Testo di Marco Canneva
Illustrazione di Elisa Terranera
Al funerale di mio padre precedevano la bara ed erano tutte un gemito e una smorfia e poi pianti rumorosi. Che insolenza. Mi confuse notare che il loro dolore era autentico. Vederle accolte così in famiglia mi faceva imbestialire, del resto, ero certo che erano state le sue amanti.
Le avevo viste insieme a lui una prima volta due mesi prima, davanti Gucci. Una, la più atletica, camminava su gambe muscolose, un po’ curve e dai polpacci torniti. Il corpo florido dell’altra prometteva affetto e premura.
Seguii spaventato il terzetto. Prima si fermarono a bere un bicchiere in un bar; il tempo per un selfie con le borse nuove e via verso un altro locale: monodose di rhum e quindi a cena.
Mi preme ricordare che mio padre era stato uno dei massimi finanziatori della chiesa locale. Un uomo forgiato dal lavoro e dalla devozione alla famiglia.
Lo osservai mangiucchiare un sigaro, con le mani arpionate alle spalle delle donne. Avrei voluto dirgli che non era un buon esempio per me, avrei voluto avvicinarmi e dirglielo, ma si sarebbe limitato a studiarmi con un brillio di piacere negli occhi. Se fosse successo avrei risposto con qualche goffo pugnetto, nonostante io non ami la brutalità.
Mio padre morì per una debolezza del sistema nervoso, una insufficienza cronica di un neurotrasmettitore.
«Prima cala lentamente,» aveva detto il medico «scarseggia, si dimezza e porta a un’eccitazione nervosa, dalle parti del sistema limbico».
Quando il neurologo pronunciò il termine limbico lo associai a un limbo dantesco in cui era sceso mio padre e successivamente, in maniera più rapida, anche mio fratello. Ero comunque consapevole che il difetto fosse genetico.
Mia madre, una psicologa che si guadagnava da vivere scrutando visceri di rettili in dirette su Instagram, non ascoltava i medici. Trovava la diagnosi una forma ridicola atta a cercare ordine nel disordine.
«Il nesso causale fra malattia e morte è tutto da dimostrare» diceva «ne va del destino e della speranza».
Quando le dissi che suo marito, ovvero mio padre, incontrava altre donne, aveva in mano il posacenere dove lui era solito spegnere i suoi sigaretti Montecristo.
«Che innocente che sei» mi disse.
E mise più attenzione nello stendere le foglie di tabacco bruciacchiato, come se stesse schiudendo una pergamena.
A poche settimane dal funerale, ricoverarono mio fratello in neurologia. In una famiglia che da generazioni abbracciava varie sfaccettature della spiritualità – solo io faticavo a trovare il mio ruolo – lui se ne era impossessato in maniera istituzionalizzata: anni prima si era fatto prete, uno squisito prete che celebrava la messa online. Lo trovai in reparto sotto le coperte: un volto astuto spiava intorno a sé. La fronte era bagnata, le guance arrossate.
«Vorrei avere la santità di mamma,» mi disse «e non ce l’ho, non l’ho mai avuta».
Mio fratello non era in sé e la bestemmia che seguì ne diede conferma. Mi chiesi se la malattia avesse fatto regredire anche il suo stato cristiano, come se sbattezzato si trovasse ora sull’orlo dell’inferno o alla sua fine. Poi chiamò l’infermiera e la implorò di far entrare le sue amiche. Fui sorpreso di vedere le stesse due ragazze con cui mio padre aveva bevuto, passeggiato e cenato.
Di loro ora mi spaventava il petto. La più magra portava due sfere perfette dalla pelle tesa e abbronzata. I seni dell’altra assomigliavano a due gocce carnose pronte da un momento all’altro a colare lungo il torace. Si chinarono su di lui e lo accarezzarono mentre salmodiava al telefono la sua ultima funzione.
Me ne andai.
Morì una settimana dopo, fra le preghiere di ringraziamento di medici e infermieri che non ne tolleravano più l’indole bellicosa. E fra le urla delle due amanti che a capelli sciolti si erano fatte trovare davanti all’ospedale.
«Anche tuo figlio è morto» dissi a mia madre piangendo. Stava osservando il rosario di quercia di mio fratello. Con l’unghia dell’indice seguiva le venature del legno come se queste le parlassero.
«Sei molto vago quando parli di morte,» disse «Prima o poi dovrai trovarla la tua, di morte, non credi?».
Eravamo nella sua stanza o meglio la stanza che era stata dei miei genitori e che ora, spogliata di immagini, santi, sculture, assomigliava a un tempio.
«Hai bisogno di riposare» aggiunse, e mi accompagnò sul letto. A fatica la lasciai fare. Mi aiutò a spogliarmi. Appoggiai i miei oggetti sul comodino e mi adagiai sotto le coperte.
Quindi arrivarono le due donne. Entrarono nella stanza e fecero un cenno a mia madre.
Osservai con attenzione i loro volti. Sebbene diversi, avevano in comune una bellezza tragica che s’incarnava in espressioni incerte: in qualsiasi istante avrebbero potuto o esplodere in una gioia violenta o mortificarsi nella disperazione. Come due sirene mi si fecero accanto, sul letto.
Mia madre ci guardava senza che io provassi imbarazzo. Non facevo nulla per nascondere la mia erezione, ne ero fiero anche se provavo paura, e con la paura la voglia di svanire. Poi prese dal comodino il mio smartphone e ne scrutò lo schermo, la superficie, i graffi, l’opacità.
A quel punto la mia insicurezza e la mia inerzia sparirono e scoprii che la mia liturgia non poteva che passare da oscenità condivise.
Mia madre mi fece un occhiolino. Si era inorgoglita nel vedere il figlio farsi uomo.
Non mi restava che morire. Me lo chiedevano il destino, la genetica e la storia.
Ci divertimmo invece, io e le due ragazze. Mia madre riprese tutto con il mio smartphone. Poi facemmo una pausa. Aprii il mio account su Onlyfans. Caricai qualche foto insieme alle altre e scegliemmo vari pacchetti di abbonamento. Erano brave anche nel marketing, non c’è che dire. Più tardi ci spostammo sul terrazzo e in bagno per altre scene. Ci demmo da fare fino al tramonto quando una specie d’inquietudine mi lasciò esausto.
«Tutti sul letto per le ultime foto» fece una ragazza.
Ci mettemmo a letto tutti e quattro, compresa mia madre e scattammo varie foto ai nostri piedi. Dopo finalmente chiusi gli occhi e mi addormentai. Quando mi svegliai le ragazze non c’erano ma la malinconia era rimasta.
Con quel materiale fatturai una bella cifra, che avrei volentieri diviso con le mie nuove amiche, se non fossero sparite.
In un certo senso quindi morii, o meglio: qualcosa in me mancò, ma non ne ho nostalgia. Capii che bisogna essere più precisi e meno definitivi quando si parla di morte.
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