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Racconti | Mio padre


 

Testo di Valentina Cottini Illustrazione di Sofia Bordini

 

“Vali.” Mi chiama sottovoce mio padre sulla soglia della cameretta. La mia porta rimane aperta perché così posso vedere la luce del corridoio quando devo addormentarmi. Ho otto anni e il buio è ancora la cosa che mi spaventa di più. Perché nel buio non vedo le cose; nel buio arrivano i pensieri difficili. Ho appena scoperto che esiste la morte e quando arriva il buio, mi chiedo come farò quando mio padre e mia madre non ci saranno più; immagino che farò stampare in grande, ad altezza naturale, la foto che ha la mia nonna paterna all’entrata di casa, che li raffigura giovani davanti a degli alberi che ridono molto.

“Vali.” Ripete mio padre, piano. Nella penombra del corridoio intravedo la sua figura alta, gli occhiali da sole squadrati, una sciarpa. La sua voce serena taglia morbida il mio sonno. Strofino gli occhi e mi chiedo che ora sia. Dalla fessura che chiedo sempre di lasciare aperta in fondo alla serranda filtra una luce rossastra che non mi è familiare.

“Papi.” Gli rispondo con un filo di voce. Nel risveglio, muovo piano i piedi intorpiditi e mi stringo nelle lenzuola di flanella.

“Vali, nevica! Vuoi venire a vedere?”

Mi alzo di scatto a sedere sul letto, ancora intontita dal sonno; l’entusiasmo mi preme sul petto.


“Mettiamoci qualcosa che usciamo.” Mio padre mi aiuta a vestirmi, mi fa indossare dei pantaloni sopra a quelli del pigiama, per evitarmi il trauma del freddo al risveglio, cerchiamo i doposci, che sono già nella scarpiera per la stagione, poi mi alza il cappuccio sulla testa e mi avvolge con una sciarpa arancione. Mi dice di infilarmi i guanti e mi prende per mano; andiamo in corridoio, in casa dormono tutti. Apre la porta d’ingresso che dà sul cortile di sopra, e una ventata gelida mi arriva in faccia cogliendomi di sorpresa. È buio, ma il cielo è chiaro. Nel cortile dev’esserci quasi mezzo metro di neve. Il bianco sovrasta tutta la collina, e Candia nella notte scompare. Non riesco a capire che ora sia, ma sento di star facendo una cosa proibita e fremo per l’emozione.

“Che ore sono, papà?”


“Sono le cinque. Ma guarda quanta neve. Mi sa proprio che domani non si va a scuola”. Mi dice complice, sorridendo. La sua voce ha un suono che mi ricorda le piccole coperte di pile quadrate che mi compravano i miei alle fiere: è calda, morbida e accogliente. È il momento perfetto per uscire: sta smettendo di nevicare, i fiocchi sono grossi ma cadono isolati. Scendiamo piano le scale della corte, i gradini sono completamente coperti e mio padre mi fa camminare dietro di lui, una mano nella sua, l’altra sul corrimano. Faccio scivolare il palmo lungo la ringhiera, spazzando via la neve con le dita. Dallo spessore dei guanti sintetici posso sentire il metallo gelido. Vorrei sedermi e fare lo scivolo e rotolarmi in questa nuvola bianca. Ci prendiamo a palle di neve. Mi stupisce come il mio papà che non ci vede riesca a colpirmi solo ascoltando la mia voce. So che funziona così perché spesso, quando torna dal lavoro, mi fa fare il gioco del telefono con il nostro primo telefono cordless. Lo nasconde in giro per casa e poi lo fa suonare e io devo trovarlo ascoltando da dove proviene il suono. Poi costruiamo un pupazzo di neve e decidiamo di chiamarlo Martino. La mattina dopo diremo a mio fratello che Martino è un nostro amico arrivato nella notte e mio fratello, dal suo metro e tre anni di ricci, lo guarderà dubbioso col naso che sbuca da una sciarpa a righe.


Ma per ora manca ancora qualche ora all’alba e mio padre mi chiede se ho voglia di fare due passi. A otto anni ho già l’abitudine di camminare da sola, abito a qualche centinaia di metri dal paese, la strada per arrivarci è poco trafficata e il sabato pomeriggio spesso torno da catechismo a piedi. A mia madre piace molto che io cammini: quando c’è bel tempo è un’ingiunzione, ma ogni tanto i genitori di qualche mia compagna o compagno di catechismo mi danno un passaggio. Teme che io ingrassi. Certe volte glielo sento dire con papà, con zia. Sono tutti molto preoccupati per questa faccenda, mi dicono che la preoccupazione nasce dall'amore, ma lo sguardo è soffocante, le parole dure, e io vivo questa cura impacciata come un piccolo dolore.





Camminare a un certo punto diventerà una cosa bella, ma più tardi. Perciò quando mio padre mi domanda se ho voglia di passeggiare un po’, percepisco una scossa leggera allo stomaco. Ma il cielo è così strano e la campagna così bianca che sento che ho voglia di tuffarmici, così accetto.

Prendiamo per le vigne. Il colle davanti a casa nostra è ancora diviso in filari e noi ci camminiamo in mezzo. La salita non è un’ingiunzione questa volta, e con mio padre accanto e con tutto il bianco attorno, noto per la prima volta quanta luce faccia la neve nella notte. La campagna nel buio è spaventosa, nel 2002 il Comune di Ancona non ha ancora distribuito lungo la strada di casa mia la prima fila di lampioni, perciò la sera, in inverno, fa paura persino scendere a cercare le uova o il vino in cantina.

Ma questa notte con la neve è diverso. Con la neve si vedono i passi, si distinguono i profili delle piante, delle case, dei tralicci; individuo il viso rassicurante di mio padre nel cappuccio della giacca a vento bianca. Trovo nella neve un’alleata contro il buio; quando racconterò questa cosa a mia madre, lei mi spiegherà che la paura del buio ce l’abbiamo tutti quanti dall’inizio del mondo e che per questo si chiama paura primordiale, e la parola “primordiale” mi piacerà così tanto – perché mi ricorda il nome di mio nonno, Primo, e perché mi ricorda il mondo all’inizio di tutto, ma anche quella notte con la neve in cui non ho avuto paura del buio – che a scuola troverò ogni modo per dirla ad alta voce.


Più saliamo, più mi arriva il vento in faccia; mio padre mi appoggia il dorso di una mano su una guancia. Mi chiede: 'Hai freddo, Vali?”. Io gli dico di no, anche se lo sento, perché ho paura che mi riporti a casa.

In fondo il freddo mi piace, e secondo me mi piace perché piace a lui. A otto anni ci sono tante cose che mi piacciono perché piacciono a mio padre. La musica, ad esempio. Gli strumenti a corde e il cantautorato italiano. Gli Inti Illimani, l’Argentina, le polaroid, una canzone che parla di una pulce d’acqua che non so mai come immaginare. I bagni al mare all’alba.

A mio padre piace l’alba. E gli piace il freddo dell’alba. E quando andiamo in vacanza a Grottammare o a Fano o a Pineto, mi sveglia all’alba e andiamo a camminare in spiaggia. Sento la sabbia fredda sotto la pianta dei piedi e mi sembra una contraddizione. A otto anni non conosco la parola ossimoro, ma se la conoscessi la userei. E mentre camminiamo, certe volte mio papà mi convince e ci buttiamo in acqua. E l’acqua all’alba è fredda, ed è luglio, e anche questa mi sembra una contraddizione. Quando usciamo, anche se il sole è un po’ più alto, ho la pelle d’oca. Corriamo verso gli asciugamani e io rido divertita, guardo mio padre e gli dico: “Ma come ci è venuto in mente, papà!”


Mio papà mi risponde: “Siamo due temerari!”

“Due temerari vuol dire che non abbiamo paura del freddo?” Gli domando.

“Anche. Vuol dire che non abbiamo paura di niente.”

Io mi sento forte, mi sento fortissima. E mio papà mi dice: “Temerari come Joe”.

Poi comincia a cantare: “Io sono un uomo, tutti mi chiamano Joe Temerario… Faccio mille acrobazie col mio aeroplano, e diecimila volte ho già toccato il cielo…”

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