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Racconti | Kefir

  • rivistagelo
  • 18 minuti fa
  • Tempo di lettura: 7 min




Testo di Massimiliano Rocchetti

Illustrazione di Lentilla Editing di Yuri Sassetti e Arianna Cislacchi








Kefir arrivò in casa mia il 2 aprile. Avevo paura di commettere degli errori, ma mi è stato detto di non temere, che non è difficile iniziare. Per sicurezza ho chiesto più volte le istruzioni e le ho segnate nelle note del telefono. Metti i grani in un barattolo e versa il latte (rapporto di 1:10). Mi raccomando: latte fresco intero, che è ricco di nutrienti. Lascia fuori dal frigo per 24 ore (sarebbe meglio 18, ma per la mia routine è più comodo 24). Ricorda: non chiudere completamente il tappo, perché Kefir rilascia molto gas che potrebbe rompere il vetro. Passate le 24 ore, filtra Kefir con un colino (per separare i grani dal prodotto fermentato) e mettilo in frigo per una seconda fermentazione (non necessaria, ma gradita). Riparti dall’inizio. 

Cominciai con 5 grammi. Non un granché, ma andava bene: non si può pretendere tutto e subito. Sembra quasi un processo automatico ‒ versa, filtra, bevi, a ripetizione ‒ ma dipende da te: se il rapporto grani/latte è superiore a quello indicato, per esempio, Kefir avrà un sapore meno acido e una consistenza più liquida. Viceversa, aumentare il tempo di fermentazione gli donerà un sapore aspro e pungente. Personalmente lo preferisco così, ma sono gusti. Nel primissimo periodo lo versavo sui cereali e lo mescolavo con un cucchiaino di miele. Un po’ per volta è cresciuto e ho iniziato a berlo anche da solo. Insomma, il tuo comportamento determina la resa finale. Come sempre, si impara con l’esperienza: bisogna sperimentare, sbagliare e correggersi, fino a trovare l’equilibrio giusto tra le tue esigenze e quelle di Kefir.



I grani furono un dono. Un regalo inaspettato, a dire la verità, e io non mi sentivo pronto. Avrei potuto tirarmi indietro, ma perché privarsi di una nuova esperienza? Un po’ mi lasciai convincere dalle qualità di Kefir, che è un toccasana per la salute, un po’ pensai di essere libero di smettere non appena mi fossi stufato. Peccato che, dopo un paio di settimane, il mio bisogno di Kefir rasentava già la dipendenza. Comprai dei barattoli nuovi e dei cucchiaini di legno per non intaccarne le proprietà. Il metallo può infastidire i grani e i contenitori usati del miele e delle olive ne avrebbero rovinato il sapore. Kefir non aveva niente di cui lamentarsi, e infatti crebbe rapido e vigoroso. Nel tardo pomeriggio, di ritorno dal lavoro, per prima cosa aprivo la credenza e mi occupavo di lui. Nel fine settimana, con più tempo a disposizione, potevo girarlo col cucchiaino a distanza di poche ore per favorire il benessere dei grani e redistribuirli. 



Presto mi accorsi che Kefir necessitava di più spazio. I grani aumentavano a vista d’occhio e con essi il prodotto finale. Decisi di dedicargli il ripiano superiore della credenza e ammassai di sotto il resto (cereali, fette biscottate, zucchero…). Di tanto in tanto, quando aprivo l’anta, mi cascava in testa qualcosa, ma i barattoli erano sani e salvi là in alto. Il progressivo moltiplicarsi di Kefir mutò le mie abitudini. Non sentivo più il bisogno di mangiare ciò che conservavo nel ripiano inferiore, perché la quantità di latte fermentato era tale da permettermi di farne a meno. Attenzione: non si trattò di una scelta obbligata per consumare tutto Kefir, che altrimenti sarebbe andato a male. Io ero felicissimo di bere due o tre bicchieri a colazione, altri due o tre a merenda e due o tre dopocena. Pur essendo soddisfatto del nostro rapporto, mi capitò di percepire per la prima volta una sorta di inquietudine. Che fosse di mattina, appena sveglio, nel pomeriggio, rientrato a casa stanco morto, di sera, mentre mi apprestavo a cucinare o dopo cena, sapevo cosa mi aspettava in frigo. Si trattò di intuizioni casuali, che si materializzavano nella mia mente all’improvviso e altrettanto rapidamente svanivano nel nulla. Per cancellare questi pensieri, mi bastava ricordare l’origine di Kefir e le mani di chi mi aveva affidato i primi grani con la certezza che ne avrei avuto cura. Sarebbe bastato questo per realizzare che già allora non lo facevo più per me stesso. Invece proseguii, fermamente convinto di non desiderare altro che nutrirmi di lui. 



Un pomeriggio vidi il liquido bianco colare dalla credenza, segno che la crescita dei grani aveva subito un’accelerazione inaspettata. I barattoli non bastavano più e trasferii Kefir dentro dei secchi. Venuta meno la protezione della credenza, temetti che il sole avrebbe potuto guastarlo. I secchi erano accuratamente coperti da un panno, ma per sicurezza presi l’abitudine di tenere le tapparelle abbassate. Soltanto al tramonto mi azzardavo a tirarle su per ossigenare la cucina. Giorno dopo giorno, Kefir occupò un buon terzo del pavimento. Ormai non potevo più conservarlo in frigorifero, né berlo tutto. Quando ancora uscivo e mi capitava di incontrare un amico o un vicino di casa, magari gli donavo un bicchiere; comunque nulla in confronto alla quantità posseduta. Mi impegnavo affinché non andasse a male, consumando i secchi secondo la data di produzione e lasciando acceso il condizionatore dalla mattina alla sera per tenere fresco l’appartamento. 



Col passare del tempo desiderai conoscere meglio Kefir. Di sera, prima di andare a letto, ne ricostruivo le origini millenarie, perdendomi di pagina in pagina in un calderone di storie, miti e tradizioni gastronomiche. Questa lettura disordinata ma attenta seminò nella mia mente germi simili ai grani di Kefir, capaci di moltiplicarsi e di trasformare. Una di quelle sere, mentre leggevo cose ormai solo vagamente collegate a Kefir, mi addormentai di botto. Sognai un lago. Sapevo di trovarmi in una regione caucasica e di esserne un abitante. Quel lago era dimora di un vishap, guardiano della località e del suo tesoro, un’insenatura in cui gorgogliavano milioni di grani che causavano la fermentazione dell’acqua lacustre. Molti si recavano in riva al lago nella speranza di dare una buona impressione al vishap, che solo di rado concedeva a chi ritenesse affidabile di portarne via la quantità di un mestolo. Io ero tra i fortunati. C’era però una condizione da rispettare: avrei dovuto curare i grani e non lasciarli morire, pena la vendetta del vishap ‒ o così si diceva. Nessuno poteva giurare di averlo visto punire i trasgressori, ma chi infrangeva il patto finiva per avvizzire, come seccato dall’interno, e precipitava in uno stato di torpore e malinconia inguaribile che la gente attribuiva all’operato dello spirito del lago. Io non la pensavo così: qual era il senso di attribuire al vishap la sofferenza di chi rinuncia al bene volontariamente?

Mi svegliai nella stessa posizione di poche ore prima. Appoggiai i piedi sul pavimento per alzarmi e avvertii una sgradevole sensazione di bagnato. Abbassai lo sguardo e vidi una pozza bianca. Seguendo la traccia a ritroso, scoprii che due secchi troppo carichi si erano rotti e il loro contenuto era giunto fino al mio letto. Il disastro mi spinse a prendere una decisione drastica.



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illustrazione originale di Lentilla






Se me l’avessero detto un anno fa, non l’avrei creduto possibile, ma quando diedi le dimissioni mi sembrò di fare la cosa più naturale del mondo. Prima per convinzione, poi per inerzia, passo dopo passo sacrificai a Kefir un altro pezzettino di me. Il mio tornaconto era sempre lo stesso, ma iniziavo a non essere più convinto di averne bisogno. Era doloroso scoprirmi capace di trascurare Kefir; non soltanto per i benefici che non avrei mai potuto negare né dimenticare, ma anche perché i grani erano stati un dono a cui continuavo ad attribuire grande valore. Mi vergognavo del lessico utilitaristico che utilizzavo per soppesare i pro e i contro della situazione: che cos’era più conveniente? L’idea di uccidere Kefir ‒ non saprei come altro dirlo ‒ mi ripugnava e credevo di percepire in me un lampo di pura sincerità quando scuotevo la testa e mi ripetevo “Mai e poi mai!”. Mi sforzai di trovare un compromesso e appresi che i grani potevano essere congelati. Mi sarei liberato così della quantità in eccesso. Li avrei ibernati, ecco tutto, e loro avrebbero atteso pazientemente il risveglio come accade nei film di fantascienza. Tuttavia, dentro di me sapevo che forse non si sarebbero svegliati mai più. Li avrei spediti nel freezer appena nati, senza pietà, in fondo consapevole di condannarli a una tomba di ghiaccio. Cercai di soffocare questo terribile pensiero fino a sera e mi addormentai sperando di piombare in un vuoto senza sogni. Invece feci un incubo. La mia mente continuò da sola a rimuginare sull’orrore del congelamento e sognai di esservi destinato io stesso. Ero sdraiato in una capsula e attendevo di chiudere gli occhi per un tempo indefinito. Mi svegliai ansimando proprio mentre il congelamento stava per ghermirmi nella sua morsa. Un altro secchio doveva essersi spaccato: Kefir si era sparso di nuovo sul pavimento. Rimediai limitando ulteriormente il mio spazio. In un certo senso ci spartimmo l’appartamento.


Lui abitava la cucina e metà del soggiorno; io l’altra metà, la camera da letto e il bagno. Le cose funzionarono per un po’, ma ben presto Kefir ricominciò a debordare. Mi alzavo al mattino e ci pucciavo i piedi dentro, andavo in bagno e lo trovavo allagato. Un giorno passò sui cavi della televisione e mi costrinse a cambiarli. Io facevo il possibile per metterlo a suo agio, ma sembrava che i miei sforzi non fossero mai sufficienti. Ero nervoso e gli attribuivo colpe che non aveva, in primis quella di esistere. Non so se sia stata l’insofferenza a diminuire la mia cura per il processo di fermentazione o se Kefir stesso, in quanto essere vivente, avesse intuito i miei sentimenti e ne fosse rimasto ferito, fatto sta che il sapore e la consistenza peggiorarono.

Finì in poche ore, all’alba, mentre dormivo: Kefir inondò casa mia. Si mosse silenzioso e io non mi accorsi di nulla. Quando aprii gli occhi, ero immerso in lui fino al collo. Mi sollevai a fatica, facendo forza contro quel muro viscoso. Sentivo dei grumi toccarmi il corpo e frapporsi tra me e l’uscita, non so se ammassi di grani o pezzi di cagliata. Arrancai in direzione della porta, cercando a tentoni le chiavi, e cedetti alla forza della corrente, che mi trascinò all’esterno. Rotolai in strada e mi accasciai sul cemento, esausto ma finalmente libero. Libero, ma non felice. La mia mente ritornò all’inizio, a quei 5 grammi che mi erano stati donati, e poi indugiò su casa mia, ormai persa per sempre.


 

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