Testo di Matteo Candeliere
Illustrazione di Letizia Veiluva
Vengono alla vigilia di un giorno di festa, ma giurano di averlo fatto a malincuore. Così dicono. Siamo qui a malincuore. I bambini ti guardano per sentire cosa risponderai, e quando domandi quanto tempo la banca vi concederà, lo fai con una fermezza che i bambini scambiano per ciò che un adulto chiamerebbe spavalderia.
Siamo qui a malincuore, dicono. Siamo qui per la casa.
È facile fare gli scatoloni quando devi buttare via metà della roba: ovunque andrai, lo spazio a tua disposizione sarà comunque inferiore rispetto a quello di cui hai goduto finora. Questa consapevolezza ti fa scattare nel cervello un’efficienza di cui non ti credevi capace: finalmente riesci a vedere gli oggetti per quello che sono anziché per quello che rappresentano per te o per i bambini. È come se avessi indossato degli occhiali a raggi X, ma anziché le ossa delle persone vedi la futilità delle cose. E allora dai via i tappeti, dai via le lampade, dai via il portaombrelli. Cominci a regalare qualcosa a un vicino con la scusa di un imminente trasloco e il resto succede da sé: passa qualche giorno e davanti a casa tua c’è una coda di postulanti. Dai via le mensole e gli stendini. Le coperte le tieni, gli impermeabili pure. Ti tieni le pentole, qualche piatto e le posate. Le mutande e le calze mettile in quello zaino laggiù: ok, le scatole finiranno in un deposito, ma lo zaino sarà sempre con te. Lo zaino sarà il tuo migliore amico. I libri e i DVD li provi a vendere, ma è dura, è proprio dura farti dare qualcosa. Tieni i fumetti dei bimbi e i loro giocattoli. Butti via i sottopentola, i mestoli oltre il secondo, i bicchieri oltre il terzo. Butti via i soprammobili, i centrini e le tende. Non ti ci copri con le tende. Butti via le cornici, ma ti tieni le foto.
Sopravvive solo l’essenziale.
Tutte le persone che incontri ti fanno la stessa domanda. Che cosa vuoi fare, che cosa vuoi fare. Alcuni uomini poi te lo chiedono con un’inclinazione che ti fa venire voglia di rispondergli “lo so cosa pensi che io voglia”: una casa per i miei figli, un lavoro per me. Ma quello sguardo va oltre. Sussurra, insinua. Tu vuoi un uomo, dice. Un padre per i tuoi figli e un marito per te. Ma ne hai avuto abbastanza della compagnia degli uomini. È inutile che ti tenga la porta quando entri e che sposti la sedia per farti accomodare.
Cosa devo fare, strisciare sotto la scrivania? Non ho bisogno di uomini.
Fai di tutto perché i tuoi figli non lo sappiano. Gli hai detto qualsiasi cosa, gli hai detto che siete in campeggio, che siete in vacanza, che in casa c’erano dei lavori da fare. Loro non ci hanno creduto e tu lo sai, ma quando li accompagni a scuola ti assicuri lo stesso che nessun bambino e nessun genitore si accorga di nulla. Che la vostra piccola messinscena non collassi su se stessa.
Togli le macchie dalle giacche e dai jeans, tieni sempre la coda, chiedi alla maestra di essere comprensiva con i marmocchi e – sorpresa sorpresa – il trucchetto funziona. Non si accorge di nulla nemmeno la rappresentante di classe, ed è una vera spaccacazzo, quella. Una spaccacazzo di prima categoria. Certo, ti dedica uno sguardo un po’ più approfondito all’ingresso ma, ehi, chi se ne frega se la mamma di Jacopo e Ale puzzava di sudore l’altra mattina? Non avrà fatto in tempo a farsi una doccia, tutto qui. Con due bambini, poi. Io faccio fatica con uno.
Il tuo piano procede senza intoppi – anche se una casa non l’hai ancora trovata, vero? – ma poi succede che Jacopo riceve un invito per una festa di compleanno. Non dovrebbe, ti dici. Alterna sempre gli stessi due maglioni e indossa sempre lo stesso paio di jeans. Sono cose che i marmocchi iniziano a notare, in terza elementare. Chi lo inviterebbe, un bambino del genere? Non dovrebbe, ti dici. E te ne vergogni. Perché non dovrebbero invitarlo quei piccoli bastardi? Che cos’ha di meno mio figlio rispetto a quelli là?
Così, alla ricerca di sussidi, tre posti letto in un dormitorio, due pasti, un lavoro e una casa, una casa, una casa, aggiungi la ricerca di qualcosa che permetta a tuo figlio piccolo di andare alla festa di una bambina che, ispirata probabilmente dalla bontà dello Spirito Santo, ha deciso di invitarlo al suo compleanno. Qualcosa che non sfiguri in mezzo ai vestiti di marca e ai libri illustrati che le altre famiglie porteranno con sé. E all’improvviso, non sai nemmeno tu il come o il perché, questa storia del regalo assume un’importanza gigantesca, sproporzionata persino rispetto agli sforzi che impieghi per trovare un lavoro.
Questa festa di compleanno è diventata una questione di civiltà.
Le notti le trascorri alternando brevi sonni a tormentati momenti di veglia – gli occhi chiusi per non ricordare a te stessa dove sei finita, i singhiozzi trattenuti per non svegliar nessuno, e lunghi monologhi nella tua testa, oracoli in cui, dea e pizia insieme, t’interroghi su quando arriverà l’inverno, su come cresceranno i tuoi figli, su come trovare una casa. E queste interrogazioni si contendono lo spazio del tuo cervello con i soliti sogni di tragedie e sogni in cui:
Ci sono soltanto io.
Io nuda in un bagno, io appena uscita dalla vasca, io che mi spazzolo i capelli. Sono più lunghi di come sono in realtà, e sono lisci e puliti. Dal corridoio, non un pianto, un grido o un rumore di passi. Lui non c’è, e non ci sono nemmeno i bambini. Lo specchio sopra al lavandino è appannato per la condensa, ma lo so, lo so che ho sorriso quando ho scoperto che i bambini non ci sono più. Dovrei sentirmi in colpa, non dovrei sentirmi felice senza di loro. Dovrei sentirmi in colpa per aver sognato un mondo del genere, per averlo anche solo concepito? Mi sento in colpa, sì, e ci dev’essere qualcosa di biologico all’origine di questa vergogna, qualcosa che ha a che fare con Charles Darwin o i dettami dell’Antico Testamento, perché sento di non poterle sfuggire neppure qui, nel buio delle mie palpebre chiuse. Mi sento in colpa, ma continuo a spazzolarmi i capelli.
E poi mi sveglio.
Ti alzi a sedere nel buio dello stanzone e per un momento non ricordi dove ti sei addormentata – capita, quando dormi ogni notte in un posto diverso. Non ricordi nemmeno il sogno che stavi facendo, ma ti senti in colpa lo stesso. Allora appoggi una mano sui capelli di Jacopo, lui si sveglia e più tardi, quando a colazione gli chiedi perché non parla, ti risponde che ha fatto un sogno che non riesce a ricordare.
Litighi per farli lavare, litighi per farli spicciare a vestirsi, litighi per farli andare a scuola. E quando finalmente ti siedi a letto a piegare i pigiami, quando finalmente se ne sono andati, ti ricordi del sogno che hai fatto, e subito ti copri la bocca come a bloccare i rimpianti che dalle labbra potrebbero uscirti.
Pieghi i pigiami, pieghi le coperte, metti tutto nello stesso zaino. Ramazzi per terra anche se non è casa tua – o forse proprio per questo – e ti domandi: cosa posso comprare a quella bambina? Cosa posso regalarle senza spendere soldi e senza far fare a Jacopo una figura di merda?
1. Jacopo che le canta una canzone. Pro: è gratis. Contro: si imbarazzerebbe (e non è manco così bravo).
2. Io che le racconto una storia. Pro: è gratis. Contro: mi imbarazzerei (e non sono manco così brava).
3. Un gatto randagio. Pro: è gratis, e toglieremmo un gatto dalla strada. Contro: i genitori della festeggiata difficilmente ne sarebbero felici.
E all’improvviso, proprio quando la creatività iniziava a dare i suoi frutti, ti chiedi da quant’è che non fai un regalo ai tuoi figli, e da qualche parte riemerge la vergogna.
I giorni corrono veloci quando hai tante cose da fare. È un meccanismo della mente, l’hai sentito una volta in televisione. Fai tante cose, ma sono talmente ordinarie e noiose che il cervello non ne trova neppure una degna di essere ricordata. E così, anche senza una casa o forse proprio per questo, il giorno del compleanno arriva prima che tu te ne accorga, e soprattutto prima che tu riesca a comprare alcunché.
Va’, alzati e cammina. Sveglia i bambini. Litiga per farli lavare, litiga per farli spicciare a vestirsi, poi spiega al grande che non può andare alla festa e dissipa i suoi capricci. Va’, alzati e cammina. Senza la giacca giusta, senza esserti lavata i capelli, senza aver lavato i capelli ai bambini. E senza regalo.
«Ma chi è questa bambina?», la domanda ti viene fuori mentre guardi la strada davanti a te, ma Jacopo crede che stai parlando con lui.
«La festeggiata, ma’? Martina?».
«Martina, ecco. Martina. Chi è? E perché ti ha invitato, te l’ha detto?».
«Non lo so. Ha invitato tutti e ha invitato anche me».
Camminate tenendovi per mano, tu al centro e i bambini di fianco. Il nome di Martina non ti dice nulla, è da mo’ che hai smesso di chiedere ai tuoi figli com’è che va a scuola, e nemmeno il nome della via ti dice un granché. Ma man mano che cammini e – che freddo, che inizia a fare – ti rendi conto che anziché andare in uno dei quartieri residenziali che ti eri immaginata state ruotando attorno al centro.
«È lontano», dici, «perché abita così lontano, se viene a scuola con te?», ma la domanda è un po’ troppo difficile per un bambino di sette anni, e Jacopo resta semplicemente in silenzio, un piede dopo l’altro sul marciapiede spaccato.
«È lontano», ripeti, mentre circumnavighi un centro che non è mai stato tanto distante, mentre ti muovi da una periferia a un’altra, da cassonetti svuotati a panchine circondate da bottiglie di birra vuote, da cartelli che dicono Vendesi, Vendesi, Vendesi ai bigliettini appiccicati ai pali della luce con cui oggigiorno si cerca lavoro – donna, 51, italiana, offresi per pulizie e/o cura di anziani e/o bambini. Precisa, Pulita, Puntuale. Referenze! – Da una periferia a un’altra, sì, da un grigio a un altro, da una povertà a una povertà. Te ne accorgi, lo percepisci, ma ti stupisce lo stesso. E ti stupisce fino alle lacrime quando, alzando lo sguardo, scopri incredula che all’indirizzo che la festeggiata ha scarabocchiato nella sua grafia incerta, al posto di un bel condominio di nuova costruzione c’è una grossa scritta nera che dice “Dormitorio comunale”.

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