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Racconti | Intrecci (parte uno)



 

Testo di: Alberto Giangiulio Illustrazione a cura di: Veronica Villa

 



Gocce trasparenti e sottili. Affilate come lame di un rasoio. E un vento graffiante e feroce, che non perdona. I grattacieli davanti a me sembravano sciogliersi. Deformate mentre colano esitanti, creando increspature morbide, poi dure. Attraverso stalagmiti di cera, le finestre, con le loro tonalità abbaglianti. Alcune accese, altre spente, transistor intermittenti. Alveari in orari di chiusura. Diligenti formiche pronte a riversarsi stanche per le strade, ciascuna con i propri fardelli, di briciole, di pezzi di foglie, di insetti morti. Le mie guance non distinguevano più le lacrime dalla pioggia. Le luci lontane, illuminate dai lampioni e dai fari delle automobili si sfilacciavano in raggi sottili e appannati, come all’interno di un caleidoscopio. Geometrie di lacrime di ghiaccio. Cristalli incerti scolpiti da millenni di storia erratica. Rumori forti ma attutiti, confusi e bagnati. Un’intera città palpitante nella sera. Sotto di me. Esattamente sette piani sotto di me. Le mie gambe ciondolavano stanche. Ero seduto sul bordo di un tetto di lamiera. Fredda e bagnata. Le mie dita stringevano il parapetto fino a diventare viola. Sentivo il metallo chiamare magnetico il mio corpo. Non andare, resta qui. Era stato facile arrivare lassù. In questo palazzo ci lavoravo, sei giorni su sette. A fare fotocopie e caffè. Soprattutto caffè. A rispondere a inutili e-mail. A chinare il capo in continuazione, servile. Avevo aspettato le sei e mentre tutti stavano andando via mi ero infilato di nascosto nel bagno e poi silenziosamente ero salito fino sul tetto. Dalla scala di emergenza. Nessuno mi aveva visto. Ma questa non era una novità. Nessuno si accorgeva mai di me. Nemmeno i sensori delle porte automatiche. Forse ero un fantasma. No. I fantasmi non possono sentire il dolore come lo sentivo io. Come spine avvelenate che mi attraversano la carne, fino in fondo. Dietro di me uno spiazzo di cemento, chiazzato di pozzanghere scure. Sentivo il rumore delle gocce che vi ci finivano dentro. Ritmiche. Un’antenna alta, diramata, albero meccanico. Un muretto di cinquanta centimetri, ricoperto di lamiera bluastra delimitava questo spazio strano, aperto alle intemperie e quasi mai visitato. Come un pianeta lontano. Il pianeta dove vanno a morire gli astronauti. Sopra di me immaginavo stelle lontane, ma la coltre di nuvole scure le ammantava tutte. Guardo il mio avambraccio. Teso. Le vene spuntano fuori come serpenti. Guardo il mio tatuaggio che fa il giro del polso. Un serpente che si morde la coda. Non c’è fine e non c’è inizio. Mi sporgo lentamente e guardo sotto di me. Una vampata di vertigini mi riempie il sangue. Vedo le teste piccole delle persone che si muovono come formiche sul marciapiede. Un taxi fermo. Una donna attraversa la strada tenendo per mano un bambino. Mi sporgo di più, sento il precario gioco dell’equilibrio sfidare la gravità. Le mani che allentano la presa. Urlo. Tutto quello che ho dentro, tutto quello che ho dentro. Sto per saltare. Poi mi getto indietro. Ritrovo una posizione salda, le unghie che sanguinano ad afferrare il metallo. Sono stabile. Non riesco a fermare le lacrime. Perché fa così male? Tiro fuori di fretta il cellulare dalla tasca destra, lo guardo. Lo stringo. Poi con forza lo scaglio lontano, nel vuoto. Lo sento sibilare. Poi precipita. Esausto mi lascio cadere all’indietro, sbatto sul cemento dietro di me, i capelli finiscono nell’acqua di una pozzanghera. Raccolgo le gambe e le avvicino al petto. Mi stringo tutto. E piango, piango come mai ho pianto in vita mia.


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Clara amava gli animali fin da quando era piccola. Ne aveva avuti tanti, ma erano morti tutti. Pesciolini rossi, tartarughe. Gatti. Persino un cagnolino. Malattie strane. Sembravano uscite da qualche libro magico di un oscuro negromante. Li aveva persi tutti. Uno dopo l’altro. Le prime volte aveva pianto a dirotto. Soprattutto da piccola. Ricordò la sua prima tartaruga, Dino, che galleggiava senza vita nel suo acquario. Sembrava un’isola. Poi col tempo, poco alla volta, pianse sempre meno. Non è che si fosse abituata. Non ci si può abituare alla perdita. Clara credeva che siamo tutti costruiti di terra umida. E i pezzi di terra cadono. Pezzi di noi che se ne vanno, si staccano, e lasciano vuoti, umidi. Difficili da riempire. Non era mai stata brava a scuola, la biologia le piaceva un sacco, ma i suoi insegnanti l’avevano sempre presa di mira. Passava il suo tempo a disegnare. Sui libri di scuola, sui fazzoletti, sui banchi. Una volta aveva disegnato un’intera città, Atlantide. Un capolavoro di architettura antica fatta di colonnati e archi e templi magnifici. E ovunque pesci variopinti dalle forme più bizzarre. Sirene e tritoni popolavano con i loro tridenti quel mondo magico, stabilendo regole che, nella giovane mente di Clara, parevano certamente più giuste e più luminose delle grigie leggi che facevano tornare ogni sera il padre sbronzo a casa, incazzato e pronto a colpire. Prima oggetti. Sedie. Piatti. Orologi. Poi i corpi. Atlantide era stata cancellata dal professore. Peggio, le aveva ordinato di cancellarla con le sue mani. Finita la scuola, Clara se ne era andata, aveva vissuto un po’ con amiche, girato qualche città. Sempre a cercare di riempire quel vuoto che sentiva dentro e non riusciva a colmare. Poi un giorno lesse un annuncio sulla vetrina di un negozio di animali. Vi prego prendetemi, disse. Io amo gli animali più di tutto al mondo. E loro cercavano qualcuno, semplicemente. Non che fosse stato facile all’inizio. C’erano scatoloni da spostare, svuotare, smistare. Pulizie da fare. Imparare a conoscere i bisogni di ogni animale, chiuso nella propria gabbia. Che tanto le ricordavano le persone. Poi a fatica aveva imparato e ora nel negozio le volevano bene. Gli animali non morivano più al suo contatto. Stavano bene, mangiavano, bevevano. Facevano tutte quelle semplici e bellissime cose che gli animali fanno senza che la scuola glielo insegni. Un giorno era in cassa, stava sistemando dietro al bancone dei giocattoli per i cani, quelli morbidi a forma di pollo o qualsiasi forma strana che, però, deve assolutamente fare un rumore interessante, per i cani. Ma anche Clara trovava quei rumori interessanti. Non lo aveva detto a nessuno, ma a casa ne teneva uno uguale, anche se non aveva un cane. Ogni tanto lo schiacciava e quello sibilava, riempiendo l’appartamento di un rumore acuto e fischiante. Un richiamo. Per gli spiriti dei suoi animali che se ne erano andati e tornavano ad ascoltare quel suono, in cerchio, intorno a lei. Mentre Clara metteva a posto i giocattoli sentì avvicinarsi qualcuno alle spalle. Era un ragazzo completamente fradicio, con la barba lunga e avvolto da un telo cerato verde. Clara non volle immaginare la sua storia, gliela lasciava a lui, tutta sua. Le chiese una scatola di cibo per cani, al manzo, quella che costava meno. E poggiò sul bancone una decina di monetine, mancava qualcosa, ma Clara fece finta di niente e gli passò la scatoletta. Lui le sorrise. Lei gli sorrise. E uscì silenzioso come era entrato. Passò una mezz’ora. Il negozio stava chiudendo, Clara passava il moccio per terra, quando le porte automatiche si aprirono ed entrò un cagnolino bianco. Piccolo e tutto sporco. Venne subito da lei e le leccò le ginocchia. Lei sorrise e lo accarezzò sotto al muso. Non gli chiese la sua storia. Gliela lasciava a lui. Ma era preoccupata per il suo padrone, anche se il cane non aveva un guinzaglio. Simulacro di quello che tutti noi portiamo al collo. Lo portò nel retro, gli diede una strigliata, lo lavò e lo asciugò. Poi gli portò un paio di scatolette, ma il cagnolino mangiò solo quella di manzo. Ormai doveva chiudere il negozio e Clara non sapeva cosa fare. Decise di portarlo a casa per una notte, tenerlo al riparo. E il giorno dopo fare un giro del quartiere per trovare il suo proprietario. L’avrebbero sicuramente trovato. Uscirono nella pioggia. Lui in braccio a lei, ma in fondo era lui che la teneva in braccio, con le sue zampette. Andarono avanti così per un po’. Questi due strani complici del sopravvivere. Un passo alla volta, sperando che i fili delle loro esistenze li avrebbero portati lontani ma al sicuro. Forse, però, volevano solo che li portassero un po’ più vicini.


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Torta millefoglie. Con ripieno di crema chantilly e granola di pistacchi. La preferita di Lucia. Non avevo idea di quale torta prenderle per il suo compleanno fino a una settimana fa. Poi sua madre mi aveva telefonato, dicendomi quale la piccola voleva. Da Marini ci vogliono tre giorni per preparare una torta su ordinazione. Hanno decine di richieste al giorno, a quanto pare. Ma è la migliore pasticceria della zona. Quando ci ero stato mercoledì non ho saputo resistere. Ho assaggiato un pasticcino allo zabaione. I miei preferiti. Delizioso. Così oggi dopo tre giorni la torta era pronta e mi ero organizzato per andare a ritirarla dopo il lavoro. In una stupenda scatola azzurra. Il compleanno è domani. Sarebbe stato meglio ritirarla poco prima della festa di compleanno. Ma domani per me sarebbe stato impossibile. Avevo smesso di giustificarmi con mia figlia da anni ormai. È terribilmente triste che si sia abituata. Alla mia assenza. Ai miei ritardi. Alle mie dimenticanze. Tre anni fa mi sono scordato il suo compleanno. Sua madre era diventata furiosa. E Lucia ci era rimasta molto male. Lavoravo da venti anni in uno studio di avvocati molto importante. I nostri clienti provenivano da tutto il mondo. E non dagli ambienti migliori, a essere sinceri. Ma tra noi nessuno era sincero. Mai. Avevamo infangato truffe al fisco colossali, danni all’ambiente incommensurabili, inside trading, tresche con la malavita organizzata di tutto il mondo. Non ne andavo fiero. Ma ormai ci ero dentro fino al collo. Mi sarebbe stato impossibile uscire da questo mondo, anche volendolo. Il problema era che non lo volevo. Neanche gli orari da capogiro, le nottate, i processi interminabili, la tensione, i viaggi all’ultimo minuto, l’assenza forzata da casa, il tempo che non potevo passare con mia figlia. Nonostante tutto questo, mi sentivo corrotto fino al midollo. Avevo smesso di illudermi, di prendermi in giro cercando scuse e giustificazioni. L’avevo fatto per i primi sei anni. Poi si era incrinato qualcosa. Il mio senso del giudizio, il mio metro morale, qualche ingranaggio nella mia coscienza. Non so. Forse i soldi. Che erano tanti, da capogiro. La madre di Lucia, invece, era sempre stata una persona dai saldi principi morali. Almeno dopo l’incidente di quattro anni fa era sempre stata così. Eravamo separati già da qualche tempo e all’improvviso una notte mi chiamarono dall’ospedale. Seroquel, e Zyprexa. Decine di pillole tutte insieme. Era stata trovata per miracolo dalla sorella. Nessuno se lo aspettava. Quante volte avevo sentito quella frase vuota nei discorsi della gente. Il fatto è che nessuno si aspetta mai niente. Un accidenti di niente. O tutto. Oppure ci si aspetta di tutto. Comunque l’aveva fatto e si era salvata. L’ironia è che neanche un fatto simile mi aveva scosso a tal punto da farmi porre domande sulla mia vita, sul mio lavoro da squalo del capitalismo più spietato e violento. Sul mio comportamento di padre assente. Pensavo a cosa ci sarebbe voluto per smuovermi. Neanche Sisifo ci sarebbe riuscito. La pioggia cadeva fitta ora. Il marciapiede era pieno di gente e una selva di ombrelli si schivavano a vicenda gocciolando. Una vetrina illuminata di un ristorante catturò per un po’ la mia intenzione. Un ristorante thailandese, probabilmente aperto da poco perché non l’avevo mai notato. Stavo cercando di indovinare i piatti sul tavolo di una giovane coppia, lei sembrava trattenere delle lacrime. All’improvviso qualcosa urtò violentemente contro la mia spalla. La scatola della torta perse l’equilibrio mentre cercavo di trattenerla, lasciando scivolare all’istante l’ombrello. Qualcuno mi era venuto violentemente a sbattere contro, dannazione. Cercai di trovare il disgraziato tra la folla, ma doveva essersi già allontanato di corsa durante quei pochi secondi in cui avevo fissato sbigottito la scatola della torta per terra. Era finita in una pozzanghera. Non c’era nulla da fare. La torta era andata. Incazzato nero non la raccolsi nemmeno. Cosa avrei detto a Lucia. Mentre i pensieri si sovrapponevano come gli strati della torta appena caduta, la pioggia bagnava il cappello, il cappotto. La mia ventiquattrore. Non sapevo nulla di mia figlia. Qual era il suo colore preferito. Il suo animale preferito. Quali storie le piaceva farsi leggere prima di andare a dormire. Aveva paura del buio? Io avevo paura del buio? Ho ancora paura del buio.



© Veronica Villa



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Un telo cerato può essere una coperta. Può essere un tetto. Una tovaglia. Un muro. Uno scudo. Può essere tanto tutto insieme. Era una delle molte cose che aveva imparato. Rob non ricordava le cose. Un tempo indefinito fa lo avevano picchiato. Era l’ultimo ricordo semi lucido che aveva. Dormiva in un angolo riparato tra un portone di una casa e un cassonetto di quelli arancioni per la raccolta dei vestiti. Si era addormentato da poco. Non beveva. E con quel freddo faceva sempre fatica ad addormentarsi. Ad una certa era stato svegliato da un violento dolore al costato. Poi allo stomaco. Impiegò poco per capire che lo stavano legnando di brutto. Non era la prima volta che succedeva. E aveva imparato che in quei casi doveva solo chiudere gli occhi e immaginarsi lontano, sospeso nello spazio scuro e illuminato dalle stelle, dove asteroidi e comete lo stavano colpendo, provocandogli dolore, ma anche luce e calore. Ci provò, ma questa volta gli riuscì molto difficile. Forse erano in troppi. O forse colpivano troppo forte. Sputò sangue e due denti. Poi perse conoscenza. Rob non seppe quanto tempo era passato, né quando si svegliò. Ore, giorni. Però pioveva, forte. E non ricordava più nulla. Chi era. Da dove veniva. Dove andava aveva smesso di chiederselo da tempo. Dove vanno tutti, forse. La gente era tanta. Provò a chiedere qualche spicciolo. Come al solito lo stigma del tossico era il suo più grande nemico. Ma a chi dare la colpa. Le politiche spietate del lavoro, i licenziamenti a tappeto, la perdita della speranza, i giochi delle colpe, delle responsabilità, la scuola che tutto fa se non insegnare, ma sorvegliare e punire. Era scappato e non era più tornato. Giovane. Molto giovane. Aveva avuto diversi compagni d’avventura in quella città sotterranea. Posti occupati, sistemazioni all’ultimo minuto, pasti mai caldi, una coperta e un abbraccio. Poi gli sgomberi, gli arresti, amici presi uno dopo l’altro. E Rob come un topolino in fuga dentro e fuori da questure, piccole condanne, un foglio di via, discorsi paternalistici del cazzo. E poi di nuovo, per le strade. Quella sera Rob si sentiva particolarmente triste, non per sé, ma per Scheggia, il cane accanto a lui che lo aveva sempre accompagnato. Scheggia non mangiava da una settimana. Una ragazza che spingeva una sedia a rotelle le lasciò qualche spicciolo luminoso. Li raccolse. Rob si fece forza e si tirò a fatica in piedi. Riuscì a raggiungere il negozio di animali più vicino e comprò una scatoletta per Scheggia, la sua preferita, al manzo. Ma quando tornò Scheggia non c’era più. Lo cercò nel vicolo, lo chiamò urlando. Ma non c’era. Forse anche lui aveva scelto la sua strada. Sperò questo per non sperare il peggio. Rob si accasciò a terra, era bagnato. Si avvolse nel suo telo cerato e pianse. Ma nessuno lo vide piangere. Nessuno voleva vederlo. La pioggia non è salata. Se le lacrime fossero dolci avrebbero il sapore dell’acqua di lago.

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