top of page

Racconti | Latte scremato


 

Testo di Marilena Votta

Illustrazione di Eleonora Zuaro

Editing di Pietro Emiliani


 


Un bagliore filtra tra le palpebre. Quando mi sveglio ho il corpo ricoperto di sudore. Nell’aria il puzzo di gomma bruciata, lo zainetto a farmi da cuscino, sospesa tra il mondo reale e quello che vive dentro la mia testa. Cose accadute, desideri mozzati, cose che forse non accadranno. A volte le premonizioni hanno la consistenza viscida dei sogni mattutini, mi restano attaccati addosso come i vestiti sintetici con le loro scariche di elettricità statica quando cerchi di toglierteli. 

Il dito di Edo si infila nello spazio tra le costole, si incastra nell’ombelico e si avvita dentro fino a farmi male. 

«E dai, smettila.»

Ridacchia. 

«Come stai?»

«Mi fa male la testa.» 

Mi tocco la fronte, le labbra screpolate, prive della patina protettiva del lucidalabbra leccato via ore fa. 

«E ho sete.» 

Edo annuisce. 

«Logico. Ma… - una leggera incrinatura nella voce, il tono ridotto a un bisbiglio. 

“Ti ricordi tutto?»

Mi liscio le pieghe della maglietta, agito le mani per scuotere via briciole inesistenti. 

«Più o meno». Mi ricordo la porta di casa sbattuta nel silenzio, la mia immagine riflessa nel vetro dell’ascensore, verticalità e marmo mentre muovo le dita su e giù sui tasti, le risate chiocce e le finestre spalancate dei palazzi vicini. Io che aspetto in una rientranza del marciapiede. 

L’appuntamento è in una fabbrica dismessa per la produzione di carne in scatola. Ampi spazi all’aperto per sistemare i soundsystem, un corpo in muratura ancora funzionale che emana un senso diffuso di marciume, come se la mancanza di speranza di chi è passato di qui avesse quest’odore addosso. 

Mi ricordo le luci blu fluorescenti, il sound ossessivo, le unghie scarlatte di Rossella, la consistenza friabile della crosta del pane che abbiamo sbriciolato invece di mangiarlo, le mani unte agitate in aria. Mi ricordo la fila vociante e sudata per il bagno, le porte spesse grigio acciaio che ancora conservano tracce di calore del giorno, e le pareti sporche, imbrattate di scritte oscene, il lavandino intasato, l'acqua grigia che quasi trabocca dal bordo di porcellana, poltiglia rosa, simile a dentifricio, e strisce di carta igienica colorata per terra. L’odore acido del sudore mescolato a profumi fruttati, e quello metallico, intenso e stucchevole, di sangue mestruale. Io guardo tutto come se fossi scissa in due, l’alcool mi scorre in circolo e rende evanescenti i confini tra il corpo e il mondo. Gli short bagnati, il sudore a rivoli dall’attaccatura dei capelli fino al fondoschiena. 

«Dov’è Riccardo?» 

Il ragazzo che ci ha portato qui in macchina. Mi piace. Ha uno sguardo gentile, occhi languidi da ragazza. Edo alza le spalle. 

«Starà cercando la sua tipa, è rimasta in vacanza un giorno in più ed è venuta con un altro gruppo.»

Una fitta di delusione tra le scapole, un colpo di vento mi aggriccia la pelle. Lui lo nota e si accarezza i capelli a spazzola, ispidi e ingrommati di gel.

«Eh, mi sa che ci è proprio rimasto sotto.»

«E allora? Non c’è niente di male ad avere dei sentimenti.» 

Mi sento ridicola. 

«Ma abbiamo vent’anni, cazzo. Ci dobbiamo sballare e divertire e basta.»

La lingua intrusiva di Edo dentro la bocca, consistenza molle e dolciastra del Southern Comfort che si è scolato, le mie dita gli graffiano la schiena.

«Divertiti, rilassati, dai.» 

Il suo odore è simile a quello esalato dai muri della fabbrica, carne che sta andando a male. Il corpo si sgretola davanti ai miei occhi, i muscoli si disfano e sfuggono via dallo scheletro. 

Quando l’allucinazione scompare, vedo che non c’è traccia di imbarazzo nel modo in cui Edo si gratta il cavallo dei pantaloni, lo sguardo molle e pigro di chi è abituato a vivere aspettandosi solo di essere esaudito. Mi porge un bicchiere con dentro un liquido paglierino dal gusto acido, un misto di limone e sale che brucia sulle labbra. 

«Bleah, fa schifo, davvero.»

«Prova questa.»

Mi appoggia una pillola rosa sulla lingua, la consistenza di una caramellina, e io la ingoio. Le ragazze dimenano le braccia in maniera scomposta, i loro top laminati scompaiono nella folla. Si sbracciano per farmi segno di seguirle, ma io scuoto la testa. 

«Le tue amiche se ne vanno.»

«Non sono mie amiche.»

«No?»

«Le conosco perché erano in classe con mia sorella, al liceo. Ogni tanto le incontro ai rave.»

Annuisce, comprensivo, o forse solo annoiato. Una pioggia sottile che dura qualche minuto appena, e lascia l’aria ancora più afosa di prima. Non mi accorgo di quando la pasticca comincia a fare effetto, le persone mi appaiono circondate da un alone. Cerco Riccardo in quel mare di facce, spintono, mi becco urla e insulti. Mani scivolose cercano di trattenermi, i miei capelli vorticano nell’aria elettrica, distribuisco goccioline di sudore a ogni passo. 





Sono immersa in una luce tremolante dai colori fluo. Ragazze dal volto duro con vestiti minuscoli dai colori pastello, stivali alti al ginocchio, ragazzi con occhiali da sole squadrati e troppo grandi per il loro viso, collari da cane, ballano e si toccano. 

Riccardo è lì in mezzo, la camicia blu sbottonata che mostra il torace privo di peli, la faccia inespressiva.. Gli occhi languidi sono esausti, delusi. Gira le spalle alla folla e mi viene addosso. Ha il naso che gli cola, la bocca ricorda una ferita. 

«Hai trovato la tua ragazza?»

«L’ho vista con un altro. Adesso non ho più una ragazza.»

Dovrei dirgli che mi dispiace ma non riesco a mentire, così dico altre cose. 

«Mio padre è morto quando avevo 12 anni. Siamo state io e mia sorella a trovarlo. Aveva la faccia affogata dentro una tazza di latte scremato. La colazione era il pasto che gli piaceva di più. Andavamo da lui ogni domenica mattina. Ci stava aspettando per iniziare. Aveva la tavola apparecchiata per tutti e tre. I biscotti con la glassa di cioccolato a centro tavola, il pane tostato e il burro su un piattino a lato. Anche una brocca piena di succo, e le uova che fanno tanto bene. Stava seduto a tavola quando ha avuto l’ictus. Cadendo di colpo ha fracassato la tazza ed è rimasto lì con la lingua in fuori. Ho pensato che avesse la faccia arrabbiata, sicuramente perché non era riuscito a finire il latte.» 

Quello che non dico è il senso di sollievo che ho provato, la fine di quei pasti nervosi, i bocconi da masticare con attenzione e poi deglutire, il corpo che si muove a scatti, lui che mi preme il dito contro la schiena per farmi stare dritta, l’espressione scontenta ogni volta che mi guarda: “Non riesci mai a fare niente di normale”. 

«Ho una sorella gemella che ha dei progetti grandiosi per il suo futuro, mentre io voglio solo stordirmi.» 

Riccardo fa scorrere le dita sporche sulla mia faccia. 

«E’ una storia terribile.» 

La sua gentilezza mi fa sentire vulnerabile, ma non è fame o desiderio quello che sento quando mi tocca. Non c’è urgenza nella sua lingua sul mio collo. Siamo impacciati quando ci sfioriamo attraverso i vestiti, i respiri ansanti come se avessimo corso. Le palpebre di Riccardo hanno una sfumatura violacea. Si curva verso di me, gli occhi chiusi. Sento il sapore del suo respiro. È dolce come un succo di mela. Mi piace così tanto che mi si stringe lo stomaco. La sua tristezza, quando mi bacia, mi frana addosso di colpo, inaspettata. Mi infetta con i ricordi della sua vita, come una malattia. Mi giro quando sento la pressione di altre mani sulle scapole, al centro della schiena. 

«Posso?» 

Edo ha l’espressione beata di quando è molto fatto, gli occhi rimpiccioliti e arrossati. La faccia di Riccardo si sgretola come un puzzle, confuso. 

«Ti va, Sara?». 

Scuoto la testa.

Mi allontano. Da entrambi. Sento il suono provocato dall’attrito dei loro corpi, il risucchio salivoso dei loro baci. Mi siedo su un pezzo di tubo e comincio a tremare. Vorrei essere così, vivere sotto un sasso e ascoltare, immobile le storie delle persone. 

Una ragazza con il piercing all’ombelico e i capelli rosa shocking ondeggia come un’odalisca, mentre fa una serie di giravolte e piroette prima di crollare. È talmente magra che la luce della luna le passa attraverso i vestiti. 

«Tutto a posto?»

È sdraiata sulla schiena, dimena le braccia sottili come zampe di insetto, una peluria setosa le copre il viso. 

«Vedo il tuo dolore, il dolore che zampilla via da te come acqua. Oh. La verità dilla ma dilla obliqua o renderà tutti ciechi. Emily Dickinson, sai?»

«No, mi dispiace, non la conosco. Vuoi alzarti?»

«Si sta così bene qui a contatto con la terra. È l’unico momento in cui non ho paura.»

Restiamo vicine senza parlare, io seduta con le gambe ripiegate sotto di me e lei sdraiata. A un certo punto devo essermi addormentata, la testa mi ciondola sul petto e un filo di saliva mi cola dalla bocca. Sono sola quando Edo mi afferra la mano. È lucido di sudore. «Andiamo via, qualcuno si è sentito male. Meglio andarsene prima che arrivi la polizia.». Ho le gambe tremolanti mentre mi alzo. 

«Sei sicuro?»

«Me lo hanno detto, ma comunque è meglio scappare finchè si può.»

Stringo la sua mano, mi ci aggrappo con il cuore che batte e iniziamo a correre, come se fossimo bambini in una favola inseguiti da una creatura magica. Ci districhiamo dal groviglio arruffato di gente che ci sfiora, che sbanda in direzioni oblique. Le pupille di Edo continuano a essere troppo piccole, l’effetto della droga è ancora in circolo. 

Riccardo guida con la schiena dritta, la postura perfetta che non ho mai avuto, le braccia rigide e le mani impugnano il volante come da manuale di scuola guida. Sento il suono delle sue lacrime prima ancora di vederle. Un lamento dolce, la consistenza salina che rischia di fargli saltare le lenti a contatto e gli impedisce di guidare. Nessuno di noi del resto ricorda dove andare, adesso. 

Ci fermiamo in uno spiazzo aperto, l’aria fredda della notte ci asciuga il sudore addosso. Ho i polpacci pieni di piccole ferite, le braccia piene di striature rosse di erbe infestanti e morsi di insetti. Quando il caldo arroventa il metallo della macchina vado a dormire fuori. Non troppo vicina dai corpi curiosamente attorcigliati di Edo e Riccardo. Il suono delicato del russare di Riccardo, e quello più fastidioso di Edo fanno da contraltare al sottofondo lamentoso degli automezzi, a quello più insistente e lontano del primo risveglio del mondo. 

Quando mi sveglio Edo mi sta facendo una specie di solletico. 

«Ti ricordi tutto?»

«Ho un vuoto di memoria dopo aver baciato Riccardo. Ho incontrato una ragazza che lanciava in giro versi poetici. E poi siamo scappati». 

«Baciarlo non ha significato niente per te?»

«Ero sballata. Sai come succede.» 

Un cenno con la testa. 

«Chiaro.»

«Dov’è Riccardo?»

«Siamo a corto di benzina. Abbiamo i cellulari scarichi. È andato a cercare aiuto.»

«In mezzo al nulla?». Un’alzata di spalle. «Da qualche parte ci sarà qualcuno.»

Mi viene quasi da ridere. Io non porto mai il cellulare ai rave e Edo lo sa. Resto ferma, le mani poggiate in grembo. La gola rasposa per la mancanza di idratazione. 

Non riusciamo a scollarci dalle ombre proiettate dai nostri corpi buffi, anchilosati. Potremmo restare qui per sempre, fino a disseccarci come piante, dimenticati da Riccardo e da tutti gli altri. 

Il latte scremato fa bene, pensa mio padre mentre dispone il cibo per quella che sarà la sua ultima colazione. Per le bambine è l’ideale. Proteine senza la concentrazione nociva di grassi.

Sento il dolore di Riccardo prima ancora di vedere la sua ombra che si staglia a terra, la sua voce che conserva tracce impercettibili di pianto, mentre grida i nostri nomi.  

 


 

Bình luận


WhatsApp Image 2024-04-12 at 10.29.47.jpeg


Se vi va di supportarci… offriteci un caffè ☕
Non c’è trucco, non c’è inganno: potete mettere quanto potete e volete, senza minimi.
Come? Qui sotto trovate un link PayPal, dal quale potete facilmente inviarci il vostro sostegno 
(Non avete PayPal e volete sostenerci? Scriveteci e vi spieghiamo come fare!)

Se rifioriamo e ci rinnoviamo è anche grazie a ciascuna e ciascuno di voi!

Qui il link 
👇👇
https://www.paypal.me/lorenzvi

bottom of page