Vertigo | Anna Prosperi
- rivistagelo
- 14 ott 2024
- Tempo di lettura: 4 min
A cura di Laura Scaramozzino
Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?
Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.
Testo di Cristina Pasqua
Illustrazione di Sergio Kalisiak
Ogni sera aspettava che la notte le scricchiolasse dentro per uscire. D’estate teneva le finestre spalancate, iniziava a respirare quando i contorni perdevano definizione e le cose si impregnavano di buio. Solo allora Anna Prosperi accendeva la luce elettrica, tirava fuori dallo stipo della credenza una busta di plastica, la piegava in otto, la infilava in borsa e usciva.
All’inizio era un modo per ingannare il tempo, in seguito era diventato altro. L’itinerario non era mai lo stesso. Se usciva prima, si attardava lungofiume, aspettando che il riflesso della città scolorisse nell’acqua, certe volte si avventurava nei vicoli, altre ancora saliva su, fino alla rocca, per lanciare sassi dal ponte di pietra. Aspettava lo schianto, anche se la caduta era frenata da alberi e rovi.
Di spalle, con lo sguardo al crepaccio, si accorse della presenza del gatto dalla morbidezza del pelo sulle caviglie. Quando iniziò a miagolare, un verso roco, capì che era fame. Non aveva nulla con sé, tranne un tozzo di pane secco da sbriciolare ai piccioni.
«Pissi pissi, gatto…» Si chinò per accarezzarlo. Poteva trattarsi di uno dei gatti dell’albergo dietro la curva, era una bestiola addomesticata. Non aveva paura, non si allontanava, faceva le fusa, si strofinava, le annusava gli stinchi. Anna lo prese in braccio, lo strinse forte a sé, alzò le braccia e lo sollevò in aria, fregò il naso al muso della bestiola, lo accarezzò ancora per un po’ e lo lanciò nel vuoto.
La sera successiva, dopo l’imbrunire, tornò a caccia. Ora i gatti li portava a casa. Con prudenza aspettò una settimana per acquistare in negozi diversi un certo numero di trasportini che sistemò nel sottoscala. Illuminato da una luce fredda, ricordava un garage, i pavimenti e le colonne di cemento e le pareti senza intonaco. Anna chiudeva i gatti lì dentro e li affamava. Arrivati allo stremo, permetteva loro di uscire a turno, uno alla volta. Metodica, sempre nello stesso angolo posizionava una ciotola piena di latte e aspettava. Al momento giusto li finiva con una mazzetta di ferro. In fondo, sull’altro lato, c’era una grande vasca e, ammucchiati sulla parete di fronte una decina di sacchi di calce. Dentro la vasca faceva sparire le carcasse. Era la calce a mangiarle, non lasciava traccia. L’unica rogna era l’odore. Detergenti aggressivi, purificatori d’aria, neutralizzatori, deodoranti per ambienti. Niente da fare. L’odore s’addensava, si faceva corpo, pelo e vibrisse.
«Vieni fuori» urlò Moreno dal cortile.
«Che c’è?»
Anna Prosperi era un’ombra sciatta e malevola con le calze contenitive e la vestaglia scolorita, si indovinava appena un volo sgraziato di pappagalli.
«Che vuoi?»
«Non ci arrivi, Prosperi?» disse e prese fiato. «Che schifo fai?»
«A dire?»
«So quello che fai lì dentro».
«Cosa faccio, dimmelo».
Moreno si passò il dorso della mano sul mento e s’incupì al tocco rasposo della barba. Senza aggiungere altro, s’incamminò verso il suo palazzo, un civico più in là.
Era sera di caccia. Piegò la busta di plastica in otto, la infilò in borsa e uscì. Lungofiume, il Beccio si era ricavato un ricovero di fortuna sotto il ponte.
«Vai a caccia?» La risata untuosa che seguì gli impastò la voce.
«Fatti gli affari tuoi, Beccio».
«Sappiamo quello che fai».
«Ah, sì? E tu?»
«Io non faccio male a nessuno».
«E nemmeno io».
«È da vedere».
Anna masticò parole astiose e proseguì. Dopo pochi passi si fermò. C’era poca luce là sotto, a quell’ora non passava nessuno. Bisognava fare attenzione a dove mettere i piedi, il terreno era sconnesso, s’inciampava facile tra i detriti, le radici contorte, l’erba alta.
«A che pensi, Beccio?»
«Saranno cazzi miei».
Il Beccio non se la passava bene. S’accompagnava a certi che indossavano i cappotti sdruciti e sandali in qualsiasi stagione.
Anna Prosperi fece sparire la mano nella tracolla e accarezzò la mazzetta. Dopo la minaccia di Moreno, aveva rinunciato all’abitudine di ammazzare gatti randagi, ma in posti come quello non le piaceva girare disarmata.
Prese il Beccio di sorpresa, tanto che quello neanche provò a reagire. Veloce, precisa, pulita. Con un colpo solo gli spaccò la testa.
Certo che non poteva andare in giro con le mani e il vestito imbrattati a quel modo. Nel buio incatramato quasi mancava l’aria, la strada impervia, sarebbe stata un’impresa arrivare fino al greto del fiume senza rompersi l’osso del collo. Ma era necessario, doveva levarsi di dosso quella lordura.
Mentre controllava i passi, un piede avanti l’altro, un animale le tagliò la strada. Anna Prosperi inciampò, perse l’equilibrio. Il contatto con l’acqua le tagliò il fiato, annaspò per cercare di tenere fuori la testa, provò anche fare un paio di bracciate, senza riuscire. Non aveva mai voluto imparare a nuotare. Fu così che si lasciò andare, scivolò piano verso il fondo melmoso, il corpo pesante e floscio come le buste di plastica che piegava a sera, la consapevolezza che tutto era finito. Intanto il gatto, un bell’esemplare di soriano, aveva raggiunto il corpo del Beccio. Indisturbato, si era messo a lappare il sangue nel buio che si andava seccando.

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