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Racconti | Mito del figlio della bufera


 

Testo di Marco Marra Illustrazione di Simone Paesano

 

S’erano conosciuti su un giaciglio di sterpaglia e foglie secche, mentre fuori imperversava la bufera. L’aveva gridato il sacerdote, a tutti: non conoscetevi quando le nuvole oscurano il cielo. Ma loro s’erano desiderati e, troppo giovani e nemmanco sposati, non avevano resistito.

Lo concepirono quella notte e quando nacque se n’accorsero subito: brutto, rattrappito, curvo, rugoso, puzzolente, barbuto che pareva un vecchio pure ch’era appena nato. L’avevano maledetto chiamandolo: maledizione, iettatura, sbeffeggio, carogna, diavolo, demonio, figlio di demonio, dannazione, mostro, schifoso, nonseinostrofiglio. Lo raccolsero dal suolo ch’era tutto impiastricciato di ramoscelli e fiori urticanti e che pure la barba – ch’era impossibile – era zeppa di tafani e moscacce e pidocchi abnormi, poi l’avvoltolarono nella mantella inumidita e lo portarono fuori dall’abituro. L’abituro non era altro che un monticchio di fango indurito svuotato a mo’ di caverna. C’erano altri abituri a occupare la zona est dell’isola, ch’era dove vivevano gli uomini, mentre a ovest c’erano le scogliere e oltre il mare. I saggi raccontavano che qualcuno aveva costruito una zattera e aveva provato a esplorarlo quel mare, ma nessuno aveva fatto ritorno. I saggi raccontavano che cercare di esplorare il mare era sconsideratezza, che tanto non c’era nient’altro. Solo il mare. Quando qualcuno moriva gli uomini gettavano il suo corpo in mare. Quando qualcuno sottraeva l’avere d’un altro gli uomini lo gettavano in mare. Quando qualcuno giaceva con la donna d’altri gli uomini lo gettavano in mare, e lo stesso facevano con lei. Quando qualche bambino nasceva zoppo o cieco o sordo o troppo chiaro di carnagione o troppo scuro di carnagione gli uomini lo gettavano in mare.


Ora avanzavano lungo la traccia che serpeggiava tra gli abituri. Qualcuno li guardava, e se notava il fagotto che cercavano di nascondere, li additava. Affannavano, annaspavano, trangugiavano aria, si guardavano, temevano. Temevano le nuvole e chi le abitava. Le nuvole erano lontane, il vento a trascinarle, ma se avessero voluto, le nuvole avrebbero potuto andare controvento. Smisero di guardare le nuvole e guardarono il bambino. Il bambino piangeva e si dimenava. S’interrogarono l’un l’altra, senza parlare. Giunsero al tempio. Il tempio era un’accozzaglia di pietre o gettate alla rinfusa o posizionate secondo un ordine geometrico ultraterreno. Pietre enormi, mastodontiche, a delineare il varco che s’addentrava nella terra a fossa profonda. Pietre dipinte d’ocra, d’ocra preso chissà dove, prodotto chissà come. S’addentrarono nel tempio e nel tempio era buio e il buio divorò le loro figure e le vomitò dall’altra parte. L’altra parte era un antro attraversato da un chiaroscuro. Le pareti erano un guazzabuglio di disegni e raffigurazioni e scritte che non erano scritte, giacché in quel luogo la scrittura non era stata insegnata. In fondo c’era il sacerdote, seduto su un trono, e attorno a lui i saggi. Il sacerdote e i saggi avevano gli occhi chiusi: sospirarono all’unisono, poi li schiusero. Loro esitarono, si pentirono d’essersi recati al tempio, e si schierarono a scudo attorno al figlio. Attesero, il sacerdote e i saggi e pure loro. Poi s’acquietarono e decisero di mostrare il figlio al sacerdote. Il sacerdote guardò il bambino: orrido bubboloso giallognolo fetido malato incancrenito. Il sacerdote s’approssimò al bambino, gli odorò il muso rugoso e i genitali rattrappiti e dopo lo afferrò per la barba e lo strappo dal grembo dei genitori. Questi iniziarono a urlare e a dimenarsi a bestie feroci ma i saggi l’immobilizzarono con uno strano incantesimo, costringendoli a osservare inermi il sacerdote che percuoteva il bambino e lo scamazzava qua e là, stringendogli la lunga barba impossibile e scaraventandolo sulla parete e sul pavimento e sul tetto. Su e giù, destra e sinistra. Il bambino non morì. Allora il sacerdote rivolse a uno dei saggi l’ordine. L’ordine era di fornirgli il pugnale. Il saggio s’addentrò nel buio che antecedeva il chiaroscuro e ne sgusciò dopo poco col pugnale tra le mani. Il pugnale era di lucente metallo – che sull’isola non era mai esistito – e affilato e sinuoso a mo’ di serpente. Il sacerdote strappò dalle mani del saggio il pugnale e lo usò per mozzare la barba al bambino. Al bambino immediatamente ricrebbe il ciuffo di barba mozzata ma il sacerdote non parve stupirsene. Dopo restituì il bambino ai genitori e li invitò a tornare indietro.



L’indomani. L’ora del vespro. Cielo triste, stelle che parevano capitombolare giù. Erano in prossimità dello scoglio, vicini l’un l’altra e tra loro il bambino. L’accudivano e lo carezzavano e ridevano e lo facevano ridere mentre le nuvole solcavano l’orizzonte e tuonavano, e tuonando annunciavano l’arrivo del sacerdote. Il sacerdote era preceduto dai saggi e pareva scivolare a mezz’aria nemmanco conoscesse il segreto del volo. Fluttuava e fluttuando giunse in prossimità dello scoglio. Lo scoglio era grande come e più delle pietre del tempio ed era sacro, giacché fu presso lo scoglio che ascesero gli abitanti delle nuvole. Loro videro il sacerdote arrivare e fecero gran trambusto e nascosero il bambino dietro un cespuglio dietro una roccia, dopodiché andarono incontro al sacerdote, il quale chiese loro dove fosse il bambino e loro dissero d’averlo gettato in mare. Dissero ch’era troppo brutto, e osceno ingordo fetido malvagio. Il sacerdote esitò, un saggio gli parlò all’orecchio, un altro rivolse lo sguardo al mare, un altro ancora al cielo. Loro dissero d’essersi attenuti agli ordini degli abitanti delle nuvole ma il sacerdote obiettò: il bambino non era zoppo o sordo o cieco o troppo scuro di carnagione o troppo chiaro di carnagione. Disse che avevano fatto male, che avevano commesso sacrilegio, che avrebbero dovuto attendere il suo responso. Loro risposero: puniteci. E il sacerdote si ritirò pensieroso, seguito da tutti i saggi meno uno. Loro s’apprestarono a recuperare il bambino e giacché non s’erano accorti che un saggio era ancora nei pressi del luogo, andarono dietro la roccia e frugarono dietro al cespuglio. Il saggio allora si rese visibile e li additò e Loro non seppero che fare. Spaventati spaventatissimi, raccolsero sassi da terra e li tirarono verso il saggio. Un sasso acuminato colpì la testa del saggio e questi s’accasciò al suolo. Allora: dapprima controllarono che il bambino stesse bene e videro che stava bene, dopo s’approssimarono al corpo del saggio e presero altre pietre e lo colpirono con quelle e poi gli tapparono il naso e raccolsero ghiaia e sabbia e pietruzzelle e gliele ficcarono in gola e quello tossì che nemmanco ci riusciva, smise di respirare e morì. Sollevarono il corpo del saggio morto e lo trascinarono sulle sponde e lo gettarono in mare ma le onde spingevano il corpo nuovamente a riva. E allora riprovarono, ma le onde spingevano il corpo nuovamente a riva. E allora s’approssimarono al ruscello ch’era più in là e lì gettarono il corpo e giacché le onde del ruscello erano più intense di quelle del mare, il corpo affondò nel mare. Non s’accorsero che lungo il percorso qualcuno li aveva visti, una donna o un uomo o un bambino, non si sa. Uno come loro, questo è certo, uno che corse al tempio varcando la soglia e il buio e avvertendo il sacerdote e gli altri saggi. Il sacerdote e gli altri saggi furono molto preoccupati: la terribile sventura portata dal bambino aveva già iniziato a manifestarsi. Sondarono l’isola in lungo e in largo, fluttuando alti sopra gli abituri ma attenti a non oltrepassare il limite di distanza di sette cubiti dalle nuvole. E nulla trovarono. Penetrarono gli abituri. E nulla trovarono. Soverchiarono gli anfratti e le numerose grotte. E nulla trovarono. Il sacerdote domandò: che siano andati per mare? Un saggiò spifferò all’orecchio d’un altro saggio, che spifferò all’orecchio d’un altro saggio, che spifferò all’orecchio d’un altro saggio ancora: no, non potevano essere andati per mare. Loro, che s’erano rifugiati al buio del tempio, furono rigurgitati all’esterno ch’ormai era mattino. Tra le loro braccia, il bambino. Si diressero verso ovest, lontano dagli abituri e dal tempio e s’arrestarono in prossimità d’una grotta. Posarono il bambino su un giaciglio creato ammonticchiando rami secchi e sabbia bagnata e andarono ad ammazzare un uccello e un pesce non di quelli appartenenti alle razze ch’erano considerate sacre. S’avvicinarono al bambino e all’entrata della grotta. La barba del bambino ora era lunghissima, che s’attorcigliava e s’arrotolava e il bambino era brutto bruttissimo, vecchio vecchissimo, che pareva un centenario. Presero il bambino e lo lavarono nell’acqua del mare e presero le piume dell’uccello e ad una ad una le appiccicarono alla pelle rugosa del bambino utilizzando a colla il grasso del pesce. Rivestirono il bambino con la mantella e gli posarono sul capo una corona di conchiglie e paguri e telline vive. E le conchiglie e i paguri e le telline s’azzeccarono al capo del bambino e pulsarono e vissero e succhiarono la pelle antica e neonata. Loro cinsero il bambino per la vita e lo issarono in direzione della più appuntita tra le stalattiti che pendevano dal tetto della grotta e lasciarono che la cima di quella gli trafiggesse la carne e lo graffiasse. Dopo sventrarono il pesce e l’uccello e unsero il bambino col sangue del pesce e unsero se stessi l’un l’altra col sangue dell’uccello. Eradicarono gli occhi del pesce e li infilarono nella gola del bambino che tossì e pianse e infine deglutì. E fecero lo stesso con gli occhi dell’uccello e con se stessi. Con le dita spansero il resto del sangue sulle braccia e sui piedi e raccolsero la pelle e le carni e i rifiuti e li portarono fuori dalla grotta e li sotterrarono sotto una coltre di sabbia asciutta, sperando di non esser visti da coloro che abitavano le nuvole. Rientrarono nella grotta e n’estrassero il bambino che ora pareva ringiovanito tranne che per la barba e che sul capo portava una corona di conchiglie e paguri e telline avvizzite a mo’ di fossili. Staccarono gli scheletri delle conchiglie e dei paguri e delle telline e li gettarono in mare con tutta la loro forza emettendo versi concitati che non erano altro che goffe preghiere. Allora issarono il bambino e domandarono alle nuvole se volessero prenderlo. Silenzio. Allora si rivolsero al mare e domandarono al mare se volesse prenderlo. Silenzio. Allora strinsero caviglie e polsi del bambino e iniziarono a tirare E il bambino pianse e si dimenò. E tirarono più forte. E il bambino pianse e si dimenò. E tirarono forte fortissimo e le carni unte coperte di piume si squarciarono e il sangue zampillò a fiotti e si rovesciò a cascata e il bambino squartato e diviso in due non smise di piangere e dimenarsi. Allora divorarono il corpo, con le ossa e la barba e il piumaggio e tutto il resto, ma nemmeno mangiucchiato e ridotto a poltiglia e ingurgitato smise di piangere e dimenarsi. Allora s’approssimarono alla scogliera e raccolsero sassi e li mangiarono, di modo che il loro peso aumentasse e fosse elevatissimo e quando raggiunsero il peso determinato si presero per mano – dentro di loro il bambino mangiucchiato e ridotto a poltiglia e ingurgitato a non smettere mai di piangere e dimenarsi – e saltarono giù. Il mare li fece suoi e giacché erano appesantiti dalla scorpacciata di sassi affondarono velocissimi e morirono affogati.


Il sacerdote e i saggi giunsero alla scogliera dopo imprecisato tempo. Scoprirono i resti del cerimoniale e seguirono le tracce e individuarono il luogo in cui Loro s’erano presi per mano. Poi il sacerdote fissò il cielo e dopo il mare e si domandò se fossero ascesi alle nubi o se fossero sprofondati nel mare. Poi il mare gorgogliò e nel gorgoglio udì il pianto del bambino. Poi il mare s’agitò e nell’agitazione udì il dimenarsi del bambino. Allora capì che Loro erano morti e che il bambino invece non lo era.

 

Nota biobibliografica

Marco Marra, classe 1989, è nato e cresciuto a Napoli. Ha pubblicato, insieme a Gerardo Spirito, la trilogia de “Il macabro nel Sud Italia” (Edizioni Horti di Giano): “Racconti sull’Innominabile”, “Immaginate l’oblio” e “Cantico Notturno”, quest’ultimo vincitore del premio Ulthar all’edizione 2023 di Libri da Yuggoth. Per Edizioni Horti di Giano ha collaborato alla stesura di antologie e graphic novel mentre per la collana Novocarnini de la nuova carne edizioni ha pubblicato la novella “L’Avversario”. Altri suoi racconti sono apparsi, in cartaceo o in digitale, su riviste come Zothique e Metatron.


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