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Racconti | Il castello


 

Testo di: Francesca Coppola Illustrazione di: *

 


*


«Fermati» disse.

C’era un bambino seduto sul marciapiede con i piedi nudi e le carte in mano.

In piazza Trieste e Trento era passata l'una, la movida napoletana faceva muovere fantasmi brilli. Io ero astemia ma avvertivo, comunque, una sorta di irrequieta insolvenza. Cosa ci faceva un bambino solo da queste parti a quest’ora?

«Fermati!» ripeté, questa volta avvertii quasi una preghiera. Avevo continuato a camminare sebbene non lo volessi veramente. Ero confusa, il bambino no. Girò subito la prima carta. Aveva un cappellino verde militare, di un tessuto leggero che assecondava oscillazioni da una parte e l’altra della testa.

«Signurí il castello!» disse seduto a terra e sospirò.

«Il castello non è buono. Mica ci credete alle fiabe? Il castello è sempre circondato da ostacoli e nel bosco le piante non sono tutte innocue». Lui continuava a improvvisare frasi, senza alcun senso per me e trasalii alla vista di un sigaro che di tanto in tanto portava dalla terra in bocca. Aveva uno sguardo adulto in un corpo piccolissimo e no, non era un bambino. Realizzai in quel preciso momento che fosse un nano. Non ero per niente interessata alle sue premonizioni per cui lanciai due euro nel piattino e avanzai di qualche passo.

«Aspetta, pensaci: non è per i soldi».

«E per cosa?» chiesi.

«Per il gioco» mi rispose calmo come può essere calma la pura follia. «Tu per cosa giochi?» continuò.

«Per la felicità» dissi d'impulso.

«No, sbagli»mi corresse. «La felicità è il fine. Tu per cosa giochi?» insistette ma io ero lontana dal capire la vera domanda. Risposi che non era importante visto che dio non credeva in me.

Dio aveva, di sicuro altri piani. C’era un destino scritto, da qualche parte.





Trasalii al suono di una voce conosciuta.

«Finalmente ti ho trovata Maria!» disse, stritolandomi in un abbraccio non richiesto.

«E tu da dove salti fuori?» Esclamai inorridita.

«Ho salvato Freddy, ti devo parlare».

Non ero molto convinta. Ventisei giorni prima avevo deciso di lasciarlo. Quando ci siamo sposati mi aveva promesso di portarmi a vivere in un castello. Naturalmente non ne vidi mai uno ma conobbi l’insofferenza per il suo colore. Era tutto grigio: la palazzina, il cortile, le porte. C'era il vento cinereo e le panchine pure. Lo stesso incarnato delle domeniche trascorse a casa dei suoi, delle lenzuola troppo pesanti per fare muovere i nostri corpi. Grigio era il suo sorriso quando ha detto che io o un'altra sarebbe stato lo stesso e anche la mia faccia dopo il primo pugno.

Ventisei giorni prima aveva preso il gatto e lo aveva messo nel frigo. Ce lo aveva infilato davanti ai miei occhi, aggiungendo che mi avrebbe congelata insieme a Freddy, se solo mi fossi azzardata a toglierlo da lì. “Chi ama gli animali non potrà essere mai cattivo” così diceva mia madre ed io ci avevo sempre creduto. Allora compresi che i modi di dire non potevano valere per sempre. E la mia fede non avrebbe salvato il bambino che portavo in grembo.

Mi girai per salutare il tipo dagli strani interrogativi ma non c’era nessuno.

«Destra o sinistra?» disse Federico.

Sentii un urlo provenire da lontano e scattai in piedi. Ero tutta sudata. La mia gola era abitata da un deserto e la lingua stentava a muoversi. Il letto era uno scenario di guerra: le tende macchiate di sangue come le mie mani. In posizione supina dormiva un uomo con diversi alberi disegnati sulla maglietta.







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