Racconto di Silvia Tebaldi
Illustrazione di Teresa Rosso
Editing di Lorenzo Vercesi
Nasce con l’anno nuovo, qualche minuto dopo la mezzanotte. La prima nata dell’anno in città. La sua sorella gemella, invece, è nata da mezz’ora, dunque l’anno prima. Negli anni che verranno, la madre dirà che il problema non è l’anagrafe, il problema è partorire.
Le chiameranno Emilia e Laura. E questa è la storia di Emilia: Emilia Delfini, Lia fin da bambina, Lia per tutte.
Che poi cos’è, essere una bambina. Mamma e papà, la bottega, i pomeriggi da zia Ida tra nastri e bottoni, presto a scuola da sole la Laura e lei - la Laura tra le due è quella bella, lei è l’altra - e poi con la Laura a casa di Monica, quelle case tutte uguali e di qua la piazza, la chiesa e la scuola; è giostre in piazza, i compiti, musica soprattutto. Cos’è l’infanzia: cose sciolte, una manciata di perline. Risate e pianti, gli adulti incomprensibili. E urla di là, come una stanza dentro il buio.
E poi l’adolescenza, il filo che unisce quelle perle. La bottega di alimentari di papà e mamma, la merceria di zia Ida - niente marito, niente figli - Monica che parla stretto con i suoi, il loro pane senza sale, la loro casa in quella schiera di case a due piani che chiamano villaggio dei marchigiani, operai in miniere di zolfo tra Ancona e Pesaro, miniere poi dismesse, e loro venuti qui - qui fuori Ferrara, qui verso il Po - a lavorare al polo petrolchimico.
Queste perle infilate, queste perle unite in una storia. Laura alle magistrali, Laura la bella anzi bellissima e Lia che sceglie il liceo, il bus che va in città, un’aula di cemento dove lei è soltanto una ragazza, non la gemella brutta di nessuno. Una ragazza magra, alta, con i capelli corti e un tascapane militare. E come una musica dentro.
Penso quindi esisto, dice il filosofo. Sono pensata, quindi esisto: sono nata femmina, dice Lia, se non sono pensata non esisto.
Fine anni ‘70 del ventesimo secolo. La musica è tv e radio, vinili e nastri, è teatri e concerti ma solo per chi può; è una scuola di musica in città, una scuola gratuita e Lia si iscrive. Ama solo la musica, la musica e la chimica. Studia e ci sono gruppi, assemblee studentesche, libri e mondi. Ci verrebbe anche Monica, a scuola di musica in città: ma i marchigiani, come chiama sua mamma e suo papà, i marchigiani sono due ossi duri.
E poi le vacanze estive, vacanze ma con due mesi in zuccherificio, a due passi da casa, i turni assieme alla Monica e sere di amici e amiche; e c’è una casa vecchia, una casa vuota in mezzo al nulla, suonano, stasera ci va anche Lia e tra gli altri c’è Fabio, il tipo che sta con Laura ma stasera Laura è rimasta a casa, domani ha l’orale di maturità. Stasera è il buio e gli altri, è il buio e Fabio che spinge Lia in un angolo, la preme contro il muro, prova a baciarla in bocca, a toccarle le tette. Lia gli molla una ginocchiata, una gomitata, un ceffone che esplode nel buio.
Il giorno dopo, in camera con Laura, dopopranzo. Adesso che hai fatto l’orale io te lo devo proprio dire, Laura, cosa è successo. Sai cosa ha fatto il tuo ragazzo, ieri sera.
E Laura non le crede, le dà della bugiarda. Le dice che se Fabio ci ha provato, sarà perché lei lo ha stuzzicato. O provocato. Le dice io non ti credo, Lia.
L’estate continua. Monica e Lia a fine turno, Monica con la bicicletta a mano. Non sale in sella. Ha lividi sulle braccia, un livido grosso sullo zigomo.
Sono nei guai, Lia. E no, non me la sono cercata. Fabio, quello di tua sorella. Mi ha presa con le brutte. Non sono riuscita a difendermi. Non dovevo andare là.
La colpa non è tua, Monica.
Ho fatto le analisi. Speriamo. Intanto, acqua in bocca con tutti.
Monica, ma a mia sorella qualcosa bisogna dirlo.
Questo dice Lia sotto il cielo agostano, sotto la volta o arco celeste, questo dice Lia nell’ora cremisi, nel tramonto che esonda fino alle mura, fin dentro il mito estense, tra torri e sparsi cascami del boom economico; alle loro spalle lo zuccherificio, più a nord il fiume, zanzare dappertutto. Perdonami, Monica. La Laura sta con lui, la Laura rischia, alla Laura qualcosa va pur detto.
Venti agosto, quasi sera, il foglio delle analisi in una busta stropicciata. Segno più, dice Monica. Sono nei guai fino alle orecchie.
Primo non dirlo in casa, le dice Lia. Se parli te lo fanno tenere. Seconda cosa, a Ferrara ci sono i consultori. Mia zia Ida ha un’amica ostetrica, oppure andiamo a Bologna. Meglio Bologna che di là dal Po. Terzo hai già compiuto diciott’anni, Monica, nessuno chiede il consenso ai marchigiani.
Grazie, risponde Monica torcendosi un riccio; grazie poi se ne va, a casa dei marchigiani è ora di cena e domattina alle sei si lavora.
E la mattina dopo, Monica non si vede. C’è il solito lavoro, tubi e barbabietole, ma Monica non c’è.
Lia finisce il turno e va a pranzo dalla zia Ida, come ogni giovedì; poi torna e davanti a casa c’è suo padre, il padre della Monica, sua madre. Monica è uscita prima dell’alba, Monica non è tornata a pranzo.
Non so, dice Lia ai marchigiani, non ho idea di dove possa essere. Sembrano più incazzati che preoccupati, o forse è il loro modo di parlare. Poi se ne vanno: dicono speriamo bene, dicono tornerà, dicono che Monica è mezza matta.
È il ventuno agosto 1980, e Monica non è tornata a casa. L’aborto è legale da due anni, nessuno ha ancora inventato i cellulari e Monica è sparita.
Torno dalla zia Ida, dice Lia a sua mamma: torno dalla zia Ida, ho lasciato un libro a casa sua. Invece è nella controra, nel sole nero del ventuno agosto, nel nodo in gola, nelle strade semideserte dove nessuno la vede pedalare in direzione opposta, attraversare il ponte sul canale, prendere verso Vallelunga e via, via fino alla casa vuota, eccola. La bicicletta di Monica contro il muro. Il buio dentro. Monica a mollo nel suo sangue.
Autunno 1980, ultimo anno di liceo.
Fabio ha cambiato zona. Laura ha trovato un altro ragazzo e un lavoro in ufficio.
Ciao, Monica. Il cielo si è richiuso su di te, su quel ventuno agosto, su quel che è stato. Qui fanno tutti finta di niente. Inventano un sacco di balle. Fai bene a dire la verità, mi ha detto la zia Ida: fai bene, quindi la pagherai.
Io da qui voglio andarmene, Monica. E non è con la musica, non è con la musica che ce la farò: la porterò con me, te lo prometto, ma la chimica è molto più efficace.
Gli anni dell’università passano in fretta. Laura si è sposata, Lia non va più a musica né in zuccherificio. Aiuta un po’ la mamma e la zia Ida, ma più che altro studia. Non le piacciono gli uomini, le donne nemmeno. Gli adulti non sono più così incomprensibili.
E poi la laurea, la mamma che le dice dottoressa, il papà in giacca e cravatta. Dottoressa in chimica. C’è il polo chimico a due passi e tu vai a stare a Milano, le dice.
Milano è la capitale della chimica, dice il marito della Laura. Milano è piena di industrie chimiche, e tu vai a insegnare a scuola.
Milano è una città piena di musica - teatri, auditorium, filarmoniche - e il lavoro è una supplenza annuale, le scuole tecniche, i corsi serali. È il tempo che passa. È una stanza dietro al Circolo Sempre Uniti, un negozio di dischi con le cuffie per ascoltare. È un luogo di nome Affori, casermoni e cascine, quartieri operai grandi quanto Ferrara.
Altri anni che passano, altre scuole. Una stanza solo un po’ più grande. C’è chi la chiama Emi, chi la chiama Lia e chi la chiama Emilia: Emilia Delfini, insegnante di chimica.
Niente marito, niente figli, niente viaggi esotici. Ogni tanto a Ferrara. Non fai figli, le dice sua madre; non fai i soldi, le dicono la Laura e suo marito. Lia non risponde e ride.
Milano è una città piena di soldi, una città piena di guai. Di guai nostri e di soldi in mani altrui. È certi giri in montagna, è un glicine davanti a casa, è una libreria di quartiere e una casa delle donne - scuola e consultorio - è un posto dove stare, insomma.
E ancora una musica dentro.
Anni che passano. Antropocene e capitalocene, dismissioni e guasti. Lia torna a Ferrara ogni mese, per Natale, d’estate a esami finiti. Mamma, papà e zia Ida sono ancora a casa loro, sempre più anziani, nella vecchia bottega c’è un parrucchiere cinese, lo zuccherificio ha chiuso e la Laura è a Roma, con un nuovo compagno e il figlio di lui. Due figlie femmine e neanche un nipote, dice la mamma. Due figlie femmine, tutte e due lontane.
Tempo che va. Tempo è venuto di uragani, di acque basse, di ghiacciai che si sciolgono e di incendi; tempo di acqua salsa nelle foci, di presagi, di capannoni in malora. Un tempo come un bacino carbonifero, qualche puro diamante in mezzo al nero. La mamma e il papà ora sono cenere, cenere sull’argine del Po. La cremazione non tocca l’anima, ha detto zia Ida a Laura e a Lia; e l’anima, lei, cosa ne sa.
Al funerale della mamma c’era anche Monica, Monica che tornò a Pergola dai nonni, che partì appena uscita dall’ospedale, al principio d’autunno, dopo l’aborto. Monica che perse un anno e studiò da sola poi il diploma, i marchigiani rientrati al paese, a Ferrara mai più: e poi il lavoro, e un posto tra Marche e Umbria dal nome strano. E anche lei come Lia - che poi si ritrovarono via internet - anche lei a suo agio da sola, a suo agio tra gente anziana e giovane, strana o straniera, purché senza la puzza sotto il naso. Anche lei incazzata e solidale, anche lei a godere di ogni istante. C’era anche Monica, quel giorno. Anche lei come Lia, con nessun dubbio che la vita sia questo - vivere, nulla di meno né di più.
L’età della pensione ce l’avete, ha detto la zia Ida a Lia e Monica. Erano lì in mezzo alla nebbia, attente a scansare il fango e le pozzanghere. Laura era ripartita il giorno prima. Zia Ida ha una giacca tra blu e antracite, con una spilla a forma di garofano.
Cioè siete due bimbe, ma la pensione l’avete maturata: voi mi aiutavate in negozio, e io vi mettevo giù dei contributi. Perché non state un po’ a casa da me? Non per farmi aiutare: per viziarvi, bimbe. Sarò anche vecchia, ma ancora faccio da me.
Attraversano la strada, di là c’è un bar aperto. La casa di zia Ida è oltre il canale, nella nebbia, nel vuoto. E prima c’è una strada che non c’era, o forse era un viottolo senza nome, e ora si chiama via Muddy Waters. Nessun nome mai fu più azzeccato, ha detto Monica in mezzo alla nebbia.
Silvia Tebaldi vive a Bologna. Per lavoro si è occupata di libri e manoscritti, di scrittura professionale e tecnico-giuridica, di documentazione biomedica e di fotografia.
Dopo il romanzo Vuoto centrale (Perdisa Pop, 2009), ha pubblicato nella collana 42Nodi di Zona 42 Quattro lune di Giove al Capo delle Volte (2021), Il lettore dell’acqua (2023) e I giorni del vuoto (2024). Alcuni suoi racconti e testi in versi sono presenti in antologie e in riviste online.
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