Call Sbagliata - Racconti | Corpicino
- rivistagelo
- 24 mar
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 31 mar
Testo di Mattia Grigolo
Illustrazione di Margherita Piovani (tempesta_elettrica)
Editing di Pietro Emiliani
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Ce ne andiamo_unghie.
La postura del corpo è una fotografia. Ricordo come se fosse ora: papà è seduto su una sedia di plastica, le cosce larghe, i piedi dentro gli zoccoli di legno, le unghie – dei piedi – macchiate, annerite, deformi perché tagliate di rado oppure mai. Sono artigli dentro gli zoccoli di legno. Sta fumando una sigaretta che è ormai un mozzicone, quasi sparisce tra le dita quadrate, pesanti – della mano. Le dita di mio padre sono parallelepipedi di carne, le unghie, quasi non esistono, spariscono, si annullano nella sede che dovrebbe contenerle, nemmeno fosse un contrappasso di carne e cartilagini, carne morta e cheratina. Resta carne viva, ma seccata dal sole della terra che abbiamo abitato fino a quel momento, che lui continuerà ad abitare, dalla quale io e mamma ci stiamo allontanando per sempre. Non torneremo mai più. Mamma lo urla a papà, lanciandogli una latta di acquaragia, non lo colpisce – lui comunque non si è spostato per evitarla. Mio padre sta fumando ma non ha tratti somatici, il mozzicone è una candela votiva, consumata, incastrata nel pongo del volto liscio, privo di occhi, fosse, rughe, dune, fessure o cavità, rilievi, denti. Schicchera la sigaretta nella nostra direzione, si accende, petarda una fiammata inutile quando atterra a due metri da noi. Ce ne andiamo, prendiamo la strada, mamma marciando, io appeso, trascinato dalla mano di lei.
Le sue unghie – lunghe ma curate ma anche spaccate dove sono state utilizzate per raschiare, annaspare, scrostare, senza colore ma con uno smalto trasparente opaco così mio padre non se ne accorge – mi entrano nel palmo, il dolore mi tempra, Dant Vulnera Formam, diceva il maestro di italiano: anche lui non lo vedrò mai più, ma non mi dispiace. Mamma stringe la sua mano nella mia minuscola. Le mie dita restano aperte, i tendini tesi, arrabbiati, congelati nonostante il caldo bollente. Io stesso sono particolarmente minuto, particolarmente magro, particolarmente basso, tendo a sparire. Nella foto di classe sono in prima fila, in piedi mentre le mie compagne, i compagni, sono accovacciate sulle ginocchia, mi confondo con la gonna bianca della maestra di matematica, perché anch’io vestito di bianco, i capelli di un biondo quasi albino.
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Prima di prima_denti.
Ho imparato a diventare eclissi. La prima volta è successo nei campi. Era con un suo amico, lo soprannominava il Vanni. Papà ci metteva sempre davanti l’articolo: Il Vanni. Io, allora, non sapevo chi fosse Mario Vanni, quello vero. Eravamo nei campi, papà diceva che c’era bisogno rimanessimo. Fino a quando, avevo chiesto io. Fino a sera. I campi respiravano, erano corpi nudi in inverno, erano polmoni, un torace che prendeva fiato, da sfoltire con il Landini. Papà aveva detto: quando i campi dormono, noi balliamo. Non avevo capito, non sapevo chi fosse Il Vanni, ma era lui a tenermi sulle spalle. Vieni ti porto in groppa. Gli annusavo i capelli, che avevano l’odore delle cantine. Papà dietro sul Landini, i fari accesi che illuminavano me, il Vanni e i campi che stavamo percorrendo. Nel cuore della campagna ci eravamo fermati. Lui mi aveva fatto scendere, ero smontato scivolando lungo la sua schiena e il suo odore. Papà aveva spento i fari del Landini, aveva spento anche il motore. Era sceso e aveva detto: ora balliamo. Si erano messi uno dietro di me, l’altro davanti. Era talmente buio, il cielo era talmente coperto, che dei due non distinguevo chi fosse lui, chi fosse Il Vanni, che avevo poi riconosciuto quando aveva abbassato i pantaloni, li avevano tolti, faceva freddo e sputavamo vapore, che mi sembrava ghiacciasse mentre era ancora intorno a noi, prima di evaporare o cadere a terra. Era senza mutande, aveva il cazzo minuscolo, una lumaca con un’enorme chioccia che era l’intero corpo del Vanni, torturata dal peso dei coglioni, che erano un tumore lanoso. Papà aveva detto: ora corriamo, e come fischioni – addirittura fischiando – si erano lanciati correndo nei campi, lasciandomi lì solo. Cercavo di distinguere le loro ombre, che si allontanavano nella stessa direzione e poi deviandosi come un incrocio, un’alternativa che io evidentemente non avevo. Guardavo le gambe secche del Vanni, il culetto glabro, la metà di uno spettro, la metà di un mistero. Restavamo io, il Landini, i campi che inspiravano inverno espiravano terra e falde. Passato del tempo, Il Vanni era tornato solo, ora completamente denudato. I fagiani mi hanno mangiato i vestiti, aveva detto. Andiamo sul Landini, aveva detto. Dov’è papà? L’hanno mangiato i fagiani. Il Landini ha un sedile solo e l’aveva preso Il Vanni. Mi aveva detto di salire e poi sedermi sulle sue ginocchia. Dentro l’abitacolo l’avevo visto sparire, restava acceso il suo sorriso, perché aveva steso una coperta sul parabrezza utilizzando mollette di legno che mi sembravano le mollette di mamma. Erano denti luminosi, denti perfetti perché impossibili da decifrare, contare, intuire. Erano finestre oppure piccole porte, di qua c’era la notte, di là l’estate, la mattina di Natale, il primo giorno di scuola, un pacchetto di caramelle, la partita di calcio, i cartoni animati, le figure di un libro. Sorrideva, Il Vanni. Avevo immaginato che il buio fosse caldo, perché fino a quel momento l’avevo visto solo attraverso le coperte, il materasso, camera mia. Ora il buio era Il Vanni, congelato, invisibile, senza ossa né forme vere. Aveva detto che per scaldarsi sul serio, bisogna essere tutti nudi e molto vicini. Aveva detto: la pelle vuole la pelle. Io avevo pensato ai fagiani che mangiavano papà, lo avevo fatto chiudendo gli occhi e quell’incubo aveva cancellato l’altro incubo. L’incubo vuole l’incubo. Quella era stata la prima volta. Con Il Vanni.

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Dopo di Prima_ corpicini.
Era successo molte altre volte: nei campi, nei boschi, durante una gita in collina, in casa nostra, in casa loro, in un bagno pubblico, nel retro di un Sali e Tabacchi, in Motel, dentro delle auto, nei sedili posteriori, anteriori, nel Landini. Papà aveva molti amici: Il Vanni, Ercole, Egidio, Saro, Matusalemme, Marco, la Piovra, Il Bistecca, il Cappellano, Davidone, Davidino, Larcher, Gianni, il Mister. Aveva anche qualche amica: Lucia, Annina, Esterina, La Nonna, Saro, Matilde, Lota. Avevo una tecnica per passare il tempo e il dolore fisico, la chiamavo tecnica incubo. Funziona così: gli amici e le amiche di papà si spogliano, mentre si spogliano prendono coraggio, prima magari bevono qualcosa, fanno uno spuntino, telefonano a qualcuno, guardano qualcosa alla Tv, parlano, in modo che questo li aiuti a superare il primo momento di imbarazzo o di paura. Qualcuno degli amici intanto prende la pastiglia per farselo venire duro. Lota e Annina si masturbano un po’ altrimenti restano secche. Quando sono tranquilli e tranquille, allora passano da me e mi spogliano, mi girano, mi penetrano in bocca e nel culo, mi usano per masturbarsi, per penetrarsi. La tecnica incubo inizia da prima. Quando parlano. Attraverso le loro parole io costruisco l’incubo che vuole l’incubo. Poi chiudo gli occhi e sogno e quando li riapro sono ancora dentro l’incubo e i loro corpi diventano corpicini. Corpi più striminziti del mio, più magri, più bassi, che tendono a sparire e alla fine scompaiono. Scompaio io e loro e non resta più niente. Funziona così: Annina aveva detto che era stata al Supermercato, che aveva comprato le cose per il marito e qualcosa anche per la nipote: le merendine che le piacciono tanto, anche se hanno dentro un po’ di liquore, che le fanno con il liquore anche se non si sente per niente, aveva detto. Allora avevo immaginato la bambina che mangiava tutte le merendine di nascosto, l’intera confezione, e si era ubriacata, con le merendine, e allora aveva cominciato a mangiarsi anche la plastica delle confezioni e il cartone che le conteneva, il sacchetto che le chiudeva. Aveva mangiato tutto, anche il tavolo, il piano cottura, la tazza del cesso, i tubi dentro le pareti, e i cavi che portano l’elettricità e allora, a quel punto, aveva preso fuoco, un’autocombustione che l’aveva portata all’esplosione. Davidone, mentre me lo teneva nel pugno provando a farmelo venire duro perché altrimenti non veniva duro nemmeno a lui, mi aveva chiesto com’era andata a scuola, se avevo mai parlato di lui ai compagni di classe oppure al maestro. Mi aveva detto che anche lui era stato un professore, tanti anni prima, in un Liceo – magari lo stesso Liceo che avrei frequentato io fra un po’ di anni – ma che l’avevano cacciato da quella scuola, da tutte le scuole, in realtà. E mentre mi diceva il perché era stato cacciato, avevo chiuso gli occhi e avevo immaginato la Preside che entrava in aula e diceva a Davidone di prendere le sue cose e andarsene e allora Davidone aveva iniziato a raccogliere i libri di testo e la prima edizione de La Montagna Incantata di Thomas Mann, che teneva nel cassetto della cattedra come una Bibbia. Aveva raccolto le sue cose e la Preside era ancora sulla porta, ad attendere che finalmente quel ciccione sparisse, la classe in silenzio, qualcuno dormiva con la testa fra le braccia. Il Davidone allora aveva raccolto tutto e per ultimo il tagliacarte che gli aveva regalato la moglie per i cinquant’anni, tagliacarte che usava per dividere in parti uguali i fogli protocollo al fine di raddoppiarli e non sprecarne. Aveva fatto per uscire dall’aula, ma prima di farlo, aveva conficcato il tagliacarte nella tempia della Preside, nel collo, nella guancia, in una spalla, nel seno. L’incubo era il loop del fermacarte infilato in ogni parte del corpo della Preside: bicipite, mano, ginocchio, stomaco, seno, in bocca, culo, lobo temporale – e infatti la Preside aveva in quel momento perso sia l’udito che la memoria – nel piede, in ogni dito del piede, e così via fino a quando Davidone non era uscito dalla mia stanza, dalla casa, dalla notte, dall’aula, dalla scuola. La tecnica dell’incubo aveva funzionato per anni, poi mamma ci aveva ripensato.
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Ce ne siamo andati_ gambe.
È per questo che stiamo andando via. Perché mamma non ce la fa più, non riesce a sopportare l’idea che questa cosa continui anche ora che devo cambiare scuola e nonno è morto e la casa non sarà più nostra e ci ritroveremo senza un posto dove stare e allora avremo bisogno di più soldi e papà mi chiederà di stare più tempo con i suoi amici, le sue amiche. Per questo ce ne siamo andati, perché a mamma andava bene fino a quando si tirava su qualche soldo in più, quando ci facevano i regali, un paio di volte la settimana, qualcosa nel week end se proprio non ero stanchissimo e non avevo dolori troppo forti. Ma così, no. Sono pur sempre un bambino, oltretutto sottopeso, non sono una di quelle bambole gonfiate con i buchi da scopare. Sono un corpo. Un corpicino che tende a sparire. Papà ci guarda andare, ancora seduto a gambe larghe. Ha sfilato una nuova sigaretta. Mentre mamma mi trascina via bestemmiando, lui trascina l’accendino fuori dalla tasca e le urla: tanto non ce la fai a stare senza e nemmeno lui ce la fa. Papà ha ragione, almeno per quanto mi riguarda. Non ce la faccio, e allora chiudo gli occhi, mentre camminiamo, mamma che mi trascina, e cerco di ricordare le volte peggiori: quella con il Cappellano in sacrestia, le candele accese e il fuoco sulla pelle, quella con Il Vanni, la prima, oppure quando Saro mi ha detto che voleva tatuarsi un altro record sull’avambraccio, quando il vecchio Matusalemme mi è morto d’infarto dentro il culo e papà non riusciva più a tirarlo fuori da lì, quando erano Davidone, Davidino, la Piovra e Il Bistecca tutti insieme. Ho ricordato e ho cominciato a sognare e l’incubo ha cancellato l’incubo di non poterne avere più, di un futuro lontano da tutti loro, solo con mia madre in un altro posto, via dalle campagne, non essere più desiderato, amato anche se solo per un attimo, non poter più parlare con loro che mi facevano sentire importante e immaginare le loro morti. Le unghie di mamma nelle carne del mio palmo, i suoi denti stretti a sbriciolarsi dalla rabbia e dalla paura di restare povera per sempre, mentre le nostre gambe vanno e il mio corpicino scompare ancora una volta.
BIO Vivo a Berlino, dove ho fondato una rivista che è morta, un magazine che è vivo e un hub culturale. Sono editor. Dirigo la collana Stormo di Pidgin Edizioni. Ho pubblicato tre libri.
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