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Racconti | Restare


 

Testo di Federica Bertagnolli Illustrazione di Angelica Stefanelli

 

Il ghiaccio ha parlato.

A David ci sono volute settimane per decifrare quel codice, il senso di un segnale emerso dalle profondità della terra. Adesso, in cucina, con la morsa amara del caffè stretta sullo stomaco, per la prima volta intuisce cosa volesse dire.

Astrid ride, presa a raccontare la figuraccia di una collega. Mescola uova e farina in una ciotola, uno sbuffo bianco sul naso, mentre David si stringe nel maglione di lana. Di lei gli sono sempre piaciute le spalle magre, appuntite come quelle di una ragazzina, e la peluria bionda sulla nuca quando ha i capelli raccolti in un fermaglio.

La sua fidanzata, quella creatura tutta denti bianchi e creme per il corpo. Sa di buono, è morbida e luminosa come il pane, ma lui quel profumo non lo sente più. Trema e basta, di continuo. La punta delle orecchie corrosa dal dolore, una rete di fitte lancinanti lungo i fasci muscolari. Rigido sulla sedia, rabbrividisce fin nel midollo mentre Astrid fa sparire i biscotti nella bocca rovente del forno.

Vorrebbe dirle: rischi di uccidermi, lo sai?

Vorrebbe dirle che, da un mese a questa parte, accanto a lei rischia di congelare.


Le prime avvisaglie sono arrivate durante un viaggio in Svezia, quando David e Astrid hanno costeggiato le rive di un lago assieme a una guida originaria del posto. In quel periodo dell’anno la notte polare era agli sgoccioli e le giornate prendevano forma con esitazione in un bagliore bluastro che ne sfumava i contorni. A David è sembrato di impazzire, bloccato nel limbo di quell’alba eterna come un pesce in un acquario, ma non si trattava solo del paesaggio, era colpa anche della notizia, di Astrid che prima di salire in aereo l’aveva baciato sull’angolo della bocca dicendogli: «Potrei essere incinta».

Davanti al suo silenzio, aveva aggiunto: «È troppo presto per fare il test. Dobbiamo aspettare».

Okay, si era detto lui. D’accordo, aspettiamo, e ora eccoli lì a farsi strada sul ghiaccio come se niente fosse. Astrid continuava ad accarezzarsi la pancia, e David avrebbe voluto afferrarle il polso per costringerla a smettere. Sotto ai loro piedi, l’abisso era una lastra di vetro blu cobalto innervata di venature bianche; qua e là correvano crepe sottili, guizzi di buio che con un colpo di coda si dimenavano sotto la superficie.

La guida ha fatto sdraiare Astrid e David su un materassino, cuffie alle orecchie. David ha sentito il gelo filtrare attraverso la tuta termica, ma non si è lamentato. Dovevano restare in silenzio e ascoltare, era lo scopo della gita, il motivo per cui l’uomo che li aveva portati fin lì si aggirava nei dintorni brandendo un microfono.

Sguardo rivolto al cielo, hanno ascoltato la voce dei ghiacci: una serie di fischi e rimbombi profondissimi, sospiri alieni che si liberavano sprizzando ossigeno. Ci sono stati dei lamenti, anche, simili all’ululato del vento durante un temporale. A David sono venuti in mente i canti delle balene.

«È stato incredibile», ha detto Astrid più tardi, a riva, sorseggiando un tè bollente. «Non ho mai sentito niente di più magico».

Sotto i guanti da neve, David ha stretto i pugni. Il blu si spandeva ovunque, nessuna via d’uscita; è stato in quello stesso blu che le ha detto: «Non credo di essere pronto a diventare padre».

Il volto di Astrid si è indurito. «È il nostro bambino».

«Lo so. Ma non credo di volerlo».

Gracchiando, uno stormo di uccelli ha attraversato il cielo. Prima di voltarsi a guardarli, Astrid ha indirizzato a David un’occhiata che lui non avrebbe mai dimenticato. Era sempre stato convinto che ci fosse una qualche connessione a legarli, il presagio di un futuro comune, ma in quel momento lei gli è apparsa per ciò che era: un’altra persona, un organismo a sé stante che viveva di ambizioni autonome, distanti anni luce dalle sue.

Ha bevuto in fretta il suo tè, scottandosi la lingua. Si è sentito minuscolo, un esserino patetico in balìa degli elementi, e gli è sembrato di sentire di nuovo il rumore del ghiaccio, quella sua bizzarra sinfonia. Ancora non lo sapeva, ma avrebbe avuto la stessa impressione durante il viaggio di ritorno, e poi tra le mura di casa.

Il gelo di quelle canzoni, Astrid l’avrebbe portato con sé.





Ha freddo, vicino a lei. Un freddo micidiale. Astrid non se ne rende conto, ma la sua presenza è una folata di vento artico in camera da letto. Sederle accanto sul divano gli fa battere i denti, toccarla è peggio che affondare le mani nella neve fresca.

David soffre in silenzio, le passa un braccio attorno alle spalle quando la vede rabbuiarsi per quel bambino che alla fine non è mai arrivato. Deve resistere, deve essere forte, perché ormai hanno comprato casa insieme e si svegliano nello stesso letto da tre anni e i loro genitori hanno stretto amicizia. Trame del genere non possono essere disfatte. Nessuno lo assolverebbe se si giustificasse dicendo di aver perso Astrid molto tempo fa, quel giorno in riva al lago, quando al suo fianco si è sentito solo al mondo.

«Dovremmo provarci di nuovo», sussurra lei prima di dormire. «Sarai un buon padre, lo so. Hai solo paura».

Lui si finge addormentato. Lo aspetta una notte di tremori, e al mattino si sveglierà con il naso gelato e qualche linea di febbre.

Agli altri non succede. Amici, parenti, commessi, nessuno accusa gli stessi sintomi in presenza di Astrid. Una sera, accaldati nella bolla umida di un pub, i suoi ex compagni di università lo canzonano sbraitando ma che fai, togliti quel giaccone, si muore di caldo qui dentro! David forza una risata mentre Astrid si scatta una foto con le amiche, tutte in top senza spalline e con le guance arrossate dall’afa.

Perché quelle persone sono in grado di amarla e lui no?


È durante la serata alcolica successiva che David vuota il sacco. Mezzo ubriaco, intercetta Astrid di ritorno dal bagno e confessa.

«Voglio starti vicino, credimi», dice alla fine, «ma mi fa stare male. Letteralmente».

Lei si porta una mano al petto – occhi enormi, fronte corrugata. «Mi dispiace, non me n’ero resa conto. Io…»

«Non è colpa tua».

«E di chi, allora?»

Le si incrina la voce. David fa per sfiorarle la guancia, ma lei si sottrae. «Cosa vuoi fare?»

«In che senso?»

«È chiaro che non puoi stare con me in queste condizioni. Insomma, ti sto facendo ammalare, giusto? Se decidessi di lasciarmi…»

«Astrid», dice lui, «sta succedendo qualcosa che non capisco, è vero, ma non ho nessuna intenzione di lasciarti. Non lo farei mai».

Quelle parole prendono forma in automatico, non fa in tempo a pronunciarle che si chiede: davvero? Vuole sul serio ciò che desidera Astrid ̶ un figlio, una casa grande quanto basta, quel tipo di vita?

Lei tutto a un tratto ha la pelle d’oca. «Quindi cosa vuoi fare?», domanda di nuovo.

Fuggire. Precipitarsi fuori dalla porta e salire su un pullman, su un aereo, a bordo di un transatlantico, David pensa a questo, alla possibilità di trovare un posto in cui scaldarsi al sole fino a sentire il sudore sulla fronte, il petto incendiato da una scottatura.

«Restare», dice. «Voglio restare».


Le tentano tutte.

Coperte, tisane bollenti, maglie termiche, borse dell’acqua calda. Accendono il riscaldamento in piena estate anche se è contro la legge, e la temperatura in casa arriva a sfiorare i trentadue gradi. Astrid ormai è sempre paonazza, il labbro superiore imperlato di goccioline. Compra due stufette elettriche da accendere in camera da letto, ma è inutile, il gelo emanato dal suo corpo ha effetti sempre più deleteri, tanto che baciarsi diventa quasi impossibile: dopo un paio di istanti David ha le labbra violacee.

Quando va a trovarli, i suoi familiari si mostrano sgomenti davanti al suo pallore, alle occhiaie, alle punte delle dita che cominciano a virare verso il blu. Sua madre dice che è colpa dell’influenza, suo padre addita un più vago indebolimento del sistema immunitario. L’unico a prendere sul serio l’implicazione di Astrid è suo fratello.

«Se il problema è la tua fidanzata, allora la cura è una sola. Devi starle lontano», sentenzia. «Non importa cosa pensano gli altri».

«D’accordo, ma…» David deglutisce, scuote la testa. «Io e Astrid abitiamo insieme, non posso semplicemente fare le valigie e sparire. Per andare dove, poi?»

«Potresti tornare a vivere qui».

«Con i nostri genitori? A trent’anni?»

«Cerca qualcos’altro, allora. Un posto in cui stare da solo».

Peccato che David non sappia più cosa voglia dire stare da solo. A volte, prima di addormentarsi, si immagina seduto sul divano di un monolocale dalle pareti spoglie, il caos febbricitante della città a premere contro i vetri delle finestre, e subito gli prende il panico.

Dovrebbe ricominciare daccapo. Un passo dopo l’altro, con le sue sole forze, e chissà quanto tempo ci vorrebbe.

«Non posso farle questo, non mi perdonerebbe mai. E nemmeno i nostri genitori», dice.

Suo fratello si acciglia. «Quindi preferisci rischiare la vita?»

«La mia vita gira intorno a lei».

«Beh, forse è il momento di cambiare le cose, non credi? Hai il diritto di pensare alla tua salute».

David se lo ripete lungo il tragitto verso casa, inscenando un’ipotetica discussione con Astrid: la mia salute è importante, devo agire di conseguenza, cerca di capire. Una volta girata la chiave nella toppa, però, trova la televisione accesa in salotto, un sentore di cannella nell’aria, Astrid che sotto la doccia canta la canzone preferita di entrambi, e gli si chiude la gola.

Quella notte, a letto, lei gli accarezza un braccio chiedendo: «Come ti senti?»

«Meglio».

In realtà ha la vista offuscata, mani e piedi intorpiditi, e il tocco di Astrid è una colata di azoto liquido sulla pelle. Gli torna in mente un documentario su un alpinista scampato per miracolo all’assideramento. In alcuni spezzoni di intervista l’uomo descriveva il formicolio, gli spasmi muscolari, il cuore sul punto di esplodere e poi la sonnolenza, l’insperata e delirante ondata di calore che l’aveva portato a spogliarsi in mezzo alla neve.

«Finisce così, è inevitabile. Impazzisci, poi ti addormenti. Se il gelo ti prende non c’è scampo».

David prova a muovere le gambe, ma non le sente più. È vero, a certe cose non c’è scampo. Le cerchi, ci rimani invischiato per anni, e quando decidi di scrollartele di dosso non riesci a lasciarle andare.

D’altra parte, l’ignoto sarebbe peggio. Peggio di un figlio, della monotonia, peggio del freddo. L’ignoto se lo immagina come il fondo di quel lago gelato in Svezia, un buco nero nel tessuto delle cose.

Prende un respiro, le lenzuola tirate fino al mento. Sul soffitto brillano stelle adesive fluorescenti. Le ha comprate per gioco ad Astrid quando si sono trasferiti, salvo poi attaccarle sul serio, e ora gli dànno l’impressione di trovarsi davvero in cima a una montagna, fermo in attesa del torpore nell’aria rarefatta. Un cielo come quello, come il loro, non lo troverebbe da nessun’altra parte.

Sotto quelle stelle, David chiude gli occhi e si lascia abbracciare dalla donna che ha scelto.

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