Testo di Roberta Spagnoli
Illustrazione di Veronica Villa
Una volta sono stata sirena. Non so dire come sia capitato.
Lui ha cominciato a dire che i miei capelli sapevano di mare. Ogni tanto trovavo una piccola alga impigliata tra i ricci. Quando ho scovato sulla frangia una lumachina di mare mi sono impressionata. Era viva. Lui rideva. Ho pensato a uno dei suoi soliti scherzi, ma sentivo la cute sempre più coriacea, specie sulla nuca.
Mi chiamava con quegli stupidi nomignoli da innamorato: pesciolina, seppiolina, ranocchia a volte. Ranocchia non mi piaceva tanto. Allora lo cambiava in “ranocchietta”. Gli sembrava più gentile. Io non ero completamente d’accordo, ma dopo un po’ mi stufavo di discuterne. Lasciavo perdere.
A lui piaceva il mare e diceva che io ero un dono del mare. Ero felice quando diceva così. Era romantico. Ho cominciato a osservare meglio la mia pelle. In effetti piano piano si stava facendo sempre più luminosa, anzi, lucente. A volte mi sembrava che piccole squame qua e là brillassero, quando eravamo sotto il sole.
Era strano osservare i riflessi opalescenti intorno ai capezzoli. All’inizio avevo creduto fossero smagliature, me ne vergognavo un po’. Lui diceva che le mie tette così striate e cangianti alla luce erano più sexy. Ho cominciato a pensare anche io a quelle striature come squame. In fondo non erano male, e poi era più divertente immaginarle così.
Stavamo tutto il giorno a prendere il sole sugli scogli. A lui piaceva. Senza niente altro da fare, passavamo il tempo a guardare i granchi ipnotizzati dalla piccola risacca. Dalle fessure tra le rocce saliva il sapore del mare, a volte anche i denti sembravano scricchiolare di sale. L’odore delle alghe sulla pelle era eccitante. Così diceva lui. Dopo un po’ anche a me sembrava seducente. Era curioso che entrambi lo sentissimo nel naso allo stesso modo: pungente.
In acqua e a casa facevamo l’amore in apnea. Lui diceva “non respirare” e io, sotto le lenzuola come in fondo al mare, trattenevo il respiro e mi sembrava di morire. Poi godevo fino a perdere i sensi. E anche lui con me. Non mi rendevo conto che quello era solo allenamento. Una preparazione fatta di esercizio costante che solo lui sapeva e ogni giorno sperimentava un po’ di più con me ignara.
Non potrei dire quanto tempo abbiamo messo a scendere tutti i gradini. Dall’alto della rocca il mare pareva irraggiungibile. L’azzurro mi calamitava verso il basso con una forza d’attrazione che non avevo mai conosciuto mentre la discesa a strapiombo mi dava una vertigine pericolosa. Tremito nei muscoli, occhi attenti al dislivello, mani nel vuoto, continuavo a scendere. Lui era davanti a me, silenzioso. Finalmente poi, sulla scogliera, le gambe hanno preso un passo più deciso. I piedi completamente aderenti alle rocce sono diventati ventose, come quelle della patella che si muove senza perdere mai il contatto.
Ricordo che l’acqua mi ha accolto come un abbraccio. La paura si è fatta liquida intorno a me e mi sono ritrovata a respirare solo luce. Insieme siamo arrivati alla boa: è lì che ho scoperto quello che lui già sapeva da un pezzo.
Il mio corpo all’improvviso ha preso a brillare sulle onde con una flessuosità nuova, guidato da una caudale iridescente; le braccia hanno cominciato a vibrare con movimenti leggeri, quasi impercettibili. D’un tratto ho capito che i miei polmoni respiravano il mare. Erano branchie.
Senza il peso della mia coscienza terrena, ogni movimento sembrava più facile, il sorriso più leggero, lo sguardo più intenso. Lui mi guardava, negli occhi un misto di ammirazione e sconcerto. Le sue mani percorrevano il mio nuovo corpo di pesce, accarezzavano la nuova me fatta di squame e di pinne, di spuma e di sale come se fossi una sua invenzione, plasmata dalle onde e dalla sua determinazione.
In quel momento ero esattamente come lui mi aveva immaginato: il seno rotondo, la pinna carnosa, i capelli intrecciati con alghe e anemoni di mare. Ero la sua sirena. Sotto il suo sguardo nuotavo nella corrente, esploravo i fondali: ero il suo perfetto animale marino.
Più il tempo passava più io mi sentivo sicura tra gli scogli, decisa tra le onde. Anche in alto mare non avevo paura. Ero serena perfino nella bonaccia, quella interminabile fissità che a volte annoia, a volte sfianca, a volte sgomenta. Io no, non avevo paura perché lui mi guardava e questo era tutto.
Poi è arrivata la stagione delle piogge.
Sott’acqua non è così fastidiosa come in paese. La pioggia dico. A volte è un ronzio soffuso, a volte è come una canzone e tu la ascolti piano, ondeggiando tra le praterie di posidonia; poi quando intravvedi una lama di luce attraversare l’acqua, risali piano e respiri il vapore dolce sulla superficie di sale. La pioggia è piacevole, vista dal blu.
Io volevo portarlo nell’abisso con me e poi di nuovo su, a sentire la leggerezza delle nuvole volare sopra le nostre teste. Ma lui non aveva le branchie, non riusciva a stare tutto quel tempo senza respiro. Tornava su senza fiato e malediceva le nuvole, la pioggia e a volte anche il mare.
L’ultima volta che l’ho visto arrancava tra le dune, le ciabatte rotte, un asciugamano fradicio sulle spalle. Mormorava litanie sui pesci, le sirene, le presenze marine, infide come le onde. Lo guardavo allontanarsi senza capire.
Mi è stato riferito che finito lo scroscio lui è tornato sulla spiaggia. Era ormai quasi buio. Di certo non cercava me: avrebbe saputo dove trovarmi a quell’ora. Ero al sicuro tra i coralli, come ogni sera.
I pochi rimasti sul molo dicono che abbia vagato un po’ sulle dune e poi, con la furia dell’artista e la precisione dell’artigiano, pare che abbia preso a disegnare la sagoma di una donna-pesce sulla sabbia.
Utilizzando un vetro stondato dal mare ha delimitato la figura scavando la superficie fino allo strato più duro, quello fatto di sassolini bianchi e ghiaia. Ha seguito il percorso del corpo - era il mio corpo, lo so - ha aggiunto anche i più piccoli particolari, aiutandosi con le conchiglie trovate sulla riva e con le alghe marcite. Pare sia rimasto al lavoro fino a quando la luna ha continuato a brillare, così almeno assicurano quei tre balordi che si sono fermati a guardarlo per tutta la notte, scommettendo una birra per ogni conchiglia recuperata.
Una volta terminato il capolavoro, sembra abbia risposto con un inchino all’applauso ubriaco dei suoi spettatori. I tre nottambuli dicono di avere notato la sua aria compiaciuta. Aveva il sorriso di chi ce l’ha fatta, ha riferito uno dei tre il giorno dopo.
Ma da qui in poi i ricordi si confondono: i tre ragazzi non sanno come sia scomparsa la donna-pesce di sabbia, forse affogata dall’alta marea. Nemmeno ricordano che fine abbia fatto lui, dopo l’ennesimo brindisi della staffa. La mattina dopo, un corteo di birre vuote sulla banchina come unica traccia. Relitti di un naufragio senza superstiti.
Per settimane ho cercato sul fondale i resti disarticolati di quella figura di sabbia per capire quanto io fossi difforme dalla sua perfezione, quanto fosse deforme il mio nuoto, il colore delle mie squame, la mia resistenza in acqua. Avrei potuto cambiare stile, migliorare la velocità tra le onde, scegliere le medesime alghe che lui aveva scelto per intrecciare i capelli, se questo fosse servito a farlo tornare. Ma in fondo alla baia non ho trovato simulacri di sabbia, né risposte. Soltanto decine di corpi morti, senza boa di ormeggio.
Da quel giorno non so più se sono sirena o essere umano, non so se i capelli odorano di mare né se la mia pelle sa ancora brillare sotto il sole. Non so più stare in acqua, ma nemmeno riconosco le salite dei carrugi. Senza i suoi occhi, non ho più uno specchio per riconoscermi. Mi guardo intorno, confusa tra ombre che somigliano a lui senza avere il suo odore. Non so nuotare, non so camminare.
So soltanto che vivo in apnea, le gambe rattrappite, i piedi incerti sugli scogli. Sotto le piante, verruche dolenti.
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