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Racconti | Niente caramelle dagli sconosciuti


 

Testo di Francesca Coppola

Illustrazione di Alessandro Guidi

 

«Chi aspetti? »

«A nessuno» rispose il bambino.

Tuccio lo conoscevo di vista. Era il figlio più piccolo della signora delle baracche. La chiamavano ancora così anche se non viveva più nelle baracche e non vendeva più il fumo.

La donna, da un po’ di tempo passava di auto in auto, per la maggior parte utilitarie. Il bambino numero sette se ne stava sul muretto di fronte casa mia. Ciondolava le gambe e lanciava sassi sulla strada.

Non ho mai amato i pargoli. Dopo aver partecipato al primo incontro organizzato con ex amici di scuola, decisi di non partecipare ad altre riunioni di questo tipo. Quella volta il discorso virò, fin da subito, sulla presenza nella nostra vita di eventuali figli. Trascorsi le successive due ore a sorbirmi ogni tipo di gioia e dolore proveniente dalla maternità o paternità. Si parlava della tecnica migliore per curare un semplice moccio, dell’importanza di scegliere la marca migliore di pannolini per evitare dermatiti fastidiose. Era importante seguire la curva di crescita del bambino, per comprendere se il peso o l’altezza fossero in linea con l’età. Finì per salirmi la nausea dopo l’ennesima birra perché non riuscivo più ad ascoltare i miei ex compagni, ora padri fieri di scuole costose. D’altronde mi ero trattenuta non poco mentre fingevo interesse per il dibattito nato sulle somiglianze dall’una o l’altra parte. Vomitai direttamente sul tavolo quando discutevano sulla necessità delle vaccinazioni facoltative.





Da vicino Tuccio era troppo magro e troppo imbronciato. Filomena, la madre del piccolo, aveva quattordici figli e, per quel che si sapeva, questi avevano altrettanti padri. Tutti sparpagliati per strada, a zonzo dalla mattina alla sera. Non si sapeva dove dormissero, forse in piedi, forse accovacciati sotto un ponte, non molto lontano.

Quello che si vociferava era che non vivessero più nella baracca dal giorno in cui, Il ratòn - così lo chiamavano - propose a Filomena il lavoro più vecchio del mondo. Qualcuno aveva azzardato fosse il padre dell’ultimo marmocchio e, da quel momento, fu lui a prendere possesso della casetta di ferro.

Non che nutrissi qualche interesse verso il bambino, ero uscita di casa perché aspettavo il tipo conosciuto su Tinder.

Erano trascorsi diversi minuti e avevo compreso che la puntualità non doveva essere il suo forte.

Il bambino continuava a fissarmi, mettendomi in agitazione.

Pensai di offrirgli una caramella e mi venne in mente il monito preferito dei miei genitori: “Non si accettano caramelle dagli estranei”, chissà se anche sua madre lo aveva messo in guardia.

Tuccio si guardò le mani, poi posò il sassolino sul muretto e venne a prenderla. Non chiese il gusto, in verità non la guardò neanche, il tempo di togliere la carta e già l’aveva messa in bocca. Tornò sul muretto e riprese il sassolino. “Ora devo dare io una cosa a te” disse.

Non capii sul momento e non ebbi modo di approfondire. Era arrivata la persona che stavo aspettando. “La prossima volta” gli dissi – non so perché- mentre mi infilavo in auto.

La serata fu un fiasco. Il tipo non faceva altro che parlare di suo figlio. Poi mi chiese se ne avessi anche io. Risposi di no in maniera schifata. Avevo scelto me stessa. Non per la carriera o per l’idea di libertà. Era più l’idea del dopo. La sensazione di paura oltre me stessa. Due psicologi avevano azzardato a mo’ di giustificazione il mio essere figlia unica di figli unici. Ai dottori non avevo mai raccontato la storia della parrucca. Quando mia madre si ammalò di cancro, le cure palliative le fecero cadere i capelli. Lei, quasi come un tic, si toccava di continuo la testa. Allora col babbo pensammo di comprare una parrucca insieme alle caramelle che ogni volta le portavamo, “unica gioia” a suo dire. Mia madre agguantò subito le caramelle, ma la parrucca non volle mai portarla, nonostante i nostri tentativi. Ci mettemmo, goliardicamente, a indossarla noi per farla sorridere. Lei, invece, si arrabbiò. Un anno dopo la sua morte, toccò a mio padre ammalarsi. Bruciai la parrucca con l’illusione infantile di fermarne il sortilegio: avevo diciassette anni ed ero orfana. Quando finii in una casa famiglia perché non avevo parenti decisi di non avere figli.


Lui mi guardò in cagnesco e, proprio con la scusa del marmocchio, non finì neanche il dolce.


Non rividi più né lui né il bambino.


Ero intenta a modificare la mia descrizione su Tinder, in cui specificavo l’assenza di figli e la volontà di non averli. Sentii Filomena gridare il suo nome. Arrivarono in tredici ma Tuccio non c’era.

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