top of page

Racconti | Frana





 

Testo di: Laura Scaramozzino Illustrazione di: Francesca Costa

 


*

Succede così, come al papa del quadro che si aggrappa al trono. Ho visto quel dipinto anni dopo, a New York, in una monografia dedicata a Francis Bacon. Quando accade, ogni cosa frana: smottano le pareti, l’armadio, le tendine ricamate. E il sole dietro le tendine arancioni. Tutto crolla, dentro e fuori. Non senti più niente, non ascolti più niente. Una voragine si apre qui, proprio sotto lo sterno. Il cranio si deforma e si sfrangia. La testa rovina sul corpo che si assottiglia. Sul volto si apre un buco. Il buco che butta via merda come dal culo più grande del mondo.

Non mi ero accorta che stessi urlando.


Mio padre blaterava sul fatto che ti fossi appena costituito. Big Ed, il gigante buono. Lo sbirro mancato perché troppo alto per entrare dentro una divisa standard. L’uomo che viveva con sua madre, correva in moto nei fine settimana e beveva qualche birra di troppo. Ed Kemper III, il guidatore paziente. Il figlio di Charnell e l’uomo dai mille mestieri. Il genio con il quoziente intellettivo di Einstein. Il mio ragazzo. Il Co-ed Killer: l’assassino delle studentesse.

Mi sono chiusa in camera e ho aperto tutti i cassetti. Non c’era nemmeno una foto per piangerti o per farti a pezzi. Avranno urlato come me le donne che hai accoltellato? Le studentesse del campus con i capelli lisci e la riga nel mezzo? Avranno visto franare il bosco, i tronchi scuri e l’aria azzurra di Santa Cruz? Non si urla per tanto tempo quando una lama colpisce: una, due, tre, quattro, cinque volte. Fa male, fa freddo. La voce cede alla nebbia sugli occhi, alla carne che frana. Dentro.

Papà ha bussato alla porta una, due, tre, quattro, cinque volte. Poi ha smesso.

Mi sono gettata sul letto. La pelle bruciava contro la federa del cuscino. C’è una poesia, ho ricordato, che parla di un cimitero sopra una collina. Ogni morto ha una tomba e una storia che lo racconta. Il corpo intero lascia un’impronta nel luogo in cui riposa. Le ragazze, che hai gettato nel bosco, erano solo resti sparsi. Un braccio da una parte, un torso dall’altra. Si può raccontare la storia di un piede? L’amore infelice di una mano mozzata? Affondo la faccia sul cuscino e mordo il tessuto che sa di glicerina e lavanda. Mi volto, sollevo le braccia e mi guardo le mani. Penso a quando ti accarezzavo la fronte sotto il ciuffo nero e sfioravo l’arco triste dei baffi. Odiavi le tue labbra sottili, perché le labbra non mentono mai. Si piegano verso il basso e dicono tutto. O quasi.



Illustrazione originale di Francesca Costa




Qualche tempo dopo il tuo arresto, ho letto sui giornali che cosa hai fatto a tua madre. Mio padre mi nascondeva tutto in modo distratto. Avrebbe voluto che dimenticassimo.

C’erano le tendine nuove alle finestre e un sole nuovo dietro le tendine. Ci eravamo trasferiti. Frequentavo il liceo cittadino. Nuova casa uguale nuova vita. E tu non esistevi più Avevo dimenticato lo sciabordio del mare, il desiderio che un giorno tu potessi toccarmi davvero. Le uniche donne che possedevi erano quelle a cui strappavi il respiro.

Prima di addormentarmi, sul mio nuovo cuscino, nel mio nuovo letto, dentro la nuova grande città, ho immaginato la scena. Tua madre ti urlava contro come se sputasse. Ogni singolo giorno della tua vita. Quando l’hai uccisa, le hai tagliato la testa e strappato le corde vocali. Che cos’è l’urlo se non una percossa? Aria, sputo, parola che buca e che ci affonda? Proprio qui, sotto lo sterno.


Quando stavamo insieme, sulla spiaggia di Santa Cruz, ti appoggiavo la testa sul petto grande. Qualche volta ti ho preso in giro per la tua altezza. Due metri e sei centimetri.


«Se fossimo su un’isola, tu saresti il faro».

Tu sorridevi e guardavi i bambini che correvano lungo la battigia.


Presto smetterò di cercare cose che parlino di te, del mostro, delle madri, dei padri, delle urla e delle dichiarazioni. Ricorderò la prima volta che ci siamo incontrati. La spiaggia grigia e oro sotto il sole del pomeriggio. Siamo rimasti in silenzio per un po’, senza sapere troppo, senza conoscerci quasi. Cercavi qualcosa, che fosse una pausa? Ci siamo seduti vicino, abbiamo guardato il mare che si scuriva e ho ascoltato la tua voce calma per tutto il tempo che ci restava.



bottom of page