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Racconti | Sacra Famiglia





 

Testo di: Lavinia Ferrone Illustrazione di: Alice Mirano

 



La Madonna sta riversa, ripiegata orizzontalmente su un fianco, gli occhi bassi, il velo azzurro e la gonna di un rosa antico, incisa da profonde pieghe che accentuano la postura raccolta del corpo. Dalla sua prospettiva intravede la schiena di Giuseppe. Anche lui è steso, le ginocchia piegate e il bastone in mano, la faccia è rivolta da tutt’altra parte. Verrebbe da pensare a un’iconografia di coppia. Il bue e l’asinello, invece, stanno incastrati come lo Yin e lo Yang. Sulla testa del bue giace il sacro posteriore dell’asinello, mentre su quello del bue si posa il muso del suddetto mulo. Si scaldano reciprocamente, e insieme diventano come un sistema a serpentina da cui si libera il calore a diffusione continua. E Gesù bambino? Qualcuno lo ha visto? A quanto pare è disperso ormai da ore. L’unica sua traccia rimasta è il giaciglio di pagliuzza. È incartato in un angolo, sulla carta che lo tiene avvolticciolato si legge: “Pisellini primavera Findus € 2,30”. Sotto ai personaggi principali, incastrata sul fondo, giace la capannuccia. Mia madre chiude la scatola, prende lo scotch di carta giallo, ne strappa un paio di pezzi lunghi e ce li appiccica sopra, sopra uno strato di pezzi di scotch di carta giallo che ogni anno ormai trent’anni, avevano chiuso quella scatola. Poi con un pennarello blu ci scrive sopra “presepe capannuccia”.



Io sto in piedi, strappo le pagine dell’inserto con le offerte del supermercato e ci incarto i pastorelli. Quello con in spalla l’agnello apparteneva al presepe che faceva mio padre quando era piccolo, o almeno così mi sembra di ricordare dai racconti che mi faceva lui quando lo montavamo insieme. Avevamo un metodo: attaccavamo la carta del cielo con lo scotch trasparente sul termosifone in salotto, poi prendevamo le scatole delle scarpe, ci mettevamo sopra la carta di giornale appallottolata, e infine coprivamo tutto con la carta delle montagne. Poi andavamo in giardino a prendere il borraccino e lo tagliavamo da terra col coltello. Nelle narici ce l’ho ancora: il profumo nero della terra fredda, e sotto ai lecci, dove la terra era ancora più umida, lì si trovava il muschio, dove il sole non batteva mai. Mio padre mi diceva che il muschio o il borraccino, come lo chiamava lui, indicava dove era il nord. Lo tagliavamo con un coltello normale, come si taglia il pane per metterci dentro qualcosa. Mentre lo tagliavo sentivo con la lama i sassi piccoli della ghiaia, prendevamo anche quelli. Si andava il pomeriggio, ma io ricordo che fosse quasi buio, come tutto l’inverno. Quando rientravamo in casa andavamo subito a metterlo in dei punti strategici, primo fra tutti nel punto in cui poi avremmo messo la capannuccia.



Prendo le pecore e gli agnelli uno ad uno, e li incarto nelle offerte “Prosciutto crudo di parma Rovagnati €3,80”. Li ripongo in un’altra scatola grigia e lunga, così consunta che il cartone sembra feltro. Il mio sogno, da bambina, era quello di appendere l’angelo annunciatore con un filo di plastica trasparente, così sarebbe sembrato che volasse per davvero. Lo avevo visto una volta in uno di quei presepi grandi che fanno nelle chiese, mi era parsa un’innovazione geniale. Ogni anno mi ripromettevo che lo avrei fatto, finché col passare del tempo questo pensiero non svanì sepolto nella mia mente. Quello che però facevo con grande fierezza, erano le finte cascate con la carta stagnola, le facevo partire dalle montagne e le facevo arrivare giù a valle. Nell’eredità del presepe di mio padre c’era anche un pescatore e una carpa con un laghetto. Mi sembrava un tocco da maestro fare arrivare una piccola cascata di carta stagnola proprio fino a quel laghetto. Mi sentivo un’abile scenografa, tenevo le redini di una narrazione parallela rispetto a quella del Bambin Gesù, una narrazione segreta che potevo conoscere solo io e di cui io ero l’artefice, io e mio padre.


“Mamma guarda, è rimasto un re magio fuori, va messo insieme ai personaggi della capannuccia”.


In alcune scatole ci sono delle cartacce degli anni passati. Sono sempre offerte del supermercato. Rosse, con le scritte gialle, fotografie di fettine di cotechino perfettamente circolari, roteano nello spazio, in un universo in cui i cotechini sono simpatici come la parola stessa: co-te-chi-no e ridono e sghignazzano come bambini con la vocina acuta e flebile: “cotechiiiiniiiiii”.

Mia madre fa avanti e indietro da una stanza all’altra radunando le altre decorazioni: la candela a forma di panettone, la candela con le ghirlande, il vecchio porta letterine per Babbo Natale, una testa di angelo dorata fatta in gesso da mia sorella quando andava a scuola. Le stesse decorazioni da tutta la vita. Ricoperte con un pezzo di carta velina e un pezzo di carta del supermercato.

Mentre mi aiuta a riempire le scatole, mia madre mi racconta quello che lei definisce come un suo “segreto”. Mi dice che il motivo per cui usa la carta delle offerte del supermercato per riporre i personaggi del presepe è che così l’anno dopo può vedere i prezzi dell’anno prima e fare dei confronti, controllare il tasso d’inflazione, vedere l’andamento dei mercati nel tempo. Per poi non tirare mai un respiro di sollievo e poter continuare a lamentarsi, penso io.







La zona desertica del presepe la facevamo partire da dietro l’albero di natale. Per rendere l’idea di deserto un anno comprammo una specie di sabbia. A ripensarci adesso non aveva avuto molto senso, ma probabilmente io feci qualche bizza e decisero di accontentarmi. Usavamo una carta marrone con sopra questa specie di sabbia sparpagliata. Un anno il nostro primo gatto, Fuffi, ci fece la pipì sopra. Sistemavamo i cammelli e i re Magi, che dal giorno dell’inaugurazione del presepe fino all’Epifania, ogni giorno, si sarebbero mossi di un passo. Uno dei grandi problemi irrisolti della mia infanzia era stato proprio calcolare il passo dei Re Magi. C’erano stati anni in cui erano rimasti troppo indietro, e avevano dovuto fare dei tragitti lunghissimi soltanto gli ultimi tre giorni. Altri anni in cui erano rimasti pressoché fermi nella zona dei pastori in pianura. Chissà che si devono essere detti, dei pastori simili a dei sardi, con dei tizi vestiti con le tuniche, i turbanti e i cammelli. Come avranno interagito. I pastori dei presepi hanno sempre delle posizioni chine, ricurvi su loro stessi o sulle pecore, guardando sempre in basso, intenti a fare qualcosa. Probabilmente non si sono mai nemmeno accorti del passaggio dei Re Magi.


Dopo circa un’ora abbiamo riempito tutte le scatole del “settore presepe”. Iniziamo a scotcharle mettendo di nuovo lo scotch sullo scotch vecchio o sulle sue impronte di colla ingiallita. Mia madre continua a scrivere sulle scatole che cosa c’è dentro, su una scrive: “presepe personaggi”. Ho l’impressione che scrivere in maniera così metodica sulle scatole sia un’abitudine che non ha sempre avuto, lo fa da qualche anno. Quando era più giovane probabilmente confidava nella memoria o nell’avere l’energia per tirare giù dall’armadio tutte le scatole e solo dopo capire quali le servissero davvero. Ma adesso no, negli ultimi anni preferisce avere l’accortezza di aiutarsi. Ci scrive sopra e quello che scrive lo ripete a me con un tono cerimonioso, a voce alta, come a volersi accertare che io capisca bene. È l’intonazione di un testamento: “Allora, qui ci sono i pastori e le pecore” “Qui c’è la capannuccia, ce lo abbiamo già scritto” “Qui invece l-u-c-i p-r-e-s-e-p-e”. Gli anni passati lei chiudeva le scatole e mio padre, che era più alto, le riponeva sopra l’armadio. Da quando mio padre non c’è più, la preoccupazione che mia madre da sola salga pericolosamente in piedi su uno sgabello per sistemare tutto è tale da farmi fare qualcosa che io non avevo mai fatto. Quelle scatole le avevo sempre e solo aperte. Ogni anno, senza mai controllare prima se per qualche assurdo motivo non ci fossero più, con assoluta certezza le avevo sempre prese e aperte per sistemare il presepe e farlo ogni anno sempre uguale e sperare ogni anno di perfezionare il racconto, perfezionare la strategia di posizionamento, raffinare l’arco narrativo nascosto tra le maglie della vicenda intorno alla nascita di Gesù Bambino.


Mia madre le aveva sempre chiuse, le scatole, una ad una. Aveva sempre preso i personaggi uno per volta, accartocciati nelle offerte della coop – a volte anche esselunga. Quelle scritte adesso servono a lei e più di tutti a noi per lasciare una traccia, un segno. Perché si ha la sensazione palpabile di aver perso il filo della storia e del tempo. Che ogni pezzo del presepe possa andare perduto ogni anno e che l’entropia li sparpagli tutti, i personaggi. Gesù Bambino su un cammello, la Madonna sulle montagne, Giuseppe nel deserto con la carpa, la stella cometa che incendia la capannuccia, l’angelo insieme al bue e l’asinello per conto suo. Perché già adesso le cascate di stagnola a rinfrescare il laghetto non ci sono più, e le montagne e le casette in lontananza sono i granelli di un’idea. E anno dopo anno, tutti i personaggi del presepe si perderanno, ognuno in una scatola diversa. Senza scritte andranno a finire con le candele o le palline di Natale, finché non sarà più possibile ritrovarli, finché non sarà più possibile riaprirle quelle scatole. Perché lo scotch di carta si sarà sciolto in un unico impasto magmatico giallo che non apre e non chiude più, ma fagocita tutto: il presepe, il muschio, l’odore dei lecci, il sapore della condensa fredda dalla bocca, noi.


Quando il presepe era finito, uno dei miei punti deboli era la neve. Avevo fatto diverse prove. La neve spray aveva sempre lasciato dei danni, delle tracce permanenti appiccicose. Quando con mia sorella l’avevamo usata per ricoprire l’albero di natale, provando poi a spruzzarla sul presepe, e finendo poi a disegnare delle figure sui vetri delle finestre, non rendeva. Avevamo poi comprato una specie di talco soffice, il problema era che anche quello restava sopra i personaggi e sopra il muschio. Così decidemmo, da un certo momento in poi, di abbandonare l’idea della neve e di non usarla. Per qualche tempo mi rimase un senso di rimpianto, di non aver trovato il modo di completare la scena, lasciandola monca, fuori da ogni stagione, ma poi anche quel pensiero sparì e alla neve del presepe non pensai più.

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