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Racconti | Un, due, tre…Stai là!


 

Testo di Alessandra Cella

Illustrazione di Francesca Costa

 

“Così non sentirai più freddo alle dita, e poi il rosso mette allegria”. Sua madre aveva abbozzato un sorriso sbiadito mentre si tormentava le cuticole elencando alla figlia le virtù del regalo che le aveva fatto.

Cat si guardò i piedi dall’alto cercando la giusta inquadratura, come se dovesse fotografarli; infilati in due orrende ciabatte rosse che lasciavano scoperte solo le caviglie ossute e bianche. ‘Moffette’ le aveva chiamate la madre nel giorno di visita in cui gliele consegnò, avviluppate malamente in una carta decorata con dei coniglietti sfocati.

Erano state insieme poco quel pomeriggio, una seduta sul letto e l’altra aggirandosi per la stanza a verificare che, almeno lì dentro, fossero al sicuro.

Proseguiva per il corridoio a passi lenti, Cat. Dalla vetrata quadrata sul fondo entrava sfacciata la luce; d’istinto lei si coprì la faccia col dorso della mano ma perse l’equilibrio per un attimo, andando a sbattere contro un carrello piazzato di sbieco davanti alla porta di una stanza da cui usciva un tanfo di chiuso e di disinfettante.

Cat intravide all’interno un ragazzo con un catetere nella giugulare. Le venne subito in mente quando le avevano messo addosso le sacche biancastre per la nutrizione parenterale e lei era scoppiata a ridere in modo scomposto, anche se non c’era niente di divertente.

“Eccolo qui ‘l’amore liquido’, l’unico alimento che la tua famiglia non può darti. Ma puoi trovarlo da noi! Comodo, pulito e ben dosato dentro una bombetta di plastica”. Si ripeteva questa frase come uno spot radiofonico in loop, mentre i suoi si scusavano con gli infermieri per la reazione del tutto fuori luogo della figlia.


Cat non indugiò oltre con lo sguardo e si sistemò gli occhiali che ormai solo per cocciutaggine le stavano sul naso. Anche quelli iniziavano a scivolare via, come gli anelli, i vestiti e tutto il resto. Tanto era ora di cambiarli, che con le moffette rosse non ci azzeccavano per niente.

Uno, due, tre. Doveva contare fino a cinquanta per raggiungere la sala da pranzo, altrimenti detta ‘la stanza delle torture’.

Le piastrelle diamantate spuntavano anche lì, come nella cucina di casa sua: schizzate d’olio di frittura o del sugo che suo padre preparava per i maccheroni, la specialità delle feste, trasudavano rassegnate. Nella sua famiglia erano tutti di buona forchetta. “Tossici di cibo” avrebbe detto lei.

“Guarda che prima o poi di fame ci muori” diceva suo padre ogni volta che le guardava dentro il piatto.

“Non vedi che sono già morta?” rispondevano gli occhi di Cat affogati nel bicchiere pieno d’acqua.

Poi si alzava senza scomporsi e si chiudeva in camera sua per un body checking, qualche taglio nell’interno coscia col suo cutter azzurro e il perfetto riallineamento delle matite sparpagliate sulla scrivania.

Dieci, undici, dodici.

A rintocchi lenti, dentro la flebo, la soluzione salina ricordava a Cat che non stava andando al thai dell’ultima volta, poco prima che entrasse lì dentro.

Quella sera lui l’aveva invitata a uscire e lei, malvolentieri, aveva accettato prendendo la cosa come un ‘esercizio di socialità’, come le aveva suggerito la psicologa.

Lui aveva scostato la sedia per farla accomodare, lei non sapeva decidere se trovava il gesto galante o solo démodé.

“Belle le pareti verde smeraldo” disse lui guardandosi attorno, alla ricerca di approvazione.

“Mi ci tufferei” commentò lei, pungente.

“Hanno aperto da un paio di mesi, so che portano il cibo nelle ciotole piccole… Come piace a te” disse lui avvampando.

“Da quando credi mi piacciano le ciotole?” replicò Cat portando i pugni chiusi al mento per tenere a freno la lingua.

Lui abbassò gli occhi e per un attimo lei si odiò per averlo fatto di nuovo.

“Vino?chiese lui guardando il telefono.

“Acqua, liscia” disse Cat sistemandosi il tovagliolo sulle gambe e provando ad ammorbidirsi.

Nel frattempo, si era avvicinata una ragazza sottile come un foglio di carta di riso; Cat sentì scatenarsi nella pancia un’invidia sorda che si stendeva lenta come la macchia della salsa di soia che aveva appena rovesciato sul tavolo.





La ragazza sottile coi lunghi capelli lucidi sorrise come se l’incidente non l’avesse turbata, passò una spugna veloce sul danno e scivolò via.

“Non si scompongono mai, eh, loro?” disse lui iniziando a sfogliare il menu con foga.

Un morto di fame, pensò Cat studiando la curva della schiena della ragazza mentre spariva dietro una porta scorrevole.

Alle ventidue l’aria del ristorante era così satura da darle il voltastomaco e Cat si era fissata sul capannello di gente che sbraitava e fumava in Piazza della Consolata. Un rumoroso Blob a rallentatore sotto un cielo gonfio di pioggia le appariva da dietro il vetro lì accanto. Non sopportava più niente di ciò che aveva intorno.

“Ehi, sta arrivando il mio dolce! Su, fai uno sforzo Cat. Non ti metterai a sezionare anche quell’ultimo boccone? Non farmi ridere!” disse lui come se avesse davanti una bambina di sei anni.

Un moto di disprezzo le annodò le viscere.

Si conoscevano da un po’ ma quel che di lui le era parso interessante all’inizio adesso era come la fiamma di una candela dietro un vetro appannato.

Meccanico aeronautico, Maverick voleva aggiustare la sua ala rotta, ma navigava a vista e sbagliava ogni mossa.

Cat era un velivolo in picchiata e lui tentava cabrate salvifiche richiedendole una prestazione di salita che lei puntualmente disattendeva.

“Ridere fa bene alla salute” rispose Cat schiacciando forte con la forchetta il cubetto di tofu croccante che aveva nel piatto “Ma stai bene attento a non strozzarti, dato che non mastichi”.

Cat vomitò le parole senza controllo, stupendosi molto di sé stessa, perché lei del controllo era la regina.

Anche il sistema più rodato può avere delle falle però, e, mentre lui la fissava attonito, con le briciole del suo mochi fluorescente sul colletto della camicia rosa, lei si alzò di scatto e se ne andò. Prese la porta e sentì gli occhi pieni, come un lago; la ragazza sottile le sorrise ancora e Cat si convinse che fosse solo uno spettro creato dalla sua mente.


Sedici, diciassette, diciotto.

Ancora trentadue maledetti passi, pensava Cat, peggio del Un, due, tre… Stai là! che si faceva da bambini.

Si dà il caso che all’Università ancora ci giocasse, nel corridoio di linoleum grigio topo che portava all’aula cinema di Palazzo Nuovo, solitamente piena di fumo. Ci arrivavano di corsa, lei e i suoi amici. Perché c’era stato un tempo in cui anche Cat ne aveva.

Le lunghe sciarpe di lana grezza che strusciavano per terra, gli zaini pesanti lanciati con un tonfo e un acervo di parolacce e risate.

“Cat, inizia! Sei già sullo schermo!” le urlava qualcuno da dentro la stanza in cui si proiettava Jules e Jim per la milionesima volta.

Era un film totemico quello.

Per tutti lei era Catherine: la spregiudicata, la cinica e libera Cat che faceva perdere la testa a chiunque la incontrasse. Si passavano la canna di mano in mano seduti per terra, con la nebbia che si impregnava sui capelli, il gusto amaro della birra in bocca e la voce pastosa di Cat che cantava “alors tous deux on est repartis, dans le tourbillon de la vie” sovrastando la divina Jeanne Moreau.

Quella sì che era vita, pensava Cat tornando con lo sguardo alle moffette e a quel lungo piano sequenza che erano adesso le sue giornate.

Trenta, trentuno.

Trentadue.

Esattamente gli anni di sua sorella quando si era suicidata.

“Miranda, dove sei? Tua sorella…” al telefono era la voce rotta della madre, quella mattina di un gennaio fin troppo mite.

“Mamma dai, sono in ritardo, ho lezione!” Cat di solito non rispondeva o la liquidava in fretta.

“Tua sorella, Miranda, è per tua sorella. Si è buttata sotto il treno, a Porta Nuova. L’hanno trovata sul binario 13.”

Era alla macchinetta del caffè quando sua madre la chiamò. Il bicchierino di plastica rovente era appena sceso, in coda al solito rumore infernale di ferraglia e alla parola ‘binario 13’. Cat aveva scordato di pigiare il tasto ‘senza zucchero’, ma tanto bastava che non lo girasse.

D’istinto staccò il telefono e se lo ricacciò nella tasca dei pantaloni militari in mezzo agli scontrini, al biglietto del tram e ai frammenti secchi di liquirizia. Si avvicinò al davanzale ai piedi delle scale, strappò la carta del bastoncino di legno coi denti e si mise a girare il caffè così forte che le si rovesciò dappertutto mentre gli altri la guardavano storto passandole accanto.

Cazzo, aveva pensato alzando gli occhi alla Mole, mi hai davvero mollata da sola con quei due? Tu e il tuo nichilismo! Tu e la tua Anna Karenina! Che poi, parliamoci chiaro, l’hai sempre esaltata ma se si fosse presa ‘qualcosa di giusto’, la Dama, l’avrebbe piantata di martellarsi la testa con milioni di domande assurde sul senso e sul destino! Avrebbe fatto due o tre figli con Vronskij e alla larga dalle stazioni, te lo dico io.

Si diceva questo Cat dentro la sua testa, e lo diceva a quella stronza di sua sorella, che aveva deciso di andarsene in un modo tanto perfetto da poterci fare un film. Binario 13, anche al titolo aveva pensato.

Quarantatré, quarantaquattro, quarantacinque.

Quarantasei.


Come i suoi chili quando era arrivata allo Xander. Nell’ultimo mese prima del ricovero Cat frequentava i supermercati con la stessa abnegazione con cui si entra nei luoghi di culto. Varcava la soglia di quello di turno - li cambiava spesso per non essere riconosciuta - con l’onnipotenza di chi sa resistere. Il giorno del crollo stava davanti allo scaffale degli omogeneizzati, il suo attuale alimento d’elezione.

Tutti in fila, ordinati e così giusti per la tabella calorica che si era imposta, meravigliosamente rassicuranti.

Sognava la fase successiva Cat, quella che aveva chiamato ‘di distacco’ e che avrebbe previsto la sola assunzione di acqua calda e qualche goccia di limone, giusto per gratificarsi.

“Perché vuoi morire?” le aveva chiesto la psichiatra delle Molinette la prima volta.

“Perché non dovrei volerlo”, era ancora la risposta.

Allungò le dita scheletriche e fredde come la griglia del carrello per afferrare un vasetto e pensò, per un momento, a quella ricerca che aveva letto di recente sulla musica nei centri commerciali. “Può aumentare il tempo di permanenza e rendere più piacevole il fare acquisti”, così diceva l’esperto mentre lei canticchiava Dreams are my reality prima di accasciarsi a terra, leggera come una libellula.

“È così che dev’essere morire, vero Anna? Portarsi dietro un disastro di vetri rotti"

Quarantasette, quarantotto.

Davanti la porta della sala c’era il Dottor P., e quando si accorse di lei la aspettò e le sorrise. Il Dottor P. aveva un sorriso luminoso, Cat non l’aveva mai visto senza.

Lei ricambiò e in quella smorfia sentiva tutta la fatica della pelle che si tendeva, che tirava ogni più piccolo pezzo del suo corpo nello sforzo immane di restituire gioia.

Quando è precipitato tutto?, si chiedeva Cat attaccandosi all’asta con le ruote che aveva sostituito ai piedi.

Avrebbe voluto entrare dentro la bocca del Dottore, farsi inghiottire e non sentire più il vuoto.

Quarantanove.

Cinquanta.


“Ciao, Miranda. Come andiamo?” il Dottor P. fece cenno con la testa all’inserviente che Cat era arrivata.

“Me lo dica lei come andiamo, Dottore” rispose Cat tentando di nascondere inutilmente i piedi.

“Oggi al gruppo pensavo di discutere di quel romanzo di cui mi hai parlato, quello di Tolstoj”.

L’odore del pranzo usciva dalla sala mescolandosi alle parole del Dottore e ai minuscoli chiacchiericci delle altre ospiti del Centro. Cat diede un’occhiata obliqua al suo tavolo: tutte quelle ragazze come lei, ricurve sul piatto, le sembrarono fantasmi di un film di Miyazaki.

“Anna Karenina, dice?” rispose distratta da un fischio, portandosi le mani alle orecchie.

Non voglio scomparire. Non voglio scomparire. Voglio esistere. Voglio esistere ancora, pensò Cat continuando a spiare le altre ragazze.

“Proprio quello!” fece il Dottor P. accompagnandola a entrare con un gesto della mano.

“Volevo proporvi un gioco, una specie di esperimento. Che ne dici se provassimo a immaginare altri finali?”.

Il sorriso del Dottor P. si fece se possibile ancora più aperto.

“Dottore, non so se Anna sarebbe d’accordo” fece Cat tirandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.

“…E tu? Tu potresti provarci, Miranda?” chiese il Dottor P. guardandola fisso negli occhi.

Cat girò lo sguardo verso la sua flebo che si era bloccata.

La felicità si racconta male perché non ha parole, ma si consuma e nessuno se ne accorge, pensò.

Poi raggiunse il suo piatto bianco e, da sotto il tavolo, si sfilò le ciabatte.

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