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Racconti | lo spirincòncolo


 

Testo di Guido Cupani

Illustrazione di Teresa Rosso


 






io alla mia gentil signora l’ho detto, che aver dato un nome allo spirincòncolo prima di farmelo asportare non era stata proprio quest’idea geniale          Lei mi ha ricordato, con la sua adorabile precisione da insegnante di pianoforte, che il nome allo spirincòncolo gliel’avevo dato io, non lei, senza peraltro addurre alcuna prova di tale affermazione, al che avrei potuto semplicemente ribattere, a scanso di inutili diatribe, che infatti nessuno l’aveva incolpata di niente         e il punto non era in ogni caso chi avesse inventato il nome, ma il fatto che uno dei due l’avesse inventato, quando bastava chiamarlo escrescenza, peduncolo, bitorzolo, ma vuoi mettere la pregnanza e l’indimenticabilità del nuovo conio


pregnanza e indimenticabilità che sono proprio all’origine del problema, visto che ora mi si chiede proprio di rimuoverlo, questo spirincòncolo, e non si tratta più di rimuovere un semplice fibroma pendulo sotto la scapola destra, difetto cutaneo non letale e neppure particolarmente preoccupante, per quanto abnorme per forma e dimensioni          si tratta di sbarazzarsi di una creatura con un nome, e dove c’è nome c’è identità


so bene che la mia gentil signora è solita liquidare simili smenticazze con un gesto vago della mano e una smorfia del viso, come quando qualcuno ha mollato una scorreggia, e con la stessa efficacia dissipativa          (ove smenticazza, secondo la di lei stessa definizione, vale qualcosa a metà fra la cazzata e la sega mentale)          come dicesse, hai paura di fartelo togliere, quel coso, e tiri fuori scuse          la colpa è quindi ancora una volta mia, della mia mente contorta, contro ogni evidenza fattuale e contestuale, e io mi domando se a questo punto qualcuno possa ancora pensare in buona fede che non lo faccia apposta          perché di certo non ho paura dell’intervento, almeno non nel senso che intende la mia carissima, il cui inclito idioletto meriterebbe l’analisi di un linguista volenteroso


lo spirincòncolo, sia detto per inciso, è spuntato parvo parvo come un filino da minestra, qualche millimetro di lunghezza appena, per poi evolvere in spaghettone e in pappardella, con tutti gli opportuni attributi di peso, lunghezza ed elasticità          sulle prime rimaneva irraggiungibile allo sguardo, anche contorcendomi davanti allo specchio, isolato com’era praticamente al centro della schiena, accessibile solo alle descrizioni della consorte, ma anche per questo il tempo è stato galantuomo: ora riesco a vedermelo eccome, girandomi appena sul fianco sinistro, alzando il braccio destro e abbassando lo sguardo riflesso dietro l’ascella          bruno-rosato; color biscotto sotto il sole, quelle rare volte che mi capita di esporlo, per disattenzione più che per volontà, ad esempio in spiaggia; pallido e spaurito al contrario durante i mesi invernali, come il pene di un frate ottuagenario, e similmente floscio          il nome è spuntato più o meno quando l’oggetto aveva già le dimensioni e la rugosità tipiche del picio senese         spi-rin-còn-co-lo: lo si còmpiti accuratamente, perché il linguista di cui sopra possa fare il suo lavoro, ovviamente senza polemiche         non duole, almeno finché si evita di strusciarlo su indumenti o superfici, o di lasciarlo libero di penzolare a piacimento, come accade prima e dopo la doccia; forse potrebbe rimanere dov’è, se ciò non cominciasse a comportare scelte di guardaroba peculiari e una crescente diffidenza nei confronti dei miei simili, in contesti che di per sé non la giustificherebbero,          la crescente paura di dare le spalle a qualunque entità sia appena più consapevole di un muro          l’impressione di portarmi addosso, io, ben visibile a tutti, un carico di onta di cui non posso sgravarmi


soprattutto, la cappa che è calata a un tratto tra divano e televisore la sera che ho inavvertitamente cambiato canale su un programma di bizzarrie dermatologiche          un pateracchio lanciato nell’etere, appeso alle sottoportanti ortogonali dello schifo e della curiosità morbosa, di certo ben noto alla mia amatissima, visto che ha esclamato ah, la conosco questa, è la dottoressa schinciabùtteri, subito mordendosi la lingua          io muto come un cavedano, incapace tuttavia di premere il pollice sul pulsante a freccia          ambedue colpevoli, ciascuno a suo modo, congelati dal monologo finale di un poirot armato di bisturi: tutta ce la siamo guardata, quella puntata, e poi anche la successiva, e non erano neanche i nostri crimini quelli che vedevamo dissezionare: cheratosi seborroiche, cisti trichilemmali, pori dilatati di winer, corni cutanei, e ovviamente lipomi, più lipomi di quanti un individuo normale gradirebbe veder incidere in un’intera esistenza          temendo o forse sperando che d’un tratto la sorridente sterminatrice di pustole balzasse fuori dallo schermo con un’ampia falcata e affrontasse finalmente l’elefante nella stanza, o meglio la sua solitaria proboscide, tranciando in due la nostra siamese apnea forzata

in silenzio siamo andati a letto, in silenzio ci siamo alzati il giorno successivo          quel silenzio mi ha detto più di quanto volessi sapere sull’abbassarsi della soglia di tolleranza della mia dolce metà nei confronti dei miei difetti corporei


e così l’indomani a colazione ho dovuto fare appello a tutte le mie forze fisiche e mentali, richiamandole dai quattro angoli del corpo, per bisbigliare alla compagna della mia vita, nell’atto di lavastovigliare la mia tazzina, forse dovrei andare a farmi togliere il coso, lì, lo spirincòncolo          gliel’ho detto volgendole la schiena, proprio quella schiena, che mi ha permesso di evitare il suo sorriso smagliante mentre rispondeva, finalmente respirando, sì, amore, forse dovresti andare a fartelo togliere


come vedete non ho problemi ad ammettere, in generale, che sono stato io ad avere una certa idea quando in effetti sono stato io ad averla          ma soprassediamo


ora, io so bene che la locuzione andare a farmi togliere non è performativa          che in questo caso l’asserzione non comporta automaticamente un’azione, per cui uno potrebbe giustamente incalzarmi, allora, questa telefonata, la fai o non la fai,          sono passati tre giorni, una settimana, un mese, come la mettiamo          uno sarebbe sicuramente autorizzato a mettermi alle strette, a inchiodarmi alle mie stesse parole, a usarle come strumento intimidatorio o addirittura, potendolo, escissorio, non discuto          ma uno, appunto, non mia moglie, lei no di certo, non dopo che le ho fatto presente a chiare lettere qual è il nodo della questione, l’impedimento dirimente, il cicciolo mentale che mi angustia          gliel’ho spiegato a chiare lettere quella sera stessa, il problema dell’aver dato un nome il terzo incomodo          come ho già avuto modo di precisare, ho lasciato benevolmente che me ne incolpasse (sapevo che l’avrebbe fatto, con la sua solita, tollerabilissima delicatezza) affinché non restassero fra noi zone di silenzio, sacche dermatiche di non detto, praterie verbali su cui uno dei due avrebbe potuto scrivere hic sunt leones, se ci fosse stata la volontà reciproca di comunicare almeno questo          aspettandomi, di converso, uno sforzo uguale e contrario; ma figuriamoci


la mia sincerità è stata punita dallo stillicidio          visto che no, l’amabilissima a parole non chiede nulla, non insiste affatto, ma ha un modo tutto suo di pretendere senza pretendere


e in questo caso, scusate, l’obiezione secondo cui sarei il solito paranoioso non regge; qui si tratta di determinare che cosa è normale e che cosa non lo è, o meglio che cosa si può accettare che un uomo normale debba normalmente sopportare, sì, e passi pure la pressione snervante a farmi vedere da uno specialista, sono altri gli episodi a cui mi riferisco        perché se un uomo normale deve normalmente sopportare che la moglie, la luce dei suoi occhi, parli alle sue spalle credendolo addormentato, allora,

e con parli alle sue spalle, sia ben chiaro, intendo letteralmente che la moglie intavoli una conversazione intima con le spalle di lui, ovvero, fuor di sineddoche, con il fibroma che ne pende        e non una, ma più notti di seguito, a luce spenta, a fior di guanciale conversazione intima, dolce, pissi pissi smack smack, e spirìnchio qui e spirìnchio lì, nomignolando addirittura, quel parlare chioccio che lei riserva ai suoi favoriti e che il sottoscritto non ricorda aver sentito rivolto a sé stesso dai tempi del fidanzamento        solo perché il sempre sottoscritto si è girato sul fianco dandole la schiena, cosa che di solito fa soltanto a mezzo il sonno, lasciandole per così dire il campo libero con l’altro, e in più l’illusione di non essere scoperta,


e se è normale che l’altro di punto in bianco addirittura le risponda        sì, proprio lui, il bastardo, l’accresciuto, il parassitozzo        tirando fuori da chissà dove una voce maschia, giancarlogiannina, fìmmina, prima ’i parrari mastica i paroli, giuro, non sto scherzando, papale papale, che se al suddetto marito fosse rimasto un po’ di fiato in canna c’era da scompisciarsi dal ridere,


e lei, carino, perché mi tratti così,


e lui, zìttiti, arrusa, ca mi cutturi, e va bene che lo dice per gioco, senza volontà di ferire; ma che lo dica a lei, all’intoccabile, a cui anche le carezze più molli danno fastidio se passate contropelo,


fino al punto di far rimpiangere al sottoscritto di non essersi davvero addormentato, perché quello che segue, palpiteggi, stridulii, strapponamenti, non si può per decenza non soltanto descrivere, ma neppure origliare,


e posto che possa esser tutto un sogno o una farneticazione, perché è impossibile credere che quanto si è udito sia reale: l’uomo in questione non è comunque autorizzato, dico io, a prendere le doverose contromisure?        specificamente, a posticipare qualsiasi azione che porti alla separazione fra il proprio corpo e l’oggetto di cui sopra        o non è forse quel che dovrebbe desiderare anche la moglie, giudicando da come si comporta?


altrimenti, ragionando in modo abnorme, si potrebbe supporre che il di lei insistere per l’amputazione abbia motivazioni molto meno nobili          si potrebbe arrivare a pensare, per assurdo, che il suo intento sia, come dirlo senza diventare scurrile?, credo abbiate capito


rincresce ammetterlo, ma per quale altro motivo avrebbe ricominciato a suonare i preludi di skrjabin prima di cena, lo sguardo svagato sopra lo spartito, rivolto alla finestra, con queste belle serate luminose che sono tornate?          perché sarebbe andata a farsi la messa in piega a distanza di poche settimane?          perché soprattutto avrebbe smesso di tirar fuori la questione dei bambini, che riemergeva puntuale ad ogni luna, costringendomi, è vero, al dribbling selvaggio, allo strambolozzo impudendo, ma è un buon motivo per parlarne con un altro?          e il modo che ha ultimamente di mettersi di tre quarti quando mi parla, sempre fuori asse, come a sbirciare una reazione da dietro? e non dovrei andare in bestia?


e mi pare anche, beffardamente, che alla fine della fiera tutte queste domande retoriche mi arrivino proprio da lì: dallo spirincòncolo          che dallo stesso cul-de-sac anche lei peschi i suoi lemmi e le sue idiosincrasie          arrivo a illudermi, a volte, che il mio io sia rintanato laggiù, e che la mia pupilla proprio per questo mi ami, ossia che mi ami in esso e attraverso di esso          almeno finché lui non comincia a chiedermi che fine facciano le parti asportate dalla dottoressa strizzaputrécchie, quando la telecamera si volta dall’altra parte: che cosa aspetto a scoprirlo?          le frattaglie, i rimasugli dell’operazione, tutti trafitti e smozzicati, hanno il loro sacchettino sterile e differenziato? o basta un volgarissimo cestino?


sì, sarò stato pure un marito tutto fuorché ideale, incapace di bearmi della musica di lei nella sua spontaneità, come lei vorrebbe;          per di più prono al melodramma e al superlativo tagliente          e come possibile padre prospettivo, lasciamo perdere           ma una punizione così terribile non me la merito, ne converrete, essere escisso da me stesso          


com’era quella battuta irripetibile: che te ne fai di un uomo tutto intero quando è solo di una certa propaggine cavernosa che hai bisogno?          e dovrei chiamare io il dottore che mi dovrebbe amputare, per lasciar libero l’antagonista spiracolato? libero di prendersi mia moglie?

e continua a crescere, lo sfacciato          mentre io nemmeno più ricordo quand’è stata l’ultima volta che la mia adorabilissima mi ha chiamato per nome




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