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Racconti | Male


 

Testo di  Apolae

Illustrazione di Alessandro Guidi

 

«C’è una cosa, sai, del 2060, che proprio mi manca».

Uno dei due anziani, quello visibilmente più vecchio, si rivolse all’altro comandando una lieve torsione al collo in grafene. Nei suoi occhi languiva uno sguardo dolce e profondo. Le mani erano secche, ferme sul tastierino olografico. Un breve fremito d’emozione era affiorato dalla sua voce, altrimenti monotona. Sedevano su ampie poltrone grigie, levitanti, sospese a pochi centimetri dal pavimento del salotto. Alcune lampade fotocatalitiche diffondevano sulle pareti un disegno di reti violacee che intrappolava i toni algidi del mobilio.

L’uomo meno attempato si strinse nelle spalle, sorridendo curioso: «Cosa ti manca, papà?».

«Il MALE» rispose. «Così chiamavamo il nostro Musicatore Adattivo di Livello Entropico».

Scandì le parole con tale accuratezza che sembrava volesse assaggiare i propri suoni sintetizzati. Frattanto, un braccio della poltrona iniettò una soluzione fisiologica nel polso di entrambi. Il figlio era già alla ricerca di quell’oggetto nel proprio dispositivo ipodermico di realtà aumentata tetradimensionale. Un ticchettìo appena percepibile. Sfiorando il lobo dell’orecchio destro, il più anziano aggiunse: «A pensarci bene, in effetti, forse è più una cosa da 2040. Non importa, comunque. Ho appena limitato la mia IA. Niente più ricordi artificiali.».

Ronzii sommessi, provenienti dalle pareti opache del locale, accompagnavano la conversazione.

«Ci sono cose che preferisco scordare, almeno in parte. Il MALE è una di queste».

Dei due corpi, nessuno era presente. Quel dialogo avveniva su due superfici virtuali trasparenti, dalle quali si proiettavano le immagini, i suoni e gli odori degli interlocutori. Di tanto in tanto, secondo una tempistica cadenzata, un cubo emetteva lungo il perimetro della camera, dall’alto verso il basso, fasci infradescenti che si estendevano gradualmente fino al centro dello spazio. Si trattava di un meccanismo programmato di sterilizzazione dell’ambiente.

«Non ci ho mai visto niente di speciale nel MALE, a dirla tutta.  Perché ti piaceva così tanto?», chiese il figlio inarcando la guancibola. Dopo una breve pausa di concentrazione, il padre rispose: «Perché ti bastava attivarlo per sentire la musica più adatta al tuo umore. Il MALE ti leggeva dentro. Era come tuffarsi in un buco nero e poi riemergere in una dimensione parallela schizzando fuori da un buco bianco».

I due conversarono buona parte del pomeriggio, fino a cena. Inghiottirono alcune pillole liofilizzate di alghe e cnidari, accompagnate da acqua arricchita.

«C’è una cosa che non mi hai mai raccontato, papà».

Un androide era appena entrato nel salotto per una breve manutenzione allo sterilcubo.

«Cosa, figliolo?».

Il rumore di una saldatura a freddo intervallava il colloquio tra i due anziani.

«Siamo mai riusciti ad abbracciarci? Io e te, dico, magari anche la mamma», aprendo i palmi delle mani, quasi a giustificarsi della domanda.

«Intendi con le braccia, come si faceva mezzo secolo fa?», mimando il gesto.

«Sì, pensavo proprio a questo».

L’androide, intanto, usciva dalla scena smaterializzando una porta nel muro.

Il padre si sfiorò il lobo dell’orecchio sinistro con un’espressione d’incommensurabile tenerezza.

«Ho appena trovato qualcosa nel mio supporto mnemonico. Te lo sto trasferendo con il programma di telepasìa». Indicò il visore osmotico con l’indice puntato in avanti.

«Guarda che me ne sono accorto, che hai appena creato un nuovo ricordo. Avrò settant’anni, ma non sono mica rimbambito!».

Lo disse scrollando la testa, a metà tra l’offeso e il deluso.

«E allora…che problema c’è? Anzi, sono felice che tu l’abbia notato. Il bene, almeno quello, voglio rammentarlo».

I trasferimenti sensoriali furono completati in pochi hyperbit, rendendo la memoria fruibile per entrambi.

«Grazie, papà. È meraviglioso vedermi così piccolo, che mi tuffo nel vostro grande abbraccio». Esperienziare l’evento rilassò le sue sopracciglia.

«Ti importa davvero, adesso, che questo ricordo sia reale o inventato?», lo incalzò il padre.

«È difficile dirlo. Ci devo pensare su».

L’immagine tremò a scatti a causa di un difetto di connessione.

«Lo credo anch’io».

Il figlio esitò un attimo, poi si lasciò andare a una nuova domanda:

«Riusciremo ad abbracciarci ancora, anche solo una volta?».

«Intendi con le braccia, come si faceva mezzo secolo fa?», rispose l’altro, mimando di nuovo.

Il figlio sorrise, e subito il padre abbassò le palpebre interrompendo la sintetizzazione della propria voce. Pronunciò le parole a stento, con una sottile tonalità rauca: «Il nostro ricordo è ora dentro di te. Se lo vuoi, ti accompagnerà per sempre. Cosa cambia, in fondo, tra un abbraccio fisico e un abbraccio immaginato?».

Rimasero per qualche istante in silenzio.

Dopodiché, con una lieve pressione contemporanea sulle loro pulsantiere, attivarono insieme il MALE. Le proiezioni, stratificate a ridosso della frequenza cerebrale di ciascuno, si fusero sulle carezze di uno standard jazz del secolo precedente - Yama, suonato dai Messengers di Art Blakey - che, lento, riempì il vuoto.

«Sai che mio padre nacque ad aprile? E anche io, tempo dopo. Poi, sei venuto tu. Stesso mese».

Lo disse con tono paziente e soddisfatto, quasi emergesse da una nebula dopo due generazioni d’attesa. Il figlio recepì il dato e lo incrociò nel database.

«Certo che lo sapevo, ma non ho mai considerato questo collegamento tra noi. Come fossimo tre punti sovrapposti».

Annuì alla propria stessa osservazione mentre il padre aggiunse: «L’universo ci fornisce innumerevoli probabilità, quindi tutto è possibile».

Un riflesso violaceo percorse la stanza.

«No, papà, io non credo sia l’universo», ribatté l’altro.

«Dunque cosa, secondo te, figliolo?».

Dagli schermi illuminati nessuno dei due diede una risposta. Bastò loro sentire l’assolo della tromba accasciarsi sul finale.




 

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