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Racconti | Intrecci (parte due)



 

Testo di: Alberto Giangiulio Illustrazione a cura di: Veronica Villa

 




Jonathan non parlava quasi mai. C’erano giornate, a volte, in cui le parole che pronunciava potevano contarsi sulle dita di una mano. E spesso erano monosillabi. Non aveva amici. La sua famiglia viveva lontano e non aveva più alcun contatto con loro. Jonathan non era più nemmeno il suo nome. L’aveva cambiato tempo fa, quando aveva deciso di scomparire. Come si chiamasse ora non aveva importanza. Davanti a lui un viavai di gente. La risolutezza con la quale sembravano dirigersi da qualche parte strideva con il suo vagare senza meta. Si chiedeva dove andassero. O forse non se lo chiedeva affatto. Un particolare colse la sua attenzione. Una ragazza giovane con i capelli fradici stava spingendo a fatica una sedia a rotelle. Seduto su di essa un signore anziano, con lo sguardo perso, assente, una coperta grigia copriva le sue gambe, forse sottili, come fuscelli. Si chiese dove stessero andando. Poi all’improsvviso si fermarono davanti a lui. Proprio davanti a lui. Il vecchio alzò lo sguardo vacuo e incrociò gli occhi di Jonathan. I due si guardarono. Poi con lo stupore più acceso della ragazza il vecchio provò ad aprire le labbra e a fatica disse. Torna a casa. Poi si allontanò sospinto dalla ragazza giovane, ancora sconvolta. Jonathan restò imobile. Torna a casa. Forse Jonathan non era un fantasma. Un giorno si era sorpreso a fissare il palmo della propria mano in controluce, per vedere se stava scomparendo. La sua esistenza era sottile come un velo di lacrime. Ma non era sempre stato così. C’era stato un tempo in cui raramente era stato da solo, e gli amici ridevano ascoltando le sue storie. Aveva viaggiato moltissimo, sopravvivendo con lavori stagionali e uno stile di vita spartano. I racconti di quei viaggi formavano un repertorio vasto e articolato che poteva intrattenere per ore coloro che lo ascoltavano. Chi lo conosceva per la prima volta ora avrebbe davvero faticato a credere che un tempo fosse stato così loquace e gioviale. Ma erano in pochi oramai a poter dire di conoscerlo. Forse un fantasma aveva una vita più piena della sua. Ricca di progetti, case da infestare, passate conoscenze da tormentare. Mentre camminava sotto la pioggia Jonathan pensò per un attimo a Luca. L’ultima persona che gli era stato veramente vicino. Le scarpe di pelle logore marrone imbarcavano acqua da tutti i pori. Il cappotto scuro gli arrivava fino ai piedi e i lembi inferiori erano completamenteti inzuppati. Anni con lo stesso cappotto. Un serpente avrebbe fatto in tempo a cambiare muta decine di volte. Era una notte piovosa come quelle Scozzesi. Luca che conosceva dalle medie lo aveva convinto a fare lì il viaggio dei loro sogni. Brughiere d’erica, i laghi profondi, mattoni ricoperti di muschio rigoglioso trasudanti storia. Ricordava quel pomeriggio caldo d’agosto duante il quale avrebberodovuto preparare gli zaini.


La stanza di Luca, foderata di poster di Star Wars, Dragon ball, le tartarughe nijna. E poi gli scaffali, palscosenico della polverosa parata di tutti gli eroi e i cattivi delle sue avventutre preferite. Li’ in qul luogo angusto e polveroso ma così magico, dove i raggi di sole giocavano ta le fessure delle assi di legno dei muri, i due ragazzi raccoglievano indumenti e suppellettili creando grandi mucchi variopinti intorno a loro. I criteri di scelta seguivano naturalmente parametri arbitrari e personalissimi. Una bussola d’ottone grande come il palmo di una mano, la vestaglia di seta del prozio Gino (che pareva comodissima), una cartina dettagliata fino al più piccolo sentiero tracciato da un cucciolo di lepre nella neve, ma che era talmente logora da esserne rimaste solo sei parti. Per fortuna quella col sentiero delle lepri era rimasta. Cappelli e berretti di varia foggia. Quattordici capelli per un’escursione in Scozia. Ma questi in fondo sono solo aneddoti divertenti e i due ragazzi riusicirono effettivamente a passare dei giorni e delle notti incredibili immersi nella fredda brughiera scozzese. Marco, tuttavia si accorse, verso il termine del viaggio, che Johnatan ogni tanto mormorava frasi strane. Parlava di stelle. Descriveva a occhi semi chusi delle arcate con le mani, soffermandosi poi di scatto per dare un nome bizzarro a questo o a quel punto del cielo. Una notte, Luca svegliatosi di soprassalto nella tenda notò che Jonathan non era lì. Aprì la zip e sporse la testa fuori. Luca era immobile alla luce della luna piena e fissava la sua lunga ombra, Jonathan gli disse. Vieni, vedi anche tu? Lì e in quell’ombra Luca giurò di vedere una nube scura di colori mescolati fra loro, blu scuro, viola, beige, giallo, rosso e soprattutto piccolissimi puntini luminosi. Sembrava propro una una nube nel cielo, quegli ammassi densissimi e mozzafiato in cui nascono e muioiono le stelle. Le galassie e le nebulose che intravedeva all’interno della sua ombra. Poi tornarono all’interno della tenda. Ma la notte seguente, quando la scena si ripetè Luca non trovò più il suo amico. Non l’avrebbe mai più trovato. Qualche ora prima Jonathan era uscito silenziosamento scalzo, aprendo la zip senza fare rumore. Aveva seguito un sentiero a tentoni ed era arrivato fino sul ciglio di un’alta scogliera. Voleva ascoltare il canto del mare. La mattina dopo non c’era. Marco non l’avrebbe più trovato. Il suo incedere nella notte aveva lasciato una traccia di ombra densa quasi soprannaturale. E in quelle ombre Luca giurò di poter aver visto una nube galattica di infiniti colori. Arrivò anche lui sul ciglio dell’altissima scogliera, fermandosi in tempo, mentre piccoli ciottoli ruzzolavano giù nel vuoto. Johnathan!! Jonathan!! Dove sei? Rispose solo il palpitate rumore del mare e il silenzio chiassoso del cielo. Luca ebbe troppa paura per guardare giù, ma si fece coraggio e si affacciò guardano il mare. Solo onde e schiuma bianca, mentre lacrime di stelle gli rigavano le guance. Vola libero amico mio. Di Jonathan rimaneva solo il passato, diventato ora una vuota crisalide pronta a staccarsi un giorni dall’albero. Mentre quei colori di stelle dipingevano la sua memoria Jonathan incedeva tra la pioggia e la gente. Pensava. Torna a casa.





Marco camminava a passo svelto. Pioveva forte, ma come al solito non aveva con sé l’ombrello. La sua giacca nera di pelle sgualcita era completamente bagnata. I capelli pure. I pensieri vorticavano veloci. Era in ritardo. Alle otto doveva trovarsi con gli altri per il sound check. Ed erano già le otto e dieci. Avevano trovato quel concerto per miracolo. Erano settimane che non suonavano in pubblico. Un locale semi sconosciuto. Che faceva musica live però, ogni venerdì. Una botta di fortuna. Ci voleva. Il basso nella sua custodia sulle spalle era asciutto. O almeno così sperava. I pensieri erano tanti, troppi. E come poteva essere altrimenti. Tre giorni fa Anna se n’era andata. Erano in sala prove tutti e quattro. E dopo “Lacrime di sangue”, la loro canzone migliore, quella che Marco aveva scritto con Anna due anni prima, dopo che avevano scopato per la prima volta, suonata alla perfezione dietro il vetro del mixer, lei si ferma. Scoppia a piangere. E urla. Forte. Mi fate schifo! Io non ce la faccio più così. Nessuno che si accorge che sto male, e tutti: Anna qui, Anna lì, baci e abbracci. Io così muoio. Perchè non lo capite! Lancia l’asta del microfono a terra e se ne va, dando una spallata forte a Marco. Poi si gira verso di lui. Apre la bocca per dire qualcosa. Ma non dice nulla. Non serviva. Il suo sguardo gelido e affilato era bastato. Non l’avevano più sentita. Marco l’aveva chiamata un sacco di volte. Aveva chiesto notizie ai suoi amici, ma niente. Nessuna traccia. Era scomparsa. Anna era il pilastro del loro gruppo. Oltre ad aver composto quasi tutte le canzoni era lei la voce. Marco ogni tanto faceva le seconde voci, ma Anna era insostituibile. Gli altri però volevano continuare. E Marco li aveva seguiti, con l’anima a pezzi. Erano passati solo tre giorni, dannazione. E dovevano assolutamente fare quel concerto. Era al verde. Quei duecento euro gli servivano. Il marciapiede era pieno di gente. Tutti camminavano veloci, forse tornando a casa dal lavoro. Lo sguardo basso a terra. Ombrelli di tutti i colori che si urtano. Marco andò a sbattere contro un signore fermo davanti a una vetrina, che inciampa e cade. In mano teneva una scatola azurra di una pasticceria che si rovescia a terra. In una pozzanghera. Impreca forte e si gira cercando il responsabile, ma Marco era già scomparso tra le righe dense di pioggia, rapido. Non era riuscito nemmeno a piangere Marco, in quei tre giorni. La donna che amava se ne era andata. La sua cantante preferita. La voce di mille avventure si era spenta. Nel silenzio i dubbi. Cosa aveva fatto? O cosa non aveva fatto? Otto e un quarto. Il semaforo era rosso. Marco si ferma. Impaziente. Fradicio. E fu così che in quel momento di attesa, dal cielo, cadde velocissimo un oggetto scuro. Sfrecciò sibilando a tre centimetri dal suo naso. Marco non ebbe il tempo di accorgersene che fece un salto all’indietro finendo per terra sull’asfalto. Era un telefono cellulare. Si era infranto con il rumore confuso di vetro e plastica che vanno a pezzi. Sbigottito Marco si alza in piedi. Assapora l’odore della pioggia. Sente che per miracolo è scampato da un trauma cranico e sfregi sul volto. Come fluttuando in un sogno riprende il passo e si trascina, fradicio, lungo il marciapiede. A un isolato dal locale dove avrebbe dovuto suonare Marco si ferma. Vede Tobia, il batterista, muoversi tra la gente, come a cercare qualcuno. I due incrociano lo sguardo. Tobia si affrettà verso Marco. Lo prende per una manica della giacca di pelle. Oi, ti cercavo. Anna è in ospedale. E’ grave. Dobbiamo andare. Cos’è successo? Te lo dico per strada, andiamo. Dimmi cos’è successo Tobia! Dannazione. L’ha fatto, Marco, l’ha fatto davvero. L’hanno trovata in tempo però. Ora è fuori pericolo. Ma vuole vederti. Andiamo. I due corrono verso la macchina di Tobia. Marco ha smesso di pensare. Le sue lacrime non sono di sangue, però, altrimenti avrebbe le guance coperte tutte di rosso.







Avevano scelto quel ristorante tailandese perchè aveva aperto da pochi giorni nel loro quartiere. A Luca la cucina tailandese piaceva moltissimo. Il sapore forte del piccante, le spezie, il dolce del cocco. Delicata e allo stesso tempo intensa. In tailandia non si usano le bacchette, non comunemente almeno. Solo per i noodles, influenza cinese probabilmente. Marta non aveva mai assaggiato la cucina tailandese. Ma lo seguiva ovunque nelle sue esplorazioni culinarie. Le piaceva tanto stare ad ascoltarlo mentre lui le raccontava strane curiosità dei posti da cui venivano i piatti che provavano. Ricordi dei suoi viaggi. Di quegli anni da randagio sui quali lei, un po’ per discrezione, un po’ per timore, non aveva mai fatto troppe domande. Forse c’entravano anche le droghe, Marta aveva questo dubbio. Ma non gliene faceva una colpa. Le cicatrici si vedevano, ma lei gli voleva bene così. E poi qualunque cosa ci fosse stata nel suo passato, le difficoltà e le sfide che deve aver vissuto, ora lui splendeva. Ce l’aveva fatta. Comunque sarebbe stata ore ad ascoltarlo. E anche in quel momento raccoglieva i dettagli di una storia avvincente capitata a Luca a Bangkok anni fa. La storia era lunga e complicata. C’entravano una macchina rubata, una scimmietta, dieci sacchi di riso da cinque chili e il suo amico Jonathan. Sparito quattro anni fa. Lei non l’aveva mai conosciuto. Marta e Luca si frequentavano da due anni e mezzo. Jonathan e Luca erano stati migliori amici per anni. Compagni d’avventure. Mille esperienze insieme. Poi una notte in Scozia era scomparso. Era uscito per una passeggiata in riva al mare e non era più tornato. Luca parlava raramente di lui. Per questo Marta ascoltava con così tanta attenzione. Intuiva che il rapporto tra i due ragazzi costituiva una parte speciale della vita di lui. Una parte che lasciava affiorare molto raramente. Il ristorante era pieno. Una massa densa formata da decine di toni di voci, mescolate fra loro, pervadeva lo spazio intorno a Luca e Marta. Lei ascoltava attentamente il racconto di lui, ma ciò che il suo udito percepiva era un segnale strano, come la voce di una radio che non riceve bene il segnale, disturbato da frequenze lontane, sibilanti al punto da acquistare quasi forma e colore. Marta appoggiò la mano sul tavolo. Accarezzò la tovaglia verde, fino a sentire il rilievo della trama sotto ai polpastrelli. Lentamente una nuvola scura cominciò ad offuscare il suo umore. Perchè Luca non le aveva parlato prima di Jonathan? E perchè mentre lui raccontava le loro avventure la sua voce si incrinava? Ogni tanto balbettava. Le prime lettere delle parole si sovrapponevano ritmiche. Ma esitanti. Quanto altro le aveva nascosto finora. Quanti eventi, emozioni, ricordi aveva celato preziosi, tenendoli lontani da lei. Marta cominciò a chiedersi quanto conosceva in realtà Luca. Sentì gli occhi appesantirsi. Lo sguardo si velava mentre delle lacrime timide cominciavano a condensarsi sopra le palpebre inferiori. Quanto possiamo dire di conoscere veramente gli altri? Se persino la persona che più amava fra tutte, che conosceva da anni e con cui condivideva i pasti, il letto, lo scorrere delle ore, aveva tenuto una parte così importante di sé lontano da lei, quanto allora poteva dire di conoscere gli altri? Si sentì immensamente sola. Mentre il respiro diventava pesante e faticoso Marta alzò gli occhi dal piatto e li fece vagare intorno, cercando di distogliere per un attimo la mente da quei pensieri così tristi. Li poggiò sulle facce delle persone sedute ai tavoli intorno a lei. Uomini e donne di tutte le età, ciascuno con la propria vita complessa e faticosa. Guardò le espressioni cambiare forma e colore, i sorrisi, gli sguardi pensosi, le espressioni soddisfatte di una signora che assaporava dei gamberi. C’erano dei bambini, due, seduti a un tavolo alla sua sinistra. Avranno avuto sette o otto anni. Ridevano e si punzecchiavano mentre la madre cercava di tenerli a bada, invano. Poi guardò alla sua destra, verso la strada, separata da un vetro. Il riflesso del locale si mescolava con l’esterno come in un quadro impressionista. Giochi di luci e ombre come rapide pennellate. Un signore con un cappotto scuro ero fermo all’esterno della vetrina. Stava fissando l’interno del ristorante con sguardo curioso. Osservò il suo cappello di feltro e notò che in mano teneva una scatola azzurra. Sembrava una di quelle scatole delle pasticcerie, per trasportare le torte. Chissà quale era la sua storia, pensò Marta. A chi avrebbe portato quella torta. Luca notò che Marta si era distratta e le chiese se andava tutto bene. Lei ritornò in sé e lo guardò. Sì tutto a posto, scusa, sono un po’ stanca. Possiamo andare se vuoi. Forse, sì, non so cosa mi succedde, ma ho proprio bisogno di tornare a casa. Ci fermiamo per una sigaretta al solito posto? Mi piacerebbe sì, è bello vedere le anatre rannicchiate sotto la pioggia.





© Veronica Villa






Da quando avevo dodici anni mi avevano diagnosticato una sindrome bipolare. Era questo il nome che la psichiatria aveva deciso per i miei sbalzi di umore. I miei atteggiamenti incoerenti, le mie azioni sconsiderate. I lunghi periodi a letto a piangere. Una volta mi ero arrampicata su un palazzo. Bipolare. Una volta avevo dato fuoco a dei poster in una casa in cui vivivo. Bipolare. Una volta ero rimata un mese sotto le coperte senza voglia di mangiare. Bipolare. Bipolare. Bipolare. Era quello che dovevo dire alle personse che conoscevo, dopo la terza o quarta volta, era quello per cui dovevo combattere ogni giorno con medici, genitori, ragazzi. E non ne potevo più. Non ne potevo davvero più. Pensavo non ci sarebbe stato un limite a questo essere continuamente definita e a questo continuamente definirmi. Ma ho sempre sbagliato a capire come vivere. Ho sempre sbagliato a pensare che alcuni fuochi bruciano più di altri e altri si spengono troppo presto. Ho sbagliato a credere di essere quella io sbagliata, in un mondo di normali dove nessuno è normale. Ma la realtà è un campo di forze. E alcune normalità sono complici del sistema. Ammazzarsi di lavoro per comprarsi un suv è complice del sistema, picchiare la moglie quando le leggi chiudono gli occhi è fottutamente complice del sistema. Giocare con le proprie personaltà, essere giocati da loro non è complice del sistema, è solo il modo per farsi tagliare fuori, per il quale ti rinchiudono. E io sono stata rinchiusa. E intubata. E riempita di farmaci. Il mostro di Frankenstein. Per cosa. Per vivere a centomila watt. E bruciare e bruciare e vivere tutto con quella dannata inestinguibile intensità. Ero scappata di casa. O meglio, avevo responsabilmente scelto di crearmi una vita mia, senza interferenze. Ma poi i miei avevano avuto un’incidente. Non si erano salvti. Credo sia stato il momento più strano e orribile della mia vita. Li odiavo con tutta me stessa, ma lì, davanti ai medici, mentre mi sentivo dire che non c’erano più, mi mancò la terra sotto i piedi. Non so chi diceva che nel cervello le zone adibite all’amore e all’odio sono terribilmente vicine. Forse un film del cazzo. O qualcosa che avevo letto. Loro mi avevano cresciuto. Male, ma mi avevano cresciuto. Li odiavo. Ma erano parte di me e li amavo. Caddi nel down più profondo e buio che abbia mai avuto. E quei farmaci di merda non funzionavano per niente. Mi ritrovai veramente da sola. Però sola non ero. Mi avevano lasciato mio nonno. Un vecchietto che da giovane faceva il filosofo. Doveva avere una gran testa. Poi l’Alzhaimer. Non riconosceva nessuno, figuriamoci me. Comunque io ero rimasta senza casa e decisi di trasferirmi da lui. Pensai che potevamo unire le nostre sofferenze. Darci una mano. Sicuramente mi avrebbe fatto bene smettere o almento andarci piano col bere e drogarmi. Tornare presto la sera. Passare le notti a casa per controllare che tutto filasse liscio. E anche uscire di casa per portarlo in giro avrebbe regalato un po’d’aria ai miei polmoni. Abbiamo vissuto così per due anni alla fine. E in questi due anni sono rinata. I farmaci ho smesso di prenderli e non ho avuto paura di farlo. Gli alti e i bassi ci sono sempre stati, dovevo solo capire come dare loro un senso, cercare di catalizzarli. E quel nonno silenzioso, che la sera ascoltava i miei discorsi, senza rispondere ma sicuramente collezionandoli tutti, era sempre lì, fragile colonna. Quella sera pioveva forte. Ma io avevo bisogno di uscire, era qualche giorno che ero in down, non riuscivo a mangiare bene e le lacrime mi stavano scavando le guance. Però un’amica un giorno mi disse che non c’è meglio di niente di un di un po’aria fresca per liberare i pensieri. Perchè i pensieri sono sempre incatenati. Siamo noi a liberarli. Sollevai dolcemente mio nonno e lo adagiai sulla carrozzina. Poi lo vestii con abiti pesanti e cercai di fissare un ombrello ampio al manico della sedia. Io mi sarei bagnata, non mi importava. Per le strada tanta gente, affrettata come ogni sera. Per dove. Perchè. All’angolo di un vicolo, su un telo verde scuro era seduto un ragazzo magrissimo ma con la barba lunga. Chiedeva qualche spicciolo. Guardai nella tasca sinistra e gli porsi quello che avevo. Poca roba. Ero uscita seza portafoglio. Spinsi lentamente mio nonno tra la folla. Poi qualcosa di strano. Un signore, forse più un ragazzo, leggermente trasandato si era fermato, immobile davanti alla sedia di mio nonno. Ci guardava. Poi fissò mio nonno negli occhi. Lui lo fissò e a fatica e mosse le labbra. Disse. Torna a casa. Non avevo mai sentito mio nonno dire qualcosa. E ora così, all’improvviso aveva detto tre parole, ad uno sconosciuto. Restò immobile qualche frazione di secondo, poi il ragazzo si spostò e proseguì sotto la pioggio. Io e il nonno ancora fermi. Lo abbracciai forte sopra la coperta. Non lo volevo lasciare più. Non sapevo se quelle parole le aveva dette al giovane sotto alla pioggia o a me. O a tutti e due. Non importava. Io una casa ora ce l’avevo ed era con quel nonno che non parlava mai ma sapeva così tante cose. Quella notte mi addormentai vicino a lui. Up o down, ora avevo la mia stella polare.






Stava seduto in cima ad un ripetitore telefonico. Quelli grandi, imponenti. Del 5G, con i loro futuristici tamburi bianchi, e antenne, fili scuri, generatori. Era un palazzo alto, il più alto della citta. Era seduto lì da diverse ore. Ma per lui il tempo non aveva importanza. Neanche lo spazio ne aveva. In effetti nessuno poteva vederlo. Nemmeno lui vedeva se stesso. In molte galassie, su molti pianeti avevano dato pittoreschi nomi agli esseri come lui, un tempo li collezzionava. Poi se ne era stufato. Ora si limitava a guardare. Mentre la pioggia cadeva fissa, senza incontrare il suo corpo. Che se potessimo vederlo, il suo corpo, forse sarebbe azzurro, chiaro. Guardava giù. Il via vai frenetico di quegli esseri misteriosi, guidati da passioni, ricordi, paure. Così terribilmente spaventati dal vuoto e da quello che c’è prima o che c’è dopo. Lui non aveva soluzioni. Guardava e basta. Però c’era un motivo se era finito lassù e non era con i suoi simili su altre galassie, e il motivo è che aveva scelto di partecipare. Non sapeva ancora come, partecipare. Chiaro, come poteva. Aveva vissuto dieci miliardi di anni e nessuno di quegli eoni gli aveva insegnato che cosa vuole dire soffrire, piangere, amare, morire. Oggi aveva visto molto. Casualità che chiamano causalità. Incertezza che chiamano Indeterminatezza forse perchè può essere il contrario di determinatezza. Indeterminare il possibile. Voleva imparare. Voleva imparare ad abbracciare tutte quelle anime perse, ma in fondo sorelle, che da lassù aveva osservato. Voleva abbracciarle tutte e dirle. Va tutto bene. Non lo sai. Ma non sei solo. Non siete soli. Lui sapeva cosa voleva dire essere nato solo al centro di una stella. Ma loro no. Erano nati da un corpo, e vivevano di fratture, contatti, abbracci, schiaffi, baci, carezze con altri corpi. Stava imparando che la pelle è sottile. Ma la distanza tra due pelli. Asintoto invincibile. Alla fine. Forse. Può può essere colmata.


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