Testo di Carlotta Centonze
Illustrazione di Başak Saral Editing di Lorenzo Vercesi
Mi trovo in un brutto guaio: dopo il concerto eseguito insieme ai musicisti del mio trio ho rifiutato fermamente di essere riportato all’albergo dove alloggiavo, preferendo camminare da solo.
Quando ho insistito per non essere accompagnato è stato perché volevo rivedere quegli alberi che avevano accolto il mio arrivo nella sala concerti: un vialone buio costellato di pini che lampeggiavano altissimi, di un verde acceso. Scorrevano sulla mia testa affacciata dal finestrino, ricordandomi quanto ero lontano da casa. Giù da noi non ci sono alberi così eleganti, con quell’aria da vecchio mondo. Una brezza frizzante frusciava tra quei pini, nonostante il caldo, un odore di vita che per me puzzava subito di morte. Ecco un’altra cosa che forse non rivedrò mai più: gli alberi di Roma, le luci artificiali che di notte ne fanno un cimitero di violento splendore.
Ero abituato a camminare, lo facevo sempre a New York quando soffrivo d’insonnia, così ho salutato i miei giovani colleghi senza osare aggiungermi alla loro allegra combriccola, perché nessuno vuole un vecchietto tra i piedi quando festeggia in una città piena di belle donne. Loro sì che non puzzano di morte, quarantenni prestanti con un fiato per riempire il sassofono, una forza nelle mani per far esplodere la batteria. Dissero che li avevo scelti per sentirmi più giovane, la verità è che tutti i musicisti che conoscevo sono morti o hanno il catetere, ed è veramente deprimente suonare con qualcuno che ha un sacchetto di orina che sbuca dai pantaloni. Io detesto deprimermi.
Mi sono incamminato in direzione dell’hotel, che distava una quarantina di minuti. Il tragitto mi consentiva qualche piccola deviazione per ammirare la grande spianata del Circo Massimo e il piccolo tempio di Minerva che avevo visto tanti anni fa in un viaggio con mia moglie. Era ossessionata dall’Italia, infatti conservava in una teca del salotto le palle di vetro con i monumenti di tutte le città, su cui scendeva una neve irreale che ricopriva le costiere, le arcate romane, i giardini di limoni assolati e i tralicci di bouganville. Le ho buttate tutte. Non penso mai a lei, perché non sopporto intristirmi. Per questo quando mi chiamano i vecchi amici di una volta li liquido quasi subito, ci parlo giusto il tempo di constatare quanto si siano rimbambiti e poi li saluto mentre mi preparo per uscire per un concerto. Non dimostro l’età che ho, e questo è merito di certo del mio spirito: una bella doccia, pulirsi le orecchie e badare a tagliarsi i peli che ne escono, sempre più lunghi più gli anni passano, indossare solo camicie ben stirate, ogni tanto una tshirt di un festival jazz di trent’anni fa, perfettamente conservate nel mio armadio, ordinatissimo da quando mia moglie è morta. Sono convinto che un aspetto curato aiuti a conservare la tonicità dello spirito.
Mentre camminavo guardavo più che altro i miei piedi, allungando l’orecchio alla sinfonia dissonante della città: nell’apparente silenzio si potevano distinguere suoni che sembravano aver litigato tra loro, come due amanti sugli sci che scendono per piste separate. La strada che stavo attraversando era deserta, tranne per qualche automobile che risucchiava l’aria con un suono allungato, per poi sparire di nuovo nella notte. Uno scricchiolio di plastica anticipava lo sbucare di un ratto da un cumulo di sacchi dell’immondizia, davanti alla saracinesca chiusa di una trattoria. Gli alberi schioccavano sotto le zampe dei gabbiani, con il petto gonfio da oche, e il loro verso crudele e pietoso interrompeva il silenzio che bagnava tutte le cose come un’acqua scura. Mi aggrappavo alle note, avevano estremità a uncino e rischiavo sempre di ferirmi. Passavo di fronte alla bocca della verità, con il suo ronzio di sfinge, quando mi sono accorto che una ragazzina stava camminando di fianco a me. A una seconda occhiata non era poi così giovane, i suoi abiti tradivano un tentativo di camuffamento della sua età. Portava un cappello rosso, largo in fondo e curvo sulla fronte, un paio di orecchini a cerchio esagerati, una giacca leggera e degli stivali texani. Parlava come se stessimo conversando da ore, e non sono riuscito a interromperla per paura di essere scortese. Faceva domande banali in un inglese stentato, come «Che genere di musicista sei? Uno famoso?». Rispondevo che nei miei anni avevo avuto un discreto successo, abbastanza solido da portarmi ancora in tour a ottant’anni suonati. Non è mica da tutti. Mi diceva che sua madre amava il jazz, avevano in casa due o tre dischi, ma di me non aveva mai sentito parlare.
«Anche io sono un’artista, sai» diceva e intanto mi sorrideva scoprendo i denti furbeschi separati al centro e si tirava un po’ indietro il cappello, lasciandomi intravedere i capelli rasati che le ricoprivano ordinatamente la testa tonda. Aveva un viso bellissimo, come quello delle statue lignee nelle chiese romane, ma sembrava che fosse stato appiccicato per errore sul suo corpo pingue, che dimostrava molti più anni.
«Sono un’artista del riciclo. Tutto trova una seconda vita tra le mie mani, risuscita. Amore, dovresti venire in studio da me più tardi, che ne dici? » mi lanciava sguardi eloquenti e i suoi occhi truccati di nero si allungavano, dandole una strana apparenza da monaco.
«Non penso sia il caso, ma ti ringrazio»
Non mostrando minimamente di aver sentito il mio rifiuto, continuava: «Ti faccio una camomilla e ti mostro le mie creazioni, magari ne vuoi tenere una per ricordo, come souvenir. Mica puoi dimenticarti di questa notte incredibile, nella città eterna. Poi se vuoi ti rimbocco anche le coperte e ti addormento. Tutto quello che vuoi, amore».
Quello che volevo era camminare da solo, e infatti le ho chiesto dove fosse diretta non appena siamo arrivati sul lungotevere. Mi ha proposto di farmi compagnia ancora un po’, era sicura che desiderassi avere una guida. «Mica puoi perderti le migliori attrazioni della città. Sai, avevo un fidanzato americano, un vero stronzo. Però il suo cazzo era bellissimo, accidenti. Comunque tu sei un amore, dobbiamo assolutamente continuare a raccontarci le confidenze fino all’alba, che ne dici?»
La nostra passeggiata non è durata che un istante, che subito ci siamo ritrovati a ridosso del fiume, all’altezza dell’acqua, come se fossimo saltati direttamente dal muretto fin giù. Ho visto i miei piedi traballare vicino alla pietra ammuffita, la puzza di orina ficcata in mezzo al naso e la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa. Sotto al ponte che attraversava il fiume ho visto dei fuocherelli accesi in lontananza su cui informi ammassi di coperte cenciose, nonostante la calura estiva, cuocevano quelli che sembravano piccoli animaletti. Il lungo fiume era sporco, costellato di coperte e cartoni circondati da bicchieri di plastica, gommapiuma annerita e altri oggetti a formare giacigli momentaneamente vuoti. La ragazza mi ha preso la mano, ho visto la sua e mi sono accorto che era scura, più scura del viso. Risuonava nella mia testa un motivetto - tu di-dà, tu di-dà, tu di-daaà. Un passaggio di uno dei pezzi che avevo appena eseguito di fronte a un pubblico elegante, ben vestito. Suppongo che non avrei avuto niente da dire con nessuno di loro, mentre loro pensavano di avere molto da dire con me, e su questa menzogna si basava il nostro patto economico. Facevo sempre risuonare della musica nella mia testa quando la vista era confusa.
Eccomi qua, quindi, nel mezzo di questo guaio. Adesso la ragazza mi sbottona il pantalone e prende il mio organo avvizzito in bocca. Provo a dirle che non c’è bisogno, ma poi forse c’è bisogno. Le sue labbra calde sono elastiche, risucchiano e avvinghiano con facilità sfrontata quel grumo di pelle che mi rimane, ha un sorriso rassicurante sul volto. Socchiudendo gli occhi, mi viene in mente mia moglie in una di quelle foto di quando non la conoscevo ancora, la tenera ragazza dell’Oregon con le trecce bionde, mi sta succhiando l’uccello tenendosi le trecce in alto ai lati della testa con entrambe le mani, come una croce di spighe dorate, poi le mani diventano aggrinzite, è di nuovo lei il giorno in cui è morta e le abbiamo dovuto stringere un fazzoletto intorno alla mandibola fino alla sommità della testa gialla per evitare di macchiare le lenzuola che aveva scelto per la bara con il liquido che le usciva dalla bocca. Una mano maschile mi sta rovistando in una tasca del pantalone semi abbassato, non faccio in tempo a girarmi che mi accorgo di essere circondato.
La ragazza si sta pulendo la bocca, seduta ai miei piedi, e un gruppo di persone, le stesse che prima arrostivano topi in fondo al ponte, ora si avvicinano verso di me, in cerchio. In prima fila l’uomo che poco fa stava cercando qualcosa nei mie pantaloni, vestito di nero e con uno spicchio di luna riflesso sul naso schiacciato e sulla pelle del cranio.
Il fiume scorre e pare avere un proprio tono nel rimestare le sue acque, un borbottio profondo e uno sciacquare rauco, le alghe lunghe e scure sono l’unica forma di vita percepibile in mezzo alla fanghiglia putrida, come braccia decomposte nelle sabbie mobili. Lo guardo aspettandomi una risposta, un segno, invece rimane muto, affrettato nel suo scorrere vorticoso. Mi chiedo che aspetto avrebbe se piovesse su di esso un nevischio luminescente come quello delle palle di neve di mia moglie. Alzo lo sguardo, un bagliore tremendo scende su di me, ed è la fine.
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