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Racconti | Il volere di Dio

  • rivistagelo
  • 16 giu
  • Tempo di lettura: 9 min




Testo di: Lavinia Benincampi

Illustrazione di: Teresa Rosso

Editing di: Yuri Sassetti e Arianna Cislacchi




 

La mattina faccio colazione con latte e cacao, ce lo prepara papà già in giacca e cravatta, pronto per andare in ufficio. Dopo devo lavare bene la bocca perché la divisa è bianca e blu. Ieri Marisa ha messo i calzini a righe rosa e suor Annunzia l’ha presa da parte davanti a tutti, l’ha portata nello spogliatoio della palestra e glieli ha cambiati con quelli bianchi e il logo blu. Credo che Dio odi il rosa. Appena arriviamo andiamo subito nella chiesetta per la messa delle 7.30. Il prete parla in latino e io so tutte le preghiere. La suora ci interroga durante l’ora di religione. La mattina peggiore arriva l’ultimo giorno prima delle vacanze di Pasqua, perché bisogna dire il rosario contando le palline. Una noia mortale. A volte mi viene voglia di saltarne qualcuna e fare prima ma poi ho paura che Dio si arrabbi. Dopo la messa iniziano le lezioni, si parla di lui anche durante l’ora di scienze. L’altra mattina suor Annunzia ci stava spiegando che la Terra gira intorno al Sole, e non viceversa, come invece pensavo io. Quando Marisa ha chiesto perché il Sole facesse questa cosa, lei ha risposto che l’ha deciso Dio. Mia sorella è considerata a pieno titolo la più bella della classe. L’hanno eletta i maschi su un foglio in cui hanno scritto la classifica di tutte le bambine. Io sono seconda. Io e Marisa siamo gemelle, anche il suo primo posto deve averlo deciso Dio. La scorsa domenica, mentre la signora Teresita ci pettinava per andare a messa, l’ho guardata bene davanti allo specchio. Ho fatto il gioco che c’è sulla settimana enigmistica di papà, quello in cui bisogna trovare le differenze. È stato molto frustrante. Marisa ha i capelli più biondi? Il naso più piccolo? Meno lentiggini? Non so, a me pare che siamo più o meno la stessa persona. Quando ho letto la classifica dei maschi, volevo chiedere a Vincenzo se anche per lui Marisa fosse la numero uno. Quel giorno però stava male, perché annaspava un po’. Lui vive con dei tubicini di plastica infilati nel naso, che sono attaccati a una strana scatoletta grigia che trasporta con un carrellino. So che è una cosa brutta. Quindi era meglio non chiederglielo. Quando Teresita è venuta a prenderci, l’ha visto e gli ha detto di pescare una caramella dalla sua borsa. Io ho accettato di buon grado, Marisa invece si è ingelosita e ha detto: «E a me?». Allora Vincenzo le ha dato la sua caramella. È stato orribile. Camminando verso casa ho chiesto a Teresita perché Vincenzo avesse i tubicini e lei ha detto che solo Dio lo sa.

Dopo la scuola, per un po’ possiamo non pensare a Dio: sono i momenti in cui si gioca. Io e Marisa vestiamo le bambole sedute sul pavimento in camera da letto, le abbiamo tutte uguali. Papà ne compra due di ogni tipo. Noi però gli cambiamo i vestiti e facciamo a gara a chi la rende più bella. Marisa si autoproclama vincitrice ogni volta, anche quando io alla mia metto l’abito da sera. Siccome lei è più bella di me, lo sono anche le sue bambole, e io lo accetto come una cosa che le spetta e non lotto neanche. Quando Marisa fa lezioni di piano, però, la mia bambola diventa in automatico la più bella perché la sua rimane nuda e brutta. Papà fa suonare il piano di mamma a Marisa perché la prima volta che abbiamo fatto lezione io sono stata un disastro, mentre lei si è impuntata e dopo poco era già brava. Io ho lasciato perdere e uso le ore del piano per avere la stanza tutta per me e la bambola più bella. Sono i miei momenti preferiti. Verso sera, quando inizia a far buio, lui torna. Prima di cena diciamo tutti insieme la preghiera per ringraziarlo perché noi mangiamo e altri bambini no. Dopo aver lavato i denti e posizionato le pantofole in modo esatto perché mi ci caschino i piedi al mio risveglio, devo dire le preghiere. Ho creato un altarino sul mio comodino: ci sono la statua bianca di una madonnina, un santino con padre Pio che mi ha dato Teresita e una scatolina con degli angioletti sopra dove dentro tengo il rosario. Mi inginocchio davanti l’altare e inizio. Prima devo parlare con lui, a tu per tu, e chiedergli le cose importanti: la fine delle guerre e il cibo per tutti; dico il Padre Nostro, a casa mia lo faccio in italiano perché penso che mi capisca meglio così. Dopo parlo con Maria, a lei posso chiedere cose meno importanti, che però mi interessano di più: che papà e Marisa siano felici e che non abbiano mai malattie. Così dico l’Ave Maria. Poi prego per me, parlo con l’angelo custode e gli chiedo come ogni sera di farmi crescere brava, buona e bella. Alla fine parlo con mamma, le chiedo se mi vuole ancora bene e se anche in cielo fa i puzzle che facevamo qui. Recito l’Eterno Riposo e finalmente posso dormire sperando che a Dio basti e che non se la prenda con me.

 

È il giorno del nostro compleanno, papà ci fa fare colazione con i cornetti al cioccolato al bar. Ci fa anche immergere un cucchiaino di zucchero nel suo caffè e poi leccarlo. È molto buono e lo chiamiamo il moretto. Lo ha inventato la mamma.

A messa non dico neanche una preghiera, tale è l’eccitazione. Muovo solo la bocca. In classe le amiche ci fanno le feste e suor Annunzia ci fa mettere davanti alla lavagna. Tutti ci cantano “Tanti auguri” e io mi sento felice. Il motivo della mia felicità è Vincenzo. Il giorno del compleanno suor Annunzia fa scegliere al festeggiato dove si vuole sedere e possiamo farlo anche accanto ai maschi. Non è che di solito sia proprio vietato, solo che i maschi stanno sempre con i maschi e le femmine con le femmine. Così quando suor Annunzia ci dice che possiamo sederci io vado da Vincenzo, faccio alzare il bambino vicino a lui e mi ci siedo io. Marisa invece si mette all’ultimo banco da sola, perché lì può dormire. Vincenzo mi fa gli auguri e io lo ringrazio, fiera e sorridente. Seguono due ore di tabelline in cui tutti sembrano essersi scordati di noi. Stare vicino a lui mi fa sentire grande, come se fossi la mamma quando metteva il cappotto bello per andare al concerto con papà. A ricreazione Marisa viene da noi per chiedermi la merenda e lui si alza e le si piazza davanti. Poi si piega, prende una cosa dallo zaino e gliela dà. È una scatola di caramelle con un fiocco rosa. «Per te», le dice.

Il resto della mattina trascorre come se nulla fosse - come se la mia vita non fosse rovinata - e faccio del mio meglio per accettare il mio destino. Nell’ora di disegno, a tema libero, decido di copiare a memoria il quadro con Gesù crocifisso della chiesetta. Faccio tutte le spine conficcate nel corpo e i chiodi sui piedi. Intorno coloro un cielo azzurro e faccio partire dei raggi di luce dalla sua testa. Ai disegni dobbiamo dare un titolo, io lo chiamo: Il volere di Dio.

 


A casa Marisa mette il vestito bianco alla sua bambola, le pettina i capelli in una coda e le mette le ballerine. Poi mi guarda e mi dice che domani alla nostra festa vuole vestirsi così. Si alza e va in camera di papà, io la seguo. Apre l’armadio dalla parte di mamma, le sue cose sono lì nel cellophane. Tira giù una stampella, toglie la copertura e prende la camicia bianca che lei indossava in campagna. «Metterò questa», dice. A lei sta lunga come un vestito. Io mi arrabbio, le dico che non può prendere le sue cose. «Mamma è morta», dice. «Lo so», le rispondo. «Ma non c’entra.» Marisa mi ignora come fa sempre, si spoglia e se la mette. Purtroppo è bella. Io, anche volendo, non avrei mai aperto l’armadio di mamma, per niente al mondo. Le dico che la camicia le sta grande, che non va bene per la festa. Marisa si guarda nello specchio dell’armadio, lo stesso in cui si guardava la mamma e dice: «Sembro lei, non è vero?»

Sembra lei in un modo che mi spezza il cuore.

A letto, dopo aver detto le preghiere, sento Marisa ridacchiare sopra di me. «Cos’hai da ridere?» «Domani mi fidanzo.» Non capisco quello che dice. «Hai visto che Vincenzo mi ha fatto un regalo?» «Sì.» «C’era questo nella scatola» Mi volto di lato e vedo il braccio di Marisa che penzola dall’alto del nostro letto a castello per passarmi un foglio. Lo apro come quando apro il compito di matematica che mi dà Suor Annunzia con la faccia delusa. Vincenzo le ha chiesto di fidanzarsi, e poi ha disegnato un quadratino con il sì e uno con il no, e Marisa ha già messo una X sul sì.

Non riesco a dirle niente. Le ripasso il biglietto e mi volto verso il muro. Chiudo gli occhi, mi accovaccio e mi faccio piccola piccola. Penso a Dio, gli vorrei parlare. Faccio il segno della croce, ma non appena inizio a dirgli qualcosa mi si svuota la testa. Piango silenziosamente, prendo il rosario dalla scatolina e lo stringo forte al petto. Con questo gesto sono sicura che qualcosa cambierà, anche se non so cosa.

 

La festa è nella nostra casa di campagna. Era dei genitori di mamma, anche loro sono morti. Teresita si è svegliata di buon’ora per cucinare un mucchio di cose e per fare la pasta della pizza che ora sta lievitando sotto un fazzoletto sul tavolo della cucina. Sto facendo colazione, verranno tutti a mezzogiorno. È una bella giornata di sole, le tamerici in giardino si muovono lente e il cacao sa di buono. Di tutte queste cose non me ne importa un fico secco. Penso a quando Vincenzo arriverà e Marisa le darà il biglietto e si fidanzeranno qui, magari proprio seduti al tavolo dove sto bevendo il latte. Appena la vedo comparire, già nella camicia bianca della mamma, le ballerine rosse, la coda come quella della bambola, sento dolore. Per un attimo mi arrabbio con Vincenzo perché mi fa odiare mia sorella. Cosa gli cambia tra me e lei? Perché non può scegliere me? Forse perché lei sembra la mamma? Non so come mai faccio questo pensiero e lo scaccio subito perché mi ammazza. 

 

La prima ad arrivare è Clara, la migliore amica di Marisa. Ci dà subito i regali: a me un pupazzo medio-grande di Winnie the Pooh, che in effetti io adoro, a lei un hula hoop fuxia. Ha portato anche il suo e le dice di andare in giardino a fare una gara a chi lo fa ballare per più tempo sui fianchi. Mi chiedono se voglio venire e rispondo di no. Non capisco la domanda visto che io non ho un hula hoop. Comunque mi fa gioco perché un attimo dopo arriva Vincenzo e Marisa sta già fuori con Clara e non sembra che gliene importi granché.

Vado incontro a Vincenzo e lo prendo per mano per portarlo in giardino, nella direzione contraria a dove sono Marisa e Clara. Il giardino è molto grande, la villa di mamma è immensa e porta il suo nome: Villa Giulia. Dall’altra parte dell’atrio ci sono alberi di noce su cui io e Marisa giochiamo sempre ad arrampicarci. Sopra, sul mio albero preferito, c’è un piccolo spazio tra i rami in cui si può star seduti a guardare il cielo. È lì che voglio portare Vincenzo, e lui mi segue come se nulla fosse, come se non avesse capito che sono io e non lei.

Al momento di salire sui primi rami, mi ricordo della scatolina a cui sono collegati i tubicini di Vincenzo. Lui però dice che ce la fa, la toglie dal carrellino e la porta con sé. Così iniziamo a salire, ramo dopo ramo, e io lo devo sostenere quasi sempre. Vincenzo continua a dire che lo sa fare da solo, che non vuole aiuto, ma non è vero. Ha di nuovo l’affanno. Alla fine ci fermiamo su un ramo più in basso del mio, perché non voglio insistere. Da qui però non si vede il cielo. Adesso siamo seduti vicini, in bilico; lui non guarda giù. Ha la scatoletta sulle sue ginocchia.

«Ti piace qui?» Gli chiedo.

 «Non molto».

«Ti piace Marisa, vero?»

«Sì.»

«Perché?»

«È speciale. Dorme in classe. Quando le parlo non mi sorride. Sorride solo se le va. Tipo quando suor Annunzia insiste con le preghiere in latino.»

«Ma non è sbagliato?»

«Cosa?»

«Ridere di Dio?»

«No.»

Non so cosa dire, è la prima volta che sento dire ad alta voce una cosa simile.         «Lei è migliore di me, non è vero?»

«Non lo so. Ma lei sa che Dio è cattivo. Le ha portato via la mamma.»

«Era anche mia mamma», gli dico.

Non faccio in tempo ad aspettare la sua risposta che Vincenzo perde l’equilibrio e cade dal ramo. Accade tutto in un attimo. Io scendo subito a vedere come sta e lui ha le ginocchia sbucciate, perde sangue dalla testa, ma soprattutto ha un affanno tremendo.

«Era anche mia mamma», gli ripeto. Lui non risponde. «ERA ANCHE MIA MAMMA!» Urlo. Vincenzo indica il ramo da cui è caduto. La scatoletta è ancora su, è rimasta impigliata. I tubicini si sono staccati. Non riesce a parlare, continua ad ansimare. Mi guarda e continua ad indicare il ramo. Vorrebbe che lo aiutassi. Dall’atrio della villa sento chiamare il mio nome, è pronta la pizza. Corro via.

 

La festa è andata avanti un paio d’ore dal fatto dell’albero. Poi si è sentito un urlo tremendo, credo fosse di Teresita. C’è stato un gran trambusto, è arrivata l’ambulanza e poi la polizia. Io e Marisa siamo state chiuse in camera e non abbiamo neanche cenato. A un certo punto della sera è entrato papà e ci ha detto quello che è successo a Vincenzo.

Adesso Marisa piange dal letto di sopra.

Io mi inginocchio a dire le preghiere. Parlo con Dio, con la Madonna, con l’angelo custode e alla fine, prima di recitare l’Eterno Riposo, chiedo a mamma se mi vuole sempre bene e a Vincenzo se può fare avere a me la scatola di caramelle l’anno prossimo.


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