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Aperitivo | Il Conte


Titolo: Il Conte

Autore: Andrea Peverelli

Illustrazione: Angela Larcher


“Allora, è la tua prima volta, no?”

“Prima volta per cosa, scusa?”

Il mio amico mi squadrava bonariamente da sotto il ciuffo di capelli che gli cadeva sugli occhi.

“Mhm… Non so se sei pronto”

“Dai, parla chiaramente, per piacere”

Sorrise. Prese un sorso del suo spritz campari. Pensavo fosse troppo presto per un campari, che poi a fine serata saremmo finiti ubriachi fino al midollo.

“Per l’apparizione giornaliera del Conte, ovvio. È una tradizione qui”

La piazza era allegra, stranamente popolata per essere pomeriggio. Ogni tavolo dei bar che la puntellavano era occupato da chiacchiere amichevoli e qualche risata.

“E chi sarebbe questo Conte?”

“Vedrai”

C’era un tono quasi orgoglioso nelle sue parole. Il suo viso era ammantato di una speranza insopportabile. Mi domandai cosa lo spingesse a quell’attesa così accorata.

Decisi di stare al gioco della sua vaghezza. Per un po’ parlammo senza direzione, gli raccontai del mio trasferimento. Lui sembrava felice di rivedermi, ora che finalmente potevo fargli da compagno nella sua solitudine cittadina.

A metà del mio calice suonò l’orologio della chiesa vicina: non aveva suonato l’ora piena, solo la metà. Non so perché mi soffermai a pensarci, in fondo di rintocchi di campane e di ore annunciate ne avevo sentiti parecchi. Quella stessa giornata mi pareva di averne sentiti altri. Improvvisamente non fui più così sicuro: sembrava che quella mezz’ora fosse l’unica davvero degna di essere ascoltata. E così sembrava pensarla anche il mio amico, all’erta come per un allarme e improvvisamente scuro in volto.

Si alzò in piedi, come gli altri avventori della piazza.


Quelle cinque e mezza invitavano tutti alla frenesia. Ognuno pareva spronato dal proprio delirante e invisibile demonio, ognuno un vettore di follia nella piazza esplosa come un dente di leone al soffio della sera incombente. Non c’erano più coppie, legami, amicizie; ogni corpo di quella piazza si dirigeva, in un silenzio impaziente, verso un vicolo laterale, senza badare alla presenza del proprio vicino. Anche il mio amico sembrava essersi dimenticato di me, insensibile ai miei sguardi interrogativi. Pensai subito che si fosse stufato della mia compagnia, o che avessi detto qualcosa che l’aveva offeso. Non riuscii a esprimere il mio dubbio, e velocemente mi feci dietro a lui. In brevissimo tempo girammo l’angolo verso il vicolo assaltato da tutta la piazza e ci facemmo strada fra la folla immobile. Ognuna delle decine di persone presenti stava ritta in mezzo alla via, alcuni con gli occhi chiusi, molti coi pugni serrati lungo i fianchi, tutti invischiati in una tensione palpabile, come se si stessero preparando a un salto nel vuoto. Mi girai verso il mio amico e, sottovoce, quasi a non voler turbare quel silenzio ostile, gli chiesi: “Allora, mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?”. Lui, con un cenno appena percettibile della testa, mi invitò a guardare verso l’alto.

Il balcone del terzo piano si iniziò a colorare di scuro, lentamente. Un’ombra stava avanzando sempre più chiara nel piccolo spazio del balcone a vetri. Una testa si disvelò, riccia e oblunga, cornice a uno sguardo di una drammaticità indimostrabile; poi venne il resto del corpo. Era una figura decisamente umana, comune, ma in qualche modo grave, ammantata da un senso di regalità. Un lungo kimono nero, decorato a rose rosse, lo copriva fino ai piedi nudi. La parte davanti era leggermente aperta sul petto, e crollava morbida sulla spalla sinistra, scoperta. Il passo lento e breve lo portò al bordo della balaustra, dove poté finalmente sovrastare il vicolo. La figura sconosciuta sembrava graziata da una florida apatia: nella mano sinistra, mollemente piegata verso l’alto, teneva un bicchiere ampio, ma il suo peso sembrava solo sfiorarne le dita, come se il gelo del ghiaccio depositato sul fondo della coppa non volesse scalfirne il tatto. Il liquido rosso all’interno si muoveva in vaghi sussulti. Ne fui ipnotizzato, quando notai che il ritmo dietro il moto del cocktail si accompagnava a quello, impercettibile, della testa. I due occhi gravi, contornati da occhiaie, si posarono per un attimo sulla folla al di sotto, poi tornarono fissi a osservare meraviglie invisibili.



“Ma chi è?” accennai sottovoce, ma subito mi venne intimato il silenzio da sguardi ostili. Passarono attimi interminabili, in cui la figura sconosciuta rimase immobile. Poi portò il bicchiere alla bocca, che spiccava di un rosso scarlatto sulla carnagione pallida del viso, e prese un piccolo sorso. Il tintinnio dei cubetti di ghiaccio nel bicchiere si accese nella via, per poi depositarsi qualche secondo dopo. Tutti gli astanti erano sospesi, ogni sguardo teso verso l’alto, ingabbiato in un incubo lucido, come un condannato che attenda parole di grazia. In quel momento anche a me apparve chiaro che solo quella incomprensibile figura, quel Conte meraviglioso e terribile, sembrava capace di assolverci. Dopo qualche attimo, gli angoli della sua bocca si incresparono, delle piccole rughe gli tagliarono verticali una guancia e gli occhi si accesero improvvisamente di una luce terrificante, posandosi con delusione e disgusto sulla folla sottostante. Nel silenzio della scena, la mano che reggeva il calice si capovolse, liberando il liquido per terra. Una voce tuonò quasi per sbaglio, tremante e acidula, dal mezzo della folla:


“Io sono la volontà sconosciuta

la rabbia che avvolge

la gloria e la rovina!”


Quelle parole risuonarono amore e disperazione nelle mie ossa. Le mie gambe cedettero. Mi sentivo come un urlo d’affetto non ascoltato.

Cadde l’ultima goccia dal bicchiere. Poi, con la stessa gravità con cui era apparsa, la figura si voltò e scomparve.


Nella via saettò un’aria di disastro. La furia che aveva pervaso gli avventori della piazza era fuggita. Qualcuno mormorava sottovoce in sconforto, altri si rabbuiavano, aggiungendosi alla penombra della prima sera. Anche il mio amico non ne fu risparmiato: dietro ai suoi occhi si indovinava un’aura giallastra, di ammonio, come di pianto. Senza dire nulla mi guardò di sfuggita, lanciandomi un ultimo saluto. Poi si incamminò verso un’uscita, girò l’angolo come tutti gli altri e il vicolo rimase deserto. C’era solo un lieve vento fresco a tenermi compagnia. Mi sentivo un errore. Rimasi lì fermo come una statua ad aggiungermi - lo sentivo - all’interminabile collezione di fallimenti e delusioni che avrebbe ancora popolato questo insensato evento negli anni a venire.

Era evidente che non ci sarebbe stato un proseguimento, in quella serata. Svuotai il mio bicchiere per terra, e me ne andai verso casa.

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