Testo di Carlotta Centonze
Illustrazione di Camilla Fassina
L’uomo dei giornali passava sempre puntuale, alle otto. Entrava col suo carrellino nel lungo
corridoio al neon e si fermava all’altezza del primo ufficio, dove scambiava due battute sulla porta
con la ragazza nuova. Quel giorno però lei non c’era e pensò di farle piacere lasciandole sulla
scrivania Gardenia, la sua rivista preferita. Uscì dall’ufficio fischiettando e ricordando quanto fosse
carina la ragazza nuova. Mentre camminava così, sovrappensiero, andò a sbattere contro la
signorina Rachele Benuzzi. Subito la signorina Benuzzi lo guardò con gli occhi stretti, il naso che
tendeva all’insù e la bocca che sembrava avesse litigato con il resto del viso, pietrificata in
un’espressione di silenziosa furia. Tuttavia, bastò la costernazione dell’uomo dei giornali, perché i
tratti della signorina Benuzzi, con un piccolo sisma, tornassero tutti insieme alle posizioni originarie
di fredda cordialità. «Mi scusi tanto» sussurrò con voce carezzevole, dando un colpetto con la mano
ai capelli appena messi in piega e afferrando dolcemente la gonna che le evidenziava i fianchi in un
frusciare di cotone chiaro. Prese dal carrellino dell’uomo dei giornali i principali quotidiani
nazionali e Home Decor e raggiunse a passo svelto il suo ufficio in fondo al corridoio, augurando
una buona giornata all’uomo che si allontanava chino sul suo carrello.
La signorina Benuzzi lavorava in quell’azienda da quattordici anni e amava ricordarlo a tutti ogni
volta che ne aveva l’occasione. Qualcuno diceva che per la signorina Benuzzi l’azienda era come
un figlio, una creatura che aveva visto crescere e a cui dedicare la sua vita, ma non era esattamente
così. Entrando nel suo ufficio luminoso osservò con rinnovato piacere l’ultimo premio vinto sullo
scaffale, una piccola barca a vela di vetro dagli alberi aguzzi. Lo aveva quasi dimenticato durante le
meritate ferie da cui era appena tornata. Sedendosi alla scrivania si tolse la giacca e strizzò l’occhio
alle fotografie dei nipotini e della bambina di una sua ex dipendente, che ormai non lavorava più lì
per ovvie ragioni. La giornata prometteva bene, la collega con cui condivideva la stanza era a casa e
poteva starsene tranquilla per i fatti suoi, riprendere le pratiche che si erano accumulate in una pila
sulla scrivania, leggere le centinaia di mail ricevute e pian piano mettersi in pari con il lavoro. Si
sentiva ogni volta sedotta dall’aria frizzante dell’ufficio, aspettava che il telefono squillasse per
potersi mettere a disposizione, sfoggiava la sua confidenza con i colleghi parlando dell’amministratore delegato come di un marito a cui essere sempre fedele.
Dopo una mezz'ora di sfoglio di carte, le venne l’atroce dubbio di non aver truccato il naso a
dovere, e anche se confidava nell’abbronzatura che la distingueva da ogni altro in ufficio, non
poteva tollerare un naso lucido. Si affrettò verso il bagno e vide nel corridoio il signor Pellegri
appena arrivato in ufficio con la consueta rilassatezza. Pensò che fosse ancora un bell’uomo,
distinto nel suo abito blu e sempre profumato.
«Giorgio, buongiorno!» gli disse indicando distrattamente l’orologio col cordino di tela blu che
aveva comprato in Grecia. «Devo dire che, anche se stavo meglio in vacanza, non mi dispiace mica
vederti! Hai una gran bella cera» mentì, perché a dire il vero l’uomo era sbiancato non appena
l’aveva vista. Abbassando il tono della voce e rendendola più vellutata possibile, lo liquidò dicendo
che più tardi si sarebbero raccontati tutto, lasciando in sospeso cosa significasse quel «tutto».
Mentre dava le spalle al signor Pellegri, al quale non aveva lasciato il tempo di ribattere, fece
solamente pochi passi prima di ritrovarsi faccia a faccia con la ragazza nuova, accaldata e con gli
occhi più tondi del solito. «Sei arrivata, finalmente. Possibile che tu sia sempre in ritardo?» la voce
improvvisamente acuta, il volto di nuovo contratto «Dai, dai, cara, sbrigati. Appena torno dal bagno
ti offro un caffè mentre ti spiego cosa non devi fare mai più assolutamente».
Attraversò il corridoio a petto in fuori, con i piedi leggermente in ritardo nell’intento di strascicare i
tacchi, proprio come fa una bambina con le scarpe di sua madre. Era di ottimo umore e persino i
bagni le sembrarono più puliti del solito, ricordandole la fortuna di lavorare in un tempio di civiltà e
progresso. Mentre tirava lo sciacquone soddisfatta, origliò il chiacchiericcio di alcune colleghe:
«Hai visto che è tornata» diceva una. «Dopo quello che è successo» rispondeva l’altra. Chissà di
cosa stavano spettegolando, sempre pronte a planare sui cadaveri delle colleghe. Uscì dal bagno
sorridente, e aprendo il rubinetto salutò le due donne con un’osservazione entusiasta sulla
profumazione del nuovo sapone per le mani. Sorvolò sugli sguardi imbarazzati e si disse che
avevano proprio un pessimo aspetto. E lei che era preoccupata di non essersi truccata il naso!
Tornando verso il suo ufficio il signor Pellegri le si fece vicino, chiedendole se non avesse ricevuto
una lettera dall’azienda. Sembrava preoccupato, sempre a pensare al peggio, il buon Giorgio, così
affascinante da far litigare tutte le donne che lavoravano lì. La signorina Benuzzi rispose che era di
fretta, aveva da recuperare il lavoro arretrato a causa delle vacanze e doveva tirare le orecchie a un
paio di dipendenti che forse non avevano capito con chi avevano a che fare. Pellegri fece dietro
front, rassegnato, e la signorina Benuzzi si sedette di nuovo alla scrivania, pescando nel mucchio di
fogli un fascicolo su un’operazione particolarmente delicata e chiamando a pieni polmoni la ragazza
carina. «Quante volte vi ho detto che non posso fare sempre tutto io? Questo fascicolo è pieno di
errori, un bagno di sangue». Ogni volta che in ufficio sgridava qualcuno doveva combattere la
voglia di ridere che le scoppiava in petto. Certo che di strada ne aveva fatta da quando era stata lei a
ricevere plateali lavate di testa dalla madre, quando le ripeteva che doveva dimagrire almeno cinque
chili se non voleva fare la fine di sua sorella maggiore, sposata con un impiegato del Comune
grassoccio e calvo. «Mi sembra chiaro che non è possibile neanche andare in ferie se questo è
quello che trovo al mio rientro. Dovrò fare notte oggi, per rimediare alla vostra sciatteria. Per
favore, rivedi tutto quanto e torna solo quando sei sicura di non aver fatto altre scemenze».
La ragazza non se lo fece dire due volte e si allontanò di fretta, ma non prima di averle lasciato sulla
scrivania una lettera. La signorina Benuzzi se ne accorse quando ormai la ragazza era andata via,
prese in mano la busta e la riconobbe. La ripose distrattamente in borsa, dove ce n’erano almeno
cinque della stessa tipologia. Non aveva tempo per quelle sciocchezze, era sicura che sarebbe stata
l’ultima ad andare via dall’ufficio anche quel giorno, il primo dopo le ferie.
Il suo stomaco brontolava, la cattiva digestione contribuiva al suo carattere umorale e a metà
mattina aveva già perso gran parte del suo entusiasmo di inizio giornata. Aveva un appuntamento
per pranzo, guardò l’orologio più volte sperando che il tempo scorresse più veloce e rimase in
ascolto di quello che accadeva nel corridoio. Dopo aver passato ore con la testa grigia sulle carte,
con le mani che grattavano la scriminatura dei capelli arrossata dai trattamenti del parrucchiere,
producendo un leggero tintinnio dei bracciali, si accorse che uno strano scalpiccio proveniva
dall’esterno del suo ufficio. Bisbigli e tacchi come di un capannello di persone appostate lì fuori
improvvisamente erano impossibili da ignorare, anzi, riempivano il vuoto del corridoio, moderno
come tutto l’edificio, gettandola in uno stato d’agitazione a lei incomprensibile. Per distogliere la
mente da quei rumori insoliti piano piano si concentrò sul mare della Grecia e sui luoghi che aveva
da poco visitato.
Gli scogli aguzzi pungevano il mare in un continuo tira e molla, era piacevole il vento che la
scompigliava sotto al cappello. I suoi compagni di viaggio erano rimasti in barca, mentre lei si
godeva qualche ora sulla terraferma, i piedi ben piantati e l’abbronzatura sempre più marcata.
Un gruppetto di bambini giocava tra i sassi e le pozzanghere abbandonate dalle onde, i retini in mano e
le gambette scattanti verso nuove avventure. Erano chini su un secchiello, il sole strideva del suo
consueto silenzio accecante, le ombre allungate sulla pietra nera. La signorina Benuzzi non aveva
mai desiderato figli, ma non per questo era insensibile a quelli degli altri. Li osservava con
benevolenza, quando uno dei bambini prese in mano una grossa conchiglia arancione e se la portò
alla bocca, strappando la creatura che la abitava con i suoi dentini bianchi e risucchiandola
rumorosamente. Gli altri pizzicavano le conchiglie con degli stecchini, e qualcuno aveva in mano
un granchio a cui stava staccando a una a una le zampe che si dimenavano. Il carapace, privato delle
zampe, era stato poi infilzato in un bastoncino, a sua volta ficcato in una fessura dello scoglio vicino
a decine di altri carapaci che avevano subito lo stesso trattamento. La signorina Benuzzi si era
alzata immediatamente, disgustata da quello spettacolo tribale e intontita dal calore del sole sopra la
testa.
Fuori dalla finestra i robot tagliaerba ronzavano nel prato, il cielo era di un grigio sporco e
omogeneo, faceva caldo. Avendo ritrovato la calma, riprese a scrivere al computer, quando si
accorse di essere in ritardo. Uscì dalla stanza trafelata, sorpresa di vedere fuori dalla porta un
gruppetto di persone che avevano un’espressione preoccupata. Le salutò cordialmente e si
incamminò verso l’uscita. Mentre passava la tessera per aprire il cancello, un’ombra le sorvolò la
mano, tirandole fuori uno strillo. Era una grossa libellula blu, la scacciò via come si fa con un
calabrone.
Di ritorno dopo il pranzo, la sua tessera venne rifiutata più volte da un segnale rosso. Riprovò con
insistenza, sentendosi improvvisamente smarrita. Si ricordò delle lettere ricevute, del premio a
forma di barca a vela e dei suoi alberi taglienti e acuminati, rivide in un istante le sue mani lanciarlo
sulla testa di un impiegato, ma subito allontanò il ricordo, qualcosa doveva essere successo ma il
suo istinto le diceva di non dare troppa importanza a certe visioni e sua madre le aveva insegnato
che la ricetta per la felicità è la scarsa memoria. Doveva esserci un errore, non c’era altra spiegazione.
Chi si credevano di essere? Pensavano di mortificarmi, lasciandomi qui fuori con la tessera in mano? Non possono impedirmi di entrare. Dev’esserci per forza un errore, un errore bello grosso. Ma certo, forse manca l’elettricità, c’è un blackout, un cortocircuito. Questo non vuol dire che io non possa riprovare, oggi è andata così. Se non è oggi sarà domani, sarà di nuovo nel mio ufficio, e di nuovo lascerò la scrivania quando sarà buio, per ultima, sarò ancora una volta io a chiudere la baracca. Riprendendo controllo di sé, digitò il numero del parrucchiere, perché una mezza giornata libera non poteva essere sprecata.
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