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Racconti | Inferni pieghevoli


 

Testo di Mattia Alari

Illustrazione di Veronica Villa

 


Le morse sono lì e tutto il resto solo dopo. L’autore preferisce chiamarle articolazioni artificiali sebbene non servano a muovere nulla ma solo ad assicurare le opere al supporto di sostegno. I lavori sono tele spesse, afflosciate in modo pesante; dei sacchi pieni almeno quanto vuoti, che vengono sorretti come fossero corpi di cristi appena deposti dalle loro croci. La forma a cui alludono è infatti quella di certe Pietà e non è una coincidenza. Nel catalogo gli oggetti sono definiti pieghevoli. Le tre sale che accolgono la personale sono perfette per i lavori in mostra, sebbene l’allestimento in stile ospedaliero sia solo secondario nel valorizzarli, rispetto alla luce di una giornata nella quale il cielo appare quello di un’alba fissa da ore e ore. I miei occhi sono sulla più grande delle morse che sostengono i lavori. La gente che guarda le opere è generalmente più interessata a come esse appaiano frontalmente rispetto a come siano nel complesso, non comprendendo che il lato più stretto e laterale potrebbe essere il verso principale di ciò che osservano.

Eppure le morse sono la parte che chiarisce ogni cosa. Perché non le considerano come dovrebbero? Eppure hanno una presenza notevole, sono molto sporgenti, brillanti. Lucide.

Carrozzeria di lusso. Non è il modo più adatto per definirle, ma è comunque perfetto. Mi piacerebbe toccarle. In questo momento mi intriga pensare che siano tiepide. Mentre appunto alcune impressioni, vedo arrivare delle ragazze francesi. Sono avvolte elegantemente in larghi cappotti vintage anni Ottanta che altre donne porterebbero in modo più goffo. Tutte indossano occhiali molto costosi, che fanno ben capire come comprare abiti al mercatino dell’usato sia solo divertente. Le borse di tela che hanno in spalla, piuttosto malridotte e sporche, hanno impresso il logo dell’Università. Sicuramente studentesse, forse d’Arte. La loro attenzione è immediatamente attratta dal lavoro più grande, amaranto grumoso dello spessore di trentacinque centimetri parzialmente in tensione, e tutte e tre vi si piazzano davanti cambiandosi di posto per godere delle diverse prospettive, che in realtà differiscono di alcuni centimetri.

Non capisco il francese ma parlano molto mentre indicano alcuni punti sulla superficie. Si rivolgono a mezza voce frasi veloci che sembrano poesie erotiche sussurrate da sopra un cuscino e forse totalmente prive di senso come parole. Mi immagino si dicano di tutto, che siano sorelle, poi amanti, poi solo estranee della stessa età, e mentre lo faccio loro annuiscono, ridono o forse si contestano l’un l’altra con quell’umorismo sarcastico con il quale si esprimono spesso le ragazze intelligenti e che cambia in meglio il suono delle loro voci. Attento, io sono una femminista. Lei lo dice alla collettiva di otto anni fa mentre osservo che un’opera non vale la grande attenzione che tutti le stanno riservando. È di una delle uniche tre artiste ammesse al concorso e per questo motivo sembra che debba vincerlo, quasi per azzerare le critiche riguardo alla selezione. Mi sembra scorretto e un modo disonesto di trattare il lavoro di un’artista e lo dico chiaramente. Lei sorride, pronuncia quella frase con tono ironico, e poi aggiunge che purtroppo ho ragione. Il lavoro che non mi piace è suo e anche lei lo detesta. Lo definisce il peggiore del suo portfolio ma anche l’unico che abbiano accettato per la mostra. Forse il concorso non meritava di meglio, dice. Sorrido anch’io e le rispondo che sono d’accordo. Sono sincero, come lo è stata lei. Ci capiamo e innamoriamo così, subito e in modo semplicissimo. Molti erano attratti da lei per ciò che era più evidente, il suo corpo. Io invece l’ho da subito trovata brillante, anche come può esserlo un colore quando squilla, urla, vibra. Un colore timbrico, come quello di certi preziosi libri di miniature che restaurava con cura certosina e l’eccezionale bella mano che aveva la sua mano, così bella.



Il titolo di questa mostra è Inferni pieghevoli. L’uso del rosso nelle opere, in sfumature dal vermiglione chiaro al magenta, è invadente di natura e rappresenta solo la sua più crudele evidenza. Per questo dovrebbero interessare di più i quattro lavori terra ombra naturale e bruciata, ocra gialla e terra di Siena e questo perché, rispetto alle tele rosse, sono l’unico tentativo di dire ciò che va oltre gli altri tredici momenti. La fine, dopo tredici differenti stadi. Che sono gradi di separazione da qualcosa. Le ragazze francesi sorridono. Non capiscono niente o inizierebbero a piangere e urlare persino, se guardassero bene le morse. Potessero vedere davvero, si getterebbero sui lavori color terra per scavare a unghiate negli strati di fossa. Non troverebbero nulla perché non c’è più nulla, ma dovrebbero provare. Per poi arrendersi e tornare indietro al rosso. Poi penso che tutto è scoperto ma invisibile, come si chiedesse al pubblico di guardare un’anima e non il bellissimo corpo estratto da una rosa di lamiere. Certe considerazioni divorano la pietà. L’arte figurativa è una piena di torture e morti che a volte sembrano orgasmi, e gli orgasmi sono piccole morti perché dopo, per qualche istante, non c’è più niente. Chissà quante volte le cose sono state legate. Queste opere non sono belle. Hanno il senso che può avere la preghiera pronunciata a voce alta rispetto alla sua scrittura d’oro su un messale. E ripenso alle sue mani, le sue bellissime mani, perdute. Al giusto movimento per stendere il colore sulla superficie, strato per strato. Crosta per crosta, se rosso. Lei era capace di sfumare le cose in modo tale che sembrava si muovessero. Sul fondo di molti rossi vi è un blu disperato e caldo, perché è così che ogni rosso diventa più profondo. E blu era la mia Mercedes del 1961, decapottabile. È appena successo di nuovo, nella mia testa.

Quando mi tirano fuori dalla macchina, penso che tutto è limpido e non vedrò mai più così bene. Mi sembra di riuscire a vedere persino i crateri della luna fissa in cielo e che sia molto più vicina nell’aria che brucia e ha un sapore denso di polvere, grumoso come sabbia. Mi ordinano di respirare e penso sia impossibile farlo. Poi vomito cercando di urlare e quel che esce dal mio corpo è qualcosa che sembra tutti i rossi insieme e diventa quello l’unico colore che vedo. E so che vicino a me c’è lei e tutti la guardano. La guardano perché è rotta in pezzi ma in modo orribilmente affascinante e nel mare di tutto ciò che resta attorno a un urto violento, tra le cose che diventano improvvisamente spazzatura, lei è una Venere. Carrozzeria di lusso. Sento queste parole tra le tante ma non le capisco. Riesco invece a guardarla, a vederla. E poi muoio. Per tredici lunghi minuti. Sui giornali parlarono del nostro incidente e circolò quella tremenda foto per la quale la soprannominarono La Venere di Milo. Solo dopo aggiunsero che lei era un’artista di talento e come fosse poco importante. La cosa assurda è che non ritrovarono le sue braccia. Mai le sue mani. Qualche altro osso quando ormai non erano più niente. Chiudo il quaderno degli appunti, sono stanco. Credo di aver scritto abbastanza su quest’inaugurazione. Ma una delle ragazze francesi si sta avvicinando a me. - Mi scusi, lei è l’artista? – me lo chiede quasi con timidezza in una lingua che non è la sua. I lavori hanno l’eco dell’urto e nessuno lo sente. Nessuno capisce, nessuno guarda le morse. Mi alzo in piedi, a fatica. Allora lei nota la mia gamba, prima coperta dal mio lungo cappotto. La guarda, vede l’articolazione artificiale e quindi spalanca gli occhi. Sì, forse ha capito di colpo, mentre il colpo risuona ancora più forte. La morsa tiene incredibilmente in piedi un corpo piegato. A questo punto non rispondo, non ce n’è bisogno. Sorrido. Anche se vorrei piangere ancora.

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