al Bacchus, che fine hai fatto?” Risate. Sui muri un tessuto verde simil broccato. Lampadari a parete in vetro veneziano. Tavolini tondi e sedie di legno scuro, tendente al nero. Oggetti alla deriva, scoloriti dall’uso. Gli avventori in mezzo ad essi. Spezzoni di dialoghi. “Anna è già tornata a casa, aveva sonno.” Tutti a voce alta. Si coprivano gli uni sugli altri a strati. C’era Giovanni di nuovo, come ogni sera, sbronzo dalle tre, che parlava con dieci persone diverse allo stesso tempo, raccontando millantate vicende avvenute solamente la sera prima. Nello stesso posto. Era troppo sbronzo per rendersi conto che anche la sera prima aveva parlato con le stesse persone. Un circolo senza fine di narrazione che racchiude l’evento e di evento che è esso stesso narrazione. Pensando a Giovanni mi resi conto che stavo sorridendo. Giovanni mi era sempre piaciuto alla fine. Povero Giovanni, ignaro di quello che sarebbe successo. Uno che aveva scelto da che parte stare, assumendosene tutte le responsabilità.



Mentre camminavo i ricordi della sera prima e di Clara affioravano alla memoria ed emergevano lentamente dalla coltre del torpore fisico e mentale. È difficile, pensai, tenere la mente al guinzaglio di se stessa. Il corpo distrae. I miei passi stanchi, striscianti, evocavano pensieri randagi invece di condurre al presente. Pioggia. Fine. Stava piovigginando. Gocce di pioggia sottile rigavano timide i miei occhiali. Procedevo lento e le guardavo scendere sulle lenti. Alla mia sinistra una vetrina dopo l’altra, alimentari indiani, algerini, del bangladesh, un negozietto di prodotti dalla bielorussia e un coiffeur con mille teste dalle acconciature appariscenti. Una pozzanghera raccolse la mia attenzione e decisi di fermarmi a guardarla. Una minuscola goccia di pioggia si era fermata a tre centimetri dalla superficie sporca dell’acqua, ma i cerchi concentrici del suo rifrangersi si stavano già allargando al di sotto di essa. Poi la goccia si mosse e toccò la superficie della pozzanghera. L’acqua non si increspò, nessun cerchio. Imperturbabile.

Mi riportò alla mente l’incontro con Clara ieri sera, subito dopo che il tempo si era fermato. La password era: ti amerò per diecimila anni. Lei veniva verso di me e io la guardavo negli occhi mentre la birra che stavo spillando cominciava a schiumare, tanto, e a riversarsi copiosa fuori dal bicchiere. Lei se ne accorge e sorride, io non capisco. Mi si bagnano le mani e me ne accorgo, non sorrido. “Che cosa ci fai qui?”, “Stanotte ho sognato che ci incontravamo e boh oggi volevo vederti.”, “È un anno che non ci vediamo Clara.”, “Lo so…”, “E che non ci sentiamo.”, “Lo so…”, “Io ho provato a scriverti e non mi hai risposto.”, “Non ci sono riuscita.”, “Immaginavo.”



Uno spritz per favore. Qualcuno si era rivolto a me. Era stato difficile distogliere lo sguardo dal volto di Clara. Un ragazzo sulla ventina, magro, alto, capelli scuri ricci aveva recitato la formula e io dovevo esaudire il suo desiderio. Nessuna lampada da strofinare. Solo parole per un bicchiere di vetro. Aperol, grazie. Poi si volta e ridendo riprende una conversazione con un’amica alle sue spalle. E un Select grazie. Con un gesto rapido mi giro e i bicchieri diventano due. Clara prende il cellulare e risponde a dei messaggi. Ma non si muove, poco alla mia destra attende vicino al bancone. Dal frigo in basso tiro fuori le due bottiglie di Aperol e Select. Allineo i calici, infilzo due olive verdi, leggermente raggrinzite, con due stuzzicadenti e le infilo nelle aperture circolari di vetro. Poi ghiaccio, tre cubetti. Io non le mangerei quelle olive, avevo pensato. Verso i due alcolici nei bicchieri fino a poco sopra la metà. Dalla spina attaccata al tubo di metallo faccio uscire selz e prosecco di infima qualità. Arrivo a un dito e mezzo dall’orlo. Spicchio d’arancia, spicchio di limone. In tutto pochi secondi. Ecco a voi, sono 5 euro, grazie. Grazie a te. Fine. Atto compiuto.


La mia collega si era accorta che stavo parlando con qualcuno ed era venuta in mio aiuto servendo i clienti che si accalcavano dalla mia parte del bancone. “Non puoi apparire così dal nulla, cioè, certo che puoi, però è strano…”, “Lo sai come sono, dovevo vederti…il sogno.”, “E’ un sogno Clara, quante volte ne abbiamo parlato, può voler dire tutto e niente.”, “Aspetta, non era un sogno normale, era…vivo.”, “Cosa vuol dire?”, “Era così.”, “Così come?”, “Come ora, tu lì dietro e io qui, non mi ricordo le parole, ma io ti sentivo…vicino…sta succedendo come nel sogno…questo bar…”, “Non ti sei fatta viva per un anno Clara.”, “Ora però sono qui.” Mi erano tornati addosso una pioggia di ricordi, tutti insieme, confusi e nitidi allo stesso tempo. Noi che camminavamo di notte, fonda, lei stretta contro il mio braccio, discorsi densi, che vanno avanti da ore, le nostre menti che sorridono e imparano, l’uno dall’altra, l’altra dall’uno, uniti in uno, un globo scuro e luminoso che si libra da terra e avanza a mezz’aria, noi spiriti sottili all’interno. Baci rubati, i nostri volti di notte che si sfiorano, deformati dalla luce gialla dei lampioni.



“Non so se riesco a mettere in fila le parole giuste Clara, cioè, sono felice di vederti.”, “Lo sei davvero?”, “Credo di sì… però non ce la faccio, è difficile, vorrei dirti mille cose, ma non riesco, sto lavorando, è martedì, in orario da aperitivo, c’è un botto di gente, guarda.” C’era un botto di gente. Tante persone erano entrate nell’ultima mezz’ora. “Lo so, scusami”, “Hai capito quello che intendo…”, “Sì lo capisco. Credimi io avrei voluto scriverti, chiamarti, vederti, ma non ce la facevo, credimi, avevo paura…”, “Paura di cosa?”, “Paura che saremmo diventati troppo…”, “Troppo cosa?”, “E’ difficile anche per me, ho la testa stanca. Troppo… troppo…noi due, quanto conoscevamo, quanto ci conoscevamo, così fin dentro alle viscere, il percorso fatto insieme fino alla notte dei tempi e ai confini dell’universo.”, “Pensavo di essere io il mistico Clara.” Mi viene da ridere. Felicità effimera e amara. “Dai lo sai cosa intendo, non prendermi in giro.”, “Sì, credo, di capirti. Lo sai che ti amerò per diecimila anni…” Silenzio. I suoi occhi neri, di velluto, nei miei. Ci guardiamo per un attimo senza tempo. “Ancora con quel film…” Le sue labbra si inclinano. Un sorriso strano. Il suo sorriso strano. Poi continua: “Io…mi sa che vado…sono felice di averti visto.”, “Clara, qualunque cosa succeda, nonostante quello che è successo, io sono tremendamente grato di averti conosciuto. Non ci sono parole per dirti quanto.” Clara mi guarda ancora fisso negli occhi, sembra voglia dirmi qualcosa, ma resta in silenzio. Sorride. Poi si volta e si infila tra la gente. Vedo la sua giacca di spalle, un ultimo attimo, poi scompare nella folla. Chissà quando l’avrei rivista ancora, forse davvero, tra diecimila anni. Sarò sempre grato di aver fatto un pezzo di strada insieme a te, veramente. Immensamente. Grato.



A fatica ritornai alla strada che stavo percorrendo, sotto una pioggia che era diventata grigia ma leggera. La luce uniforme, di un sole algido che faceva capolino tra la coltre di nuvole bianche, si riversava sulla città, che respirava con il suo ritmo ansante del mezzogiorno. Quasi senza rendermene conto mi stavo avvicinando al bar, mancavano un paio di isolati. È vero. Sapevo perchè ero arrivato qui. Mentre i pensieri vagavano avevo sotterrato il motivo di quella strana passeggiata. Il mio cellulare era scarico, dalla notte di ieri. Nel caos dell’aperitivo di ieri avevo lasciato il caricatore al bar e a fine turno, esausto e scioccato da quello che era successo, mi ero dimenticato di prenderlo e portarlo a casa. Non avevo alcun bisogno urgente di guardare il mio telefono, ormai ricevevo pochissimi messaggi al giorno, e la sua funzione di sveglia, a quell’ora, non serviva più. Ma sentivo comunque il bisogno strano e tutto al passo coi tempi di avere quell’oggetto sempre acceso in tasca.


Forse però non stavo ritornando al bar a prendere il caricatore. Cioè, certo, uno dei motivi era senz’altro quello. Ma sentivo nel profondo motivazioni più oscure e difficili da leggere.

A volte, pensai, il confine tra se stessi e i luoghi, quelli circostanti e quelli pensati, si fa sottile e permeabile. L’attenzione di sé smette di essere concentrata nel corpo e supera i suoi confini porosi, fino a estendersi nel luogo circostante. Comincia a respirare con esso. Ecco perché anche le emozioni e le sensazioni del momento sembrano essere così influenzate da quello che accade intorno. E, se tutto ciò fosse realmente vero, allora perché l’Io doveva limitarsi a coesistere solo con il luogo immediatamente circostante, perché non allargarsi un altro po’ e cominciare a comunicare con i luoghi solo poco più lontani e poi con quelli ancora più esterni, a cerchi concentrici, come un piccolo sistema solare. Mi resi conto che in quel momento mi sentivo attratto dal bar, poche centinaia di metri più avanti, lungo la via. Verso quel punto sentivo un’attrazione quasi gravitazionale. Ecco perchè mi stavo dirigendo lì. L’attrazione dei luoghi, che smettono di diventare fisici e diventano mentali. L’espansione, la trasmigrazione della coscienza, che smette di diventare mentale e si fa fisica, territoriale.



Dopo pochi passi ero giunto dove volevo arrivare. La Scialuppa. Così si chiamava quella bettola ormai diventata sosta obbligata della movida studentesca. Con i suoi alcolici a basso prezzo, l’atmosfera semplice, un po’ grezza, che tanto piaceva ai suoi avventori. Il bar era collocato al piano terra di una palazzina vecchia, dall’intonaco verde chiaro scrostato. Una porta di legno, in quel momento aperta, e alla sua destra un grande rettangolo che d’inverno era protetto da un vetro, ora sfilato, permettevano all’aria di circolare tra dentro e fuori. Nessun tavolino all’esterno. La gente di solito si accalcava direttamente sulla strada, ostruendo il traffico notturno e suscitando l’ira degli abitanti di quella zona.

Varcai la soglia, con riluttanza. Il locale era immerso in un torpore pesante, come fosse la grotta di una bestia che ancora giaceva addormentata. I muri ricoperti di verde, i tavolini e le sedie di legno che erano da poco stati puliti, i lampadari che spandevano una soffusa luce gialla, tutto evocava un’atmosfera pesante di attesa. L’attesa della sera. Mi accorsi subito che qualcuno stava parlando con Michela, la mia collega, al momento occupata a preparare due caffè. Si accorge che sono arrivato e voltandosi mi saluta. Sembra sempre serena, Michela, mai turbata dalla ripetitività martellante di quel lavoro. Ricambio il saluto. Poi, subito dopo, la persona che stava parlando con lei, al di qua del bancone, si gira lentamente verso di me, e, allargando le sue labbra umide e strette in una smorfia che dovrebbe sembrare un sorriso, mi fa: “Ben arrivato! Non è il tuo giorno libero oggi?”, “Ciao Renato, sì, ma volevo passare a prendere il caricatore del cellulare, l’ho dimenticato qui ieri sera.”, “A proposito di ieri, grazie! È stata proprio una bella serata, volevo ringraziarti.”, “Figurati, sono contento vi siate divertiti.” Dissi io sforzandomi di dare un tono pacato e leggero alla mia voce.



Una bella serata. Una bella serata un corno è stata. Renato era il mio capo. Proprietario della Scialuppa e personalità nota nel quartiere per il gruppo di amici stravaganti che ogni tanto portava nel suo locale. Era il proprietario, ma non l’avevo mai visto muovere un dito all’interno del bar. Era andata così. Verso le tre del pomeriggio di ieri, mentre io e Michela stavamo ammazzando il tedio delle calde ore pomeridiane in attesa di qualche cliente, Renato era arrivato alla Scialuppa. “Ciao ragazzi, volevo chiedervi un favore.” Aveva esordito. In pratica ci disse che era il suo compleanno e che verso le otto di sera avrebbe portato al bar il suo gruppo di amici per festeggiare. Dovevamo tenergli da parte diverse bottiglie di prosecco, quello buono, non quello per gli spritz, e versarne per tutta la serata nei calici della sua compagnia. E dovevamo preparare degli stuzzichini. Tanti. Fin qui niente di straordinario. Ma dentro di me qualcosa mi diceva che non poteva essere così semplice. Era pur sempre martedì, innanzitutto, e martedì alla Scialuppa voleva dire aperitivo studentesco. La Scialuppa presa d’assalto. E uno spritz dopo l’altro. E fiumi di gente dentro al locale, come sardine. E fiumi di gente per strada. Sentivo che non poteva andare tutto liscio.



“Vuoi un caffè?” Mi disse Renato, riportandomi per un’attimo alla realtà. “Sì, grazie.” Intanto con gli occhi cercai attorno il mio caricatore, non lo vedevo. “L’hai per caso visto da qualche parte?” Chiesi in fretta a Michela. “Che cosa?”, “Il caricatore, è bianco.” Si voltò e vidi che lo stava cercando dove c’erano le prese, accanto ai bicchieri vuoti e puliti riposti ordinatamente a testa in giù. Poi aprì un cassetto sotto alla macchina del caffè, dove riponevamo gli oggetti smarriti e tirò fuori un cavo bianco. È lui. “Lo attaccheresti lì alla presa, così lo lascio in carica un attimo?” Dissi porgendole il mio telefono. Michela lo attaccò subito alla presa.

Osservai il mio telefono succhiare energia elettrica dal muro e mi resi conto che stare seduto in quella stanza stava cominciando a trasmettermi strane vibrazioni. L’avevo immaginato. Potevo prevederlo. Forse evitarlo, ma ormai mi trovavo là. Ero in un pozzo gravitazionale. Profondo e appiccicoso. Stanco, arrabbiato, non riuscivo a superare ciò che era successo ieri. Questa è la verità dei fatti, pensai. Quella che avevo cercato di eludere per tutta la mattina. Quella che non avevo voluto ingoiare. Fare mia. C’era poco da fare. Mi aveva segnato. Scalfito e inciso come avorio decorato.

Doveva essere un normale martedì sera. Il solito aperitivo studentesco. Dannazione. Va bene, c’erano stati Renato e i suoi amici, una grande seccatura, d’accordo. Continuare a portare loro bottiglie e bottiglie di prosecco in mezzo alla calca. E quegli orribili stuzzichini. Ma dopo un paio d’ore di sudati andirivieni, continuamente interrotti dalle ordinazioni dei clienti, Renato se n’era andato e alle undici e mezza tutto era tornato come sempre. Orde di studenti ubriachi. Centinaia di spritz. Il fumo delle sigarette che serpeggiava ovunque. Poi imprevedibile il disastro.



Non resistetti più. Mentre ormai inesorabile la mia mente si avvicinava a portare alla luce le immagini, i suoni, le urla e il dolore dell’epilogo di quel martedì avvertii l’impellente bisogno di alzarmi e uscire dal bar. Era troppo. Come in trance feci un cenno di saluto a Michela e porsi la mano a Renato. “Ci vediamo domattina, vado, ho delle faccende da sbrigare.”, “Riposati.” Uscii in strada e cominciai a camminare lentamente. Non avevo in mente alcuna meta. Non m’importava. Volevo soltanto allontanarmi il più possibile da lì. Così cominciai a vagare. Dondolandomi qua e là, senza badare nemmeno a dove mettevo i piedi. Strada, marciapiede, pozzanghere. Avrei voluto librarmi a cinque centimetri dal suolo, levitando come un fuoco fatuo. Invisibile e colmo di dolore. Vedere uccisa la libertà degli altri uccide anche la propria, pensai all’improvviso. E così era stato.

Era difficile mettere ordine a ricordi così vividi ma allo stesso tempo così confusi. Sarà stata circa la mezzanotte. Io e Michela pregustavamo già il momento della chiusura. Ancora un paio d’ore scarse. Il tasso alcolico aveva raggiunto un buon livello. La gente stava cominciando a ordinare meno da bere. Ogni tanto davo una pulita con lo straccetto al bancone e andavo in giro a raccogliere i bicchieri vuoti. Caricavo la lavabicchieri. La svuotavo. Poi qualcuno rise a gran voce. Mi girai. Era Giovanni, felicissimo, che stava raccontando a dei ragazzi quella volta che gli avevano rubato le scarpe ed era venuto alla Scialuppa scalzo. Risi anch’io. Io c’ero quella volta, un paio di mesi fa. Giovanni che entra in bar alle cinque del pomeriggio, ovviamente ubriaco, e mi mostra i calzini luridi. Volevo prestargli un paio di scarpe che avevo in magazzino, ma lui rifiutò l’offerta e passò tutta la serata a mostrare i piedi alla gente. “Ed erano pure bucati!” lo sentii dire e vidi che cominciò a slacciarsi le scarpe. Se le sfilò e le lanciò in strada. I ragazzi intorno a lui risero. Io osservavo divertito.







I minuti passavano e io con la coda dell’occhio, un po’ per stanchezza un po’ per distrarmi, continuavo a osservare Giovanni e il piccolo gruppo che gli si era raccolto intorno. Certo che era parecchio vivace stasera Giovanni pensai. Buon per lui. Parlava in fretta, un po’ biascicando, ma non riuscivo a sentire bene cosa stesse dicendo. Poi lo vidi slacciarsi i bottoni della camicia gialla a quadri che indossava sempre, un po’ sformata, se la sfilò e ne fece una palla. “E questo è il sole che ogni giorno ci scalda e ci dice, davanti a me siete tutti uguali!” disse urlando e innalzando la palla di tessuto in alto sopra la testa. Continuavano a guardarlo. “E quando diventa estate, il caldo sole picchia duro!” disse all’improvviso e in un gesto velocissimo, con il pugno avvolto nella camicia tirò un gancio a un ragazzo che gli era davanti. Porca miseria, non avevo avuto neanche il tempo di rendermi conto di quello che era successo che uscii dal bancone e mi scagliai davanti a Giovanni. “Giovanni, che cazzo fai”. Ma Giovanni fece appena per aprire le labbra che il ragazzo a terra si rialzò e si scaraventò contro di lui. I due erano avvinghiati a terra. “Vecchio maledetto…”, “Io non c’entro è stato il sole!” Cercai subito di separarli ma Giovanni continuava a urlare. Sentivo che pronunciava nomi di pianeti e stelle. Non ora Giovanni, pensai, ti prego. Giovanni era appassionato di astrologia e tante altre cose, aveva viaggiato molto da giovane, in India, in Australia, in Sudamerica. Di mattina parlavamo spesso, quando era sobrio, mi raccontava le sue avventure, mi leggeva le stelle. Io lo ascoltavo sempre attentamente. Mi piaceva sentirlo parlare.



I due si stavano ancora menando per terra quando un amico del ragazzo colpito si butta anche lui nella mischia. Poi un terzo. Io sono ancora lì che cerco di separarli ma loro sono in tre. A un certo punto sento un dolore forte al mento. Qualcuno mi aveva colpito. Non poteva andare. Urlai fortissimo: “Tutti fuori di qui”. La gente finalmente si accorge che qualcosa non va e lentamente si riversa per strada. In due riusciamo a separare Giovanni dai ragazzi, ma una volta fuori in strada la zuffa ricomincia. È tutto troppo veloce. Non ero riuscito a seguire i movimenti. Mi stavo solo accorgendo che la lite si stava trasformando in un vero pestaggio. Cinque ragazzi incattiviti dall’alcol contro Giovanni che recita litanie astrali. Io in mezzo, a tratti, a prenderle da tutti. Pugni. Calci. Gente che urla. Sembra un combattimento tra galli. Perdo il senso dello spazio. Tutto è un vorticare. Ricevo un pugno forte in pancia che mi fa vacillare. “Coglione di un vecchio pazzo” sento dire a un certo punto. Degli sputi. Io e Giovanni per terra, malmenati. I picchiatori esausti si fermano. La gente intorno tace.



Tirai un sospiro di sollievo. Era finita, per fortuna, pensai. Luce blu, lampeggiante. Mi giro. Merda. Gli sbirri. Due volanti. Tre agenti sono dietro di me e Giovanni. Ci fissano. Gli altri vanno verso i picchiatori. “Ci hanno chiamato. Che succede?”, “Abbiamo visto che vi menavate, voi quattro venite qui”. Gli agenti ci avevano raccolto vicino a loro. Io cercavo di spiegare, in veste di barista, quello che era successo, ma loro non mi ascoltavano. Sembravano molto interessati alla versione di uno dei ragazzi. Quella secondo la quale un pazzo ubriacone aveva tirato un pugno al suo compare, dando inizio alla lite. “Ho capito, quindi è stato lui, questo signore a iniziare la cosa”. “Come si chiama?” chiese uno a Giovanni, ma Giovanni non rispose. Aveva un occhio nero e le pupille vorticavano intorno seguendo luci e rumori lontani. “Su forza, mi dia i suoi documenti.” Continuò. Ma io sapevo che Giovanni i suoi documenti li aveva persi. Cercai di spiegare al poliziotto la situazione, fargli capire che Giovanni non aveva con sé nulla ma loro si strinsero attorno a lui e cominciarono a toccarlo. A tenerlo per le braccia. Giovanni si innervosisce. Vedo i suoi occhi che guizzano irrequieti.



“Gesù…” lo sento mormorare. Non ora Giovanni. Non ora, ti prego, gli sussurro. “Gesù, prima di nascere nella mangiatoia, si reincarnò centotrentatrè volte. Ma le prime centotrentadue sbagliò a fare i miracoli.” “Che cosa sta dicendo?” chiese un poliziotto a quello che gli stava accanto.” Giovanni continua. “Siccome non riusciva a essere il figlio di Dio ci provò centotrentadue volte. La quarta volta tramutò l’acqua in coca-cola, ma siccome al tempo la coca-cola non era conosciuta, alle nozze di Cana tutti furono inorriditi dalla scura sostanza”. “Questo è fuori di sé” disse il più giovane in divisa. Stavo cominciando a preoccuparmi seriamente. Mentre gli sbirri lo toccavano e cercavano di trattenerlo, Giovanni senza camicia aveva cominciato ad agitarsi.

“Lasciatemi stare!” Urlava Giovanni insieme a parole confuse. Io ero esattamente in mezzo a loro, cercavo di interagire, di spiegare, ma i poliziotti si erano fatti la loro idea, e quando partono, per le infami leggi del potere, devono arrivare. Poi solo confusione. Un poliziotto fu sfiorato dalla mano di Giovanni che senza volerlo cercava solo un po’ d’aria. Sbigottito e indignato il poliziotto lo strinse più forte, dicendo agli altri che era stato colpito. Io cerco di negare la cosa, ma Giovanni è stretto in una morsa di tre persone arrabbiate in divisa. Si divincola. Stringono anche me, mi bloccano. Michela cerca di tenere buona la gente intorno che comincia a fare video con i telefonini.



Poi d’un tratto solo caos. Un poliziotto cade a terra. Nessuno capisce se è inciampato o se è stato spinto. Io vengo bloccato con le mani dietro alla schiena. Giovanni si divincola e tenta di scappare. La gente intorno si stringe. Si sentono urla. Parte una sirena. “Ora chiamo l’ambulanza” grida un poliziotto. Corrono dietro a Giovanni, lo placcano e lo mettono a terra. Giovanni piange. Io piango. Maledizione. “Lasciatelo stare!” grido. “Tu dopo vieni con noi in questura.” Mi dicono. “Il bar, devo chiudere il bar.” Cerco invano di dire. Stavo crollando. Non ce la facevo più. Io che a Giovanni volevo un gran bene, davvero, mi sentivo morire. Degli sconosciuti vestiti di blu e bianco stavano improvvisando la sua sentenza in una notte ubriaca come tutte le altre. Circondati da ragazzi ignavi che non avevano mosso un muscolo per cambiare la situazione. Ebbri del loro inutile aperitivo. Ciondolanti mentre collezionavano video e foto di un uomo che vede tra le lacrime dilaniata la propria libertà. Come se stare a petto nudo e parlare di stelle e di Gesù fosse abbastanza per essere picchiato da cinque persone. Ero anche sicuro che quel pugno con la camicia l’avesse solo sfiorato il ragazzo all’inizio. Cos’è la normalità, esiste? Perché sono gli altri a doverla decidere? Perché è chi ha il potere e lo scettro della razionalità a stabilirla? Era davvero troppo. Mentre le urla e le strette ai polsi e le lacrime e il sudore e le botte, mentre tutto diventava una tempesta di dolore e afflizione sentii in lontananza una sirena.



Era arrivata l’ambulanza. Non ci fu tempo per fare nulla. Il loro lavoro lo sanno fare, a volte, maledizione, pensai mentre i poliziotti portavano Giovani che urlava e si dimenava all’ambulanza e tenevano me immobilizzato a dieci metri da lui. Degli operatori cercavano di invitare gentilmente Giovanni a stare tranquillo, parlavano con lui pacatamente ma Giovanni era sotto shock, spaventato dalla polizia e dal trambusto e continuava a dimenarsi e urlare. Dopo vani tentativi vidi che lo presero e lo rinchiusero dentro le fauci bianche della vettura. Il mondo mi crollava attorno e io ero nelle mani di poliziotti arrabbiati. La gente guardava, guardava e rideva. “Giovanni! Non mollare ti prego! Resisti. Domani mi leggerai le stelle di nuovo e parleremo di cosa sbagliò Gesù la settima volta. Ti prego, non farti dire cosa…”, “Ora basta” mi disse un poliziotto e mi allontanò dall’ambulanza che ormai stava ripartendo. Sirene di nuovo.

Quello che era successo dopo facevo fatica a ricordarlo. So che passai del tempo coi poliziotti. Poi mi lasciarono andare. Mandammo via la gente, io e Michela. In quattro e quattr’otto chiudemmo il bar. Aperitivo finito. Poi vuoto, buio, silenzio e pensieri incattiviti, doloranti. Pensavo a Giovanni. Se era in ospedale. Se l’avevano fatto uscire. Se erano già arrivati i medici. Se l’avevano legato. Se l’avevano legato, cristo. Se l’avevano legato.



Era l’una e mezza. Mercoledì. Fuori pioveva di nuovo. Questa volta con forza. E delle lacrime sottili, affilate rigavano le mie guance. Viviamo in una società di prigioni, pensai. Non esistono evasioni possibili. Non esistono fughe possibili. Forse le stelle, tra diecimila anni. Mi accorsi che i miei piedi mi avevano portato nei pressi dell’ospedale. Da tutto il giorno è proprio qui che dovevo giungere, realizzai. La mia meta. Volevo sapere come stava Giovanni. Cosa gli avevano fatto. Se l’avevano sedato e se sì con che cosa. Quanto sarebbe dovuto rimanere e perché. Mi feci forza e avanzai a passo deciso. Avevo dimenticato di nuovo il caricatore al bar. Al diavolo il caricatore e il bar. Al diavolo il bar.


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