A cura di Laura Scaramozzino
Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?
Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.
Testo di Francesca Della Bona
Editing a cura di Laura Scaramozzino
C'era qualcosa dietro i suoi occhi — i suoi occhi morti. Forse era stato sommerso, un cadavere nell'acqua, prima di strisciare fuori. E adesso i suoi occhi somigliavano a quelli di un pesce o di un anfibio: resi pallidi dall'acqua che ne aveva lavato via il colore, opachi, come di nebbia. Avrebbero dovuto essere ciechi, eppure non lo erano.
C'era consapevolezza nel suo sguardo, ne era sicura. Durante la fuga, la caviglia le si era spezzata, e il dolore quasi l’aveva fatta vomitare e svenire, ma nonostante l'agonia, lo sapeva. Il suo fedele inseguitore – che l’aveva braccata nella foresta come fosse un animale, tormentata con dedizione – era uno di Coloro che Vagano nella Morte. Era morto, ma qualcosa viveva dentro di lui: un riflesso distorto, un parassita, forse una sorta di irriducibile speranza.
C’era consapevolezza nei suoi occhi. Non era soltanto un cadavere a cui una Sorella non aveva reciso in tempo il filo. No, c'era un’intelligenza fredda e crudele in lui, qualcosa di vivo che non avrebbe dovuto esserci.
Ma, naturalmente, niente di tutto ciò era possibile.
***
Avevano nascosto il bambino.
Quando lei e la Madre entrarono al villaggio, dopo giorni di cammino, con la polvere addosso e la stanchezza che appesantiva le ossa, la Sorella aveva sperato di poter adempiere rapidamente ai doveri. Desiderava scendere da cavallo e sgranchire le membra intorpidite. Voleva cambiarsi d’abito, sfilare la tunica lisa e immergersi in un bagno. Erano pensieri futili, lontani dalla sacralità della sua missione, ma in fondo aveva sempre sospettato che, se non fosse stata una Sorella, sarebbe diventata una ragazza frivola.
Uno dopo l’altro, lungo le strade tortuose, si avvicendavano luoghi tutti uguali. A volte sorgevano vicino all’acqua, altre era la foresta a lambirli. A volte, l’ombra delle montagne impediva il sorgere del sole. Tuttavia, queste apparenti differenze svanivano nella monotonia del suo sacro compito, sempre simile a sé stesso. La Sorella doveva recidere il filo, la Madre doveva vegliare e proteggere. E poi, insieme, ripartivano.
Questo villaggio non era diverso dagli altri, a scrutarla gli stessi occhi stanchi, persi in volti scavati dalla fatica. Le grandi città, ricche e opulente, godevano del loro tempio gremito di Sorelle, ma non questi piccoli centri, sparsi sulla mappa come macchie d'inchiostro. Qui una Sorella errante doveva giungere periodicamente, accompagnata dalla propria Madre, amministrare i fili da recidere, sciogliere la matassa della morte e rimettere tutto in ordine prima di ripartire.
Il capovillaggio l’accolse venendo loro incontro sulla strada, offrendo alla Sorella del cibo – e per un momento, uno dei suoi uomini esitò di fronte alla grande figura della Madre, incerto se offrire pane, formaggio e vino anche al guardiano in armatura. Ma dentro il mistero del metallo, la Madre aveva tutto ciò di cui necessitava.
Il dubbio dell’uomo fu breve: porse le vivande alla Sorella, che le accettò con un sorriso. Consumò il magro pasto senza smontare da cavallo, continuando ad avanzare verso il centro del villaggio.
Diversi morti si erano accumulati tra una Sorella e l’altra, e già iniziavano a dare segno. Uno o due di loro avevano riaperto occhi ciechi sul mondo dei vivi. I loro denti gialli battevano, scandendo messaggi privi di senso.
Anche a questo era abituata: l’agitazione, la fretta, la paura nello sguardo degli astanti.
Ma anche allora, nelle casette dai tetti di paglia, non tutti erano disposti ad accettare di buon grado la sua ingerenza.
Avevano nascosto il bambino.
«Dove l’hai messo?» chiese il capovillaggio, che aveva accompagnato la Sorella alla casa incriminata.
La ragazza, che era una madre anche se il suo bambino era morto, scosse il capo in silenzio. Teneva gli occhi bassi, piangeva, mentre gli uomini del capovillaggio la tenevano per le braccia, inginocchiata davanti alla Sorella. Il guardiano in armatura incombeva sulla scena, ingobbito nella casetta appena sufficiente a contenerne la mole.
La casetta era stata perquisita, ma del piccolo cadavere non c’era traccia.
La giovane madre guardò la Sorella con disperazione. O almeno lei pensava che lo fosse. Era una cosa simile all’odio, senza nome.
«Ti supplico» disse.
La Sorella avrebbe voluto fuggire. Nascondersi dietro l’armatura del suo guardiano, chiudere gli occhi contro il metallo freddo, lasciarsi inghiottire. Allora, forse, avrebbe scoperto che cosa ci fosse dentro. A volte immaginava che la Madre – così come il Culto chiamava i colossali cavalieri che custodivano ogni Sorella – fosse una madre per davvero. Altre volte, invece, immaginava che il guardiano potesse essere tutto ciò di cui aveva bisogno.
La Sorella aveva sempre potuto contare sulla forza della Madre, senza dover racimolare la propria, modesta nel corpo esile. Tuttavia, esisteva una forza che doveva comunque possedere. Non quella stritolante del ferro, ma quella che il Culto aveva incoraggiato: la semplice forza della giustezza, la certezza della ragione consacrata mentre tutti gli altri avevano solo il torto, bisognosi che quella ragione venisse dispensata sulle loro teste chine.
La Sorella sostenne lo sguardo feroce della giovane madre. Sembrava che avessero la stessa età. Erano due ragazze, separate da qualche passo e dall’intera fibra del mondo. Forse avrebbero potuto essere amiche, in circostanze diverse. Ma prese quel pensiero e lo uccise a mani nude.
«Lascia che aiuti tuo figlio» disse. «Non vuoi che trovi la pace e la salvezza? Vuoi condannarlo a Vagare per sempre nella Morte?»
La giovane madre emise un lungo lamento, come un conato. Se quel suono avesse avuto una forma, sarebbe stato un groviglio di spine.
Il bambino era nascosto in un’intercapedine nel muro della piccola casa. Solo che non era più un bambino, bensì ciò che ne restava: la cosa in cui un bambino morto si trasforma, quella che tutti diventano senza l’ultima cura di una Sorella. Al buio, in uno spazio tanto angusto da costringere persino quel minuscolo corpo a piegarsi in modi che, da vivo, gli avrebbero provocato un dolore insopportabile, ma che adesso suscitavano solo un muto sgomento in chi lo guardava.
Si muoveva debolmente. La Sorella notò che le sue dita tremavano come se stessero pizzicando corde invisibili. Gli spasmi dei morti non avevano alcun significato, né i loro sussurri. Eppure avrebbe potuto inventare che fosse così, solo per stavolta. Poteva chinarsi sull’orecchio della giovane madre e versarvi dentro una bugia. Nessuno l’avrebbe saputo. La Madre, sigillata dentro l’armatura, non avrebbe fatto la spia.
La giovane venne trascinata fuori tra gli strepiti, mentre si dibatteva nella stretta degli uomini. La Sorella, per un momento, pensò che non era giusto. Se il mondo fosse stato giusto, la madre sarebbe diventata forte, più forte di qualunque cosa, perché potesse proteggere il figlio – il suo piccolo, anche se era morto. Ma quello era un pensiero blasfemo. Se la Sorella Maggiore ne avesse sospettato l’esistenza – su al tempio, quando era bambina tra le sue pietre grigie, insieme alle altre novizie –, le avrebbe ustionato la lingua col piatto di una lama arroventata.
La piccola madre non ricevette alcuna forza prodigiosa, e la portarono via insieme alle sue urla, per metà suppliche e per metà maledizioni.
La Madre, invece, rimase lì con lei, in silenzio; incombeva immobile alle sue spalle, presenza rassicurante, ombra perpetua.
La Sorella si scostò di lato e indicò. La Madre mosse passi pesanti sul pavimento di legno. La sua mole nera s’ingobbì sul buio, mentre allungava il braccio all’interno e ne estraeva il corpicino con la mano di ferro.
La Sorella indicò ancora, e il guardiano eseguì, lento ma sicuro, cullando il bambino con delicatezza insospettabile. Lo adagiò sul giaciglio nell’angolo e rimase a vegliarlo.
Mentre lei recideva il filo.
Terminò i suoi doveri al tramonto, con i muscoli in fiamme e due spilloni conficcati dietro gli occhi. Le venne messa a disposizione una stanza nella dimora del capovillaggio.
La Madre rimase a sorvegliare la porta mentre lei, terminata la cena, si spogliava per immergersi nel bagno che la moglie del capovillaggio aveva preparato, prima di lasciare la stanza in tutta fretta, ricurva tra preghiere sussurrate.
Il capovillaggio aveva un figlio, a cui non era stato permesso di restare sotto lo stesso tetto con lei. Si incrociarono brevemente mentre lui lasciava la casa per trascorrere la notte altrove. Aveva gli occhi fissi a terra, ma osò lanciarle uno sguardo fugace mentre si passavano accanto, mantenendo una rispettosa distanza. Forse lei l’aveva solo immaginato, ma le gote di lui sembravano arrossate, e le aveva rivolto un sorriso, quasi timido. Era giovane e bello.
Nella tinozza, rimasta sola, pensò a lui.
Appoggiò la nuca al bordo di legno. Le travi del soffitto sfocarono per poi tornare nitide mentre si toccava con dita leste, le stesse dita con cui officiava i riti sacri.
Sospirò. La Madre spostò impercettibilmente il proprio peso davanti alla porta, ma non abbandonò la guardia.
Lei sbatté le palpebre lentamente, per scacciare la nebbia dell’abbandono, e ne vide emergere la nera sagoma familiare.
Aveva fatto un pensiero, che a volte si riaffacciava – uno dei pensieri per cui lo spettro della Sorella Maggiore era solito punirla: il Culto chiamava Madri i guardiani, nonostante il loro aspetto ben poco materno, affinché loro, le Sorelle, non indugiassero in pensieri sporchi su che cosa si celasse dentro l’armatura.
Come se anche immaginare una donna non potesse lenire certe solitudini. L’aveva provato immersa in un’altra tinozza, molto tempo prima, oppure distesa sotto coperte ruvide che pungevano la pelle nel dormitorio troppo affollato. All’epoca la Sorella Maggiore aveva messo a tacere il pettegolezzo, ma lei sapeva che due Sorelle erano scomparse all’improvviso quand’era novizia perché erano state scoperte mentre trovavano consolazione l’una nell’altra.
E comunque, anche se la Madre si chiamava così, lei aveva ceduto all’immaginazione più ripugnante. Dopo non si sentiva bene. Ma il guardiano era la sua unica compagnia, il suo unico amico – sebbene si rendesse conto che quella fosse un’approssimazione dell’amicizia. Come quella della Sorella era solo un’approssimazione della vita. Forse anche lei era uno di quei cadaveri che amministrava, in attesa che qualcuno tagliasse il suo filo.
Quando si sdraiò, il sonno continuava a sfuggirle.
La notte sognò di stringere al seno un bambino. Lo stava allattando. Era il suo bambino e lei lo amava, e l’amore che provò era vero, sebbene scaturisse da un sogno.
Il bambino aprì gli occhi e lei vide che era morto.

immagine generata da IA a partire da stralci di testo
L’indomani partirono prima del sorgere del sole, nell’ora azzurra e solitaria che le apparteneva, quando ogni cosa dormiva, e il mondo appariva gentile. Per quel tempo, breve e dolce, era indulgente con sé stessa e si concedeva illusioni.
Si lasciarono il villaggio alle spalle, la Sorella in groppa al cavallo e la Madre dappresso, sua ombra instancabile. Presto il loro cammino li avrebbe condotti al prossimo centro abitato e poi a un altro ancora. Le si sarebbero tutti confusi nella mente, come succedeva sempre, e lei non avrebbe più dovuto pensare alla giovane madre e al suo bambino morto. Fili da districare, fili che un tempo erano stati strettamente intrecciati, fili che andavano tagliati.
Senza il Culto, tutti i popoli della terra sarebbero stati mille volte sommersi dai cadaveri dei loro morti, e Coloro che Vagano nella Morte avrebbero errato mille volte eterni tra i viventi, trovando pace mille volte mai.
Doveva ricordarsi quei versetti mandati a memoria quando era novizia, quando le mura grigie del tempio erano l’unico orizzonte che conoscesse, tenere a mente i sacri precetti quando la sua risolutezza vacillava e il suo carattere – incline alla debolezza – tentava di riemergere. Ma niente di corrotto poteva sfuggire all’amore del Culto, un oceano senza fondo dentro cui affogare.
Adesso i suoi occhi si posavano su paesaggi mutevoli; la natura, l’ingegno degli uomini le offrivano spettacoli che mai avrebbe potuto immaginare – eppure le mura grigie del tempio erano sempre lì.
La foresta divideva in due la mappa, profonda come il mare, quasi altrettanto vasta e inesplorata.
Trovarono un tronco caduto a sbarrare loro il cammino. In quell’abisso verde, avrebbe potuto essere la carcassa abbandonata di una creatura delle profondità. Ma c’era qualcosa di strano. Non era stato il vento ad abbatterlo, bensì un taglio preciso e deliberato: una mano umana.
Dalla muraglia sussurrante emersero uomini che si fingevano ombre, con lame ghignanti strette nei pugni.
Il cavallo s’impennò e lei cadde nell’erba. Ebbe appena il tempo di avere paura.
Le sovvenne un ricordo del suo peregrinare. Era stato durante le celebrazioni del Giorno dei Morti, in una notte di falò, vino speziato, risate nascoste dietro le dita. Le avevano riservato il posto d’onore e presentato una bambola di porcellana vestita come lei, con gli abiti del Culto, insieme a un piccolo cavaliere: una copia perfetta della Madre, un automa mosso da un delicato meccanismo di ruote dentate che gli consentiva di muoversi al suono della musica. Avevano fatto danzare l’automa per lei e lei aveva battuto le mani.
La Madre si mosse con la precisione di un automa, il cui meccanismo non prevedeva altro che morte, e lei si coprì gli occhi.
Quando l’ultimo brigante tentò di fuggire tra gli alberi, la Madre estrasse il coltello dalla schiena di un altro e lo scagliò con impassibile accuratezza. La lama fendette l’aria e centrò la nuca del superstite, che crollò a terra.
Quando finì, i passi lenti del guardiano lo condussero al suo cospetto. La sporcò di sangue mentre le mani di ferro la stringevano con dolcezza, riservandole un unico tocco gentile. Com’era possibile che fossero le stesse mani?
La Sorella lasciò che la Madre la sollevasse e ripensò alla bambola di porcellana, immobile mentre l’automa danzava attorno a lei.
Dopo, si inginocchiò accanto a ogni cadavere e, tremando, ne tagliò il filo, attenta a non fissare.
La foresta continuò.
Nel sonno, sentì la Madre muoversi. I resti del fuoco illuminavano fiocamente la radura, ancora simile a un sogno tra le ciglia. Ma la Sorella si tirò su e dimenticò il tepore delle coperte che l’avevano avvolta, dimenticò la pace, mentre il sangue le tremava nelle vene.
Il guardiano si era sollevato e fronteggiava immobile le pallide colonne oltre cui finiva il mondo.
La foresta taceva.
La Madre fece un passo in avanti e si bloccò. Mosse un altro passo e si arrestò di nuovo. Sembrava titubante. Il meccanismo perfetto si era inceppato. Era qualcosa che la Sorella non aveva mai visto.
Dagli alberi scivolò fuori una sagoma, il terrore le fece dolere la carne e la fiaccò come se avesse compiuto uno sforzo disperato.
Era un uomo, ma non aveva armi come i briganti. Era vestito con le pelli di un cacciatore e del viso era visibile solo una striscia sottile, laddove occhi incavati fissavano. Lei vi guardò quasi precipitando e vide che erano vuoti. Le pupille non erano altro che buchi nei suoi occhi, buchi dentro cui cadeva la luce, che si rifletteva sul fondo bianco del cranio.
Erano gli occhi di una cosa morta.
La Sorella spalancò la bocca, ma dalle labbra le sfuggì solo un lamento.
Il cacciatore tracciò un gesto a mezz’aria, la mano scavò nel buio lasciandosi dietro una scia, e la Madre cadde in ginocchio nelle braci morenti, sollevando scintille. Il cacciatore attraversò la radura col passo lento di un lupo finché non fu di fronte alla Madre; anche così il guardiano era alto quasi quanto lui, la sua mole resa inerme.
Quello che lei vide dopo non aveva senso.
Il rituale era corretto, ogni singolo movimento, antico e potente. E Il cacciatore recise il filo, ma non c’era alcun filo da recidere.
La Madre ebbe uno spasmo. Il ferro gemette e l’armatura nera crollò a terra. Il suo difensore, la sua ombra custode, non si mosse più.
Solo allora la Sorella riacquisì il controllo delle proprie membra. Fuggì via e lasciò una scia di lacrime per il cacciatore.
E lui le diede la caccia.
Quando la prese, infine, gliene fu quasi grata.
Era stanca. Voleva che finisse.
Incombeva su di lei, e la Sorella ricadde nel vuoto delle sue pupille. Tentò di arrampicarsi fuori da quel fosso, con le unghie, scalciando, ma qualcosa di inesorabile la trascinava dentro. Quella cosa ancora viva, viva nella morte, e che la odiava.
Pianse senza emettere suono, strisciò all’indietro tra le foglie per sottrarglisi, ma la mano del cacciatore scattò e le afferrò la caviglia rotta, strappandole dalle viscere un grido dilaniante.
Strinse, solo leggermente, e lei si contorse sotto di lui, annegando, sentendo le ossa diventare denti, lame, fuoco nella carne.
«Ti prego…» sussurrò.
Il suo aguzzino non batteva le palpebre. I suoi occhi morti non smisero di guardarla. Con la mano libera affondò un dito a uncino sotto il fazzoletto che gli celava il viso e lo abbassò lentamente.
La stoffa rivelò quel che c’era sotto.
Lei chiuse gli occhi, ma era troppo tardi.
Non c’era alcuna preghiera per quello, tantomeno la preghiera di una Sorella. Il Culto non arrivava fin lì.
Esistevano in segreto come sul fondo del mare, nel cuore oscuro della foresta. Tra rovine sommerse dagli alberi, nascoste e dimenticate.
La fissavano, in attesa negli anfratti di quelle architetture perdute. Occhi vuoti, occhi morti. E tuttavia c’era vita in essi, di un tipo sconosciuto, impossibile.
Forse stava delirando. Dopo il tocco del cacciatore, la febbre l’aveva consumata per giorni, settimane, mentre si inoltravano nella foresta. L’unica luce che riuscisse a filtrare era grigia e remota come un fantasma; la caviglia le era diventata nera, morta, ma non faceva più male.
Sognò la Madre che si toglieva l’elmo e rivelava quel che c’era sotto. Lei aveva chiuso gli occhi, ma era troppo tardi. Aveva visto…
Sognò il cacciatore che le parlava, scostandole i capelli per bisbigliarle all’orecchio, e la sua voce era un brivido dentro le ossa. Non vuoi che trovi la pace e la salvezza? Vuoi condannarlo a Vagare per sempre nella Morte?
Quando il cavallo si fermò, al centro di quello strano villaggio, gli abitanti iniziarono a uscire lentamente dai loro nascondigli. Vagavano nella Morte, tutti loro. Alcuni erano morti di vecchiaia, sottili e tremuli, altri nel fiore degli anni, i corpi che conservavano una parvenza di vigore. E poi c’erano bambini. Uno di loro barcollò tra le foglie secche fino al cavallo, che rimase tranquillo; il cacciatore lo governava con mano ferma, seduto dietro di lei sulla sella. Il bambino allungò le mani verso la Sorella battendo i denti e le toccò l’orlo della veste con le punte delle dita. Emetteva un debolissimo ansimo, o un sussurro.
Lei avrebbe voluto urlare, piangere, provare paura, provare qualsiasi cosa. Sentì il cacciatore smontare da cavallo. Le sue mani la guidarono e la sorressero mentre la prendeva tra le braccia senza sforzo.
La folla fece ala attorno a loro mentre lui la conduceva dentro una delle rovine, nell’ombra antica e diroccata. Un tempio, dedicato a qualcosa di cui non esisteva memoria. Dentro si muovevano come insetti piccole figure femminili. Si strinsero attorno al cacciatore per sfiorarla, accarezzarla, mentre lui la adagiava sull'altare che sorgeva immemorabile al centro dell’ampio cerchio di pietra.
Lei rabbrividì.
Le donne lo spinsero via con decisione. Il cacciatore indugiò per un attimo, il vuoto degli occhi fisso sulla Sorella, poi si allontanò. Le loro mani scheletriche le furono addosso. Le sfilarono le vesti sporche e logore, le strofinarono le membra intirizzite con unguenti balsamici, il cui aroma intenso le pizzicò le narici. Le accarezzarono le cicatrici sulla pelle fino a cancellarle. Le spazzolarono i capelli. Lei chiuse gli occhi.
Il sollievo la invadeva, tiepido come una lacrima. Le palpebre le si appesantirono. Una delle donne cantava. Un rantolo, come vento che soffia tra cose desolate. Ma era una melodia dolce, una ninnananna.
Prima di addormentarsi, nell’ultimo istante, capì.
Poi tutto scivolò via.
Rimase solo il tepore, la pace.
Stringeva al seno un bambino. Lo stava allattando. Era il suo bambino e lei lo amava, e l’amore che provava era più vero di qualunque altra cosa al mondo.
Il bambino aprì gli occhi e lei vide che era morto.
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