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Vertigo | Il fervore


 


 

A cura di Laura Scaramozzino


 



Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?

Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.




 

Testo di Gerardo Spirito

Editing a cura di Laura Scaramozzino


 



Attraversò la strada e si incamminò per la mulattiera che costeggiava il fiume. Era il crepuscolo. Tempo grigio, giornata grigia, gli alberi sull’altra sponda vizzi e spogli e cosparsi da baffi di muschio color pietra. Osservò una torma di carpe scivolare nella corrente bassa, scomparire sopra le pietre grigie come i loro corpi e ricomparire e immobilizzarsi e sgusciare e guizzare fra zattere di legno, rami e foglie morte.

Benedetto ritornò a bordo strada e si avviò verso il paese con le mani nelle tasche, gli occhi infossati, la barba lunga di due settimane. A nord, sulle cime più alte, i boschi erano inghiottiti in turbini di bruma, e le taccole e le cince more si abbandonavano alle correnti ascensionali volteggiando e scivolando via con schiamazzi attutiti dal vento.

Percorse un paio di chilometri prima che una goccia di pioggia gli rintoccasse sulla testa, poi un’altra e un’altra ancora. Bestemmiò i santi e continuò curvo e solitario ad avanzare verso il paese. La strada era vuota. L’aria umida. Passò un camion a rimorchio e poi un’auto che si fermò davanti a lui lungo il ciglio della strada. Alla guida c’era un uomo che indossava un cappello di lana. L’uomo si allungò e abbassò il finestrino con la manopola e gli chiese se volesse un passaggio.

Benedetto sorrise. «Se non disturbo».

«Niente affatto. Sei diretto in paese?»

«Sì».

«Sta anche iniziando a piovere. Salta su».

Benedetto aprì la portiera, entrò e l’uomo innestò la marcia. Passò poco prima che la pioggia cadesse copiosa. Assediò la valle e la strada e l’uomo alla guida azionò i tergicristalli.

«Da non crederci» disse. «Sei stato fortunato».

Benedetto accennò un sorriso. Un lampo rigò il cielo bluastro. L’uomo alla guida chiese che cosa ci facesse da solo in strada.

«Ho appena finito di lavorare. La mia macchina è giù alla rimessa. Un problema con il cambio. Mio padre mi ha accompagnato all’andata con la sua ma a quanto pare si è dimenticato di venirmi a riprendere». Benedetto fece un sospiro profondo e l’uomo alla guida lo guardò di sottecchi. La strada era un nastro lucido. La pioggia tintinnava sulla lamiera.

«Posso chiederti come si chiama tuo padre?»

«Michele».

«Michele, come?»

«Quaraiesima».

«Davvero?»

Benedetto annuì. «Lo conosce?»

«Andavamo a scuola insieme». L’uomo tacque, poi ridacchiò. «Il vecchio Michele ha sempre avuto la testa un po’ altrove».

«Già».

«Io sono Adelmo».

«Benedetto».

L’uomo guidava con le braccia rigide, un po’ curvo. «Tuo padre lavora ancora?»

«No, è in pensione».

«Oh».

Benedetto rimase in silenzio.

«Il tempo vola».

«Già».

«A me manca poco alla pensione. Però non lo so. Insomma, mi piace quello che faccio». Si zittì. «Si vedrà».

Benedetto annuì. Puntava lo sguardo altrove, oltre il limite nero degli alberi, dove il mondo pareva nascondersi. L’uomo alla guida lo guardò. «Lavori alle cave?»

«Sì».

«Quale vena?»

«Calce».

Rimasero in silenzio. La pioggia tamburellava sul tettuccio. Minuscole perle d’acqua striavano il vetro del parabrezza. La strada illuminata dai fari. Nelle conche sotto di loro la vegetazione filava pallida e rinsecchita. L’auto proseguì costeggiando il fiume e trapassando boschi di salici, castagni e querce dal legno duro e colline ripide su cui cresceva il granoturco e l’avena selvatica. Poi apparvero le luci del paese.

«Dove ti lascio?» chiese Adelmo.

«Abito alle spalle della ferrovia».

«Va bene».

«Può lasciarmi anche un po’ prima».

«Non ti preoccupare». La voce di Adelmo sfumò in un sussurro. «Michele vive con te?»

«Diciamo di sì». Benedetto girò il collo e guardò fuori dal finestrino. Adelmo restò rigido e immobile, in attesa. «Abitiamo in un edificio a due piani. Io vivo nell’appartamento al piano superiore».

Adelmo annuì, poi svoltò e imboccò la viottola verso la ferrovia. La strada era vuota, i marciapiedi erano vuoti. L’insegna verde di una farmacia lampeggiava intermittente e le luci dei lampioni ai lati della strada erano aloni di rame sfocati. Dopo un po’: «Dimmi tu dove mi devo fermare» e Benedetto: «Qui va bene».

L’auto rallentò fino a fermarsi. Il motore tacque. Benedetto protese la mano verso Adelmo e disse: «Grazie infinite».

Adelmo gliela strinse. «A presto. E salutami tuo padre».

Benedetto assentì e uscì dall’auto. Attraversò di corsa la strada cosparsa di pozzanghere, superò il cortile e si fermò sul patio buio. Si girò a guardare la pioggia. Alla fine della strada un lampione emetteva un fascio bianco. Bussò alla porta. Sua madre venne ad aprire e lo squadrò dalla testa ai piedi. Con una voce incerta disse: «Benedetto».

«Papà si è dimenticato di venirmi a prendere».

Il volto le si contrasse in una smorfia, scosse la testa. «E come sei tornato? Non dirmi che sei rientrato a piedi». La voce le si spezzò in gola. Richiuse la porta e lo aiutò a levarsi la giacca. «Guarda qui, sei bagnato fradicio».

«Mi ha dato un passaggio un uomo».

«E chi è?»

«Uno mai visto prima».

La madre serrò le labbra. «Ma sei impazzito? È pericoloso. Non poteva darti un passaggio uno dei tuoi colleghi?»

Benedetto scosse la testa.

«Qualcuno che aveva finito il turno insieme a te».

«Ho aspettato, ma se n’erano già andati tutti». Si sfilò le scarpe e ciabattò fino in soggiorno, la madre lo seguiva come se fosse la sua ombra. Il padre se ne stava in poltrona a guardare la televisione. La stanza era riscaldata da una stufa. Quando lui lo vide si alzò di scatto. «Scusami». Si appoggiò una mano sulla fronte, gli occhi sgranati. «Mi è proprio passato di mente».

«Che cavolo hai fatto?»

Il padre si grattò una guancia. «Sono passato alla merceria e poi ho fatto un salto alla cantina. C’erano i ragazzi».

«Hai bevuto?»

Il padre fece di no con la testa. «Ci siamo messi a parlare». Sospirò. «Mi dispiace».

La madre guardava il padre accanto al figlio, in silenzio, le labbra dischiuse, gli occhi stanchi. Guardò Benedetto. «Perché non hai telefonato?» e senza aspettare la risposta ritornò al marito. «Lo ha riaccompagnato uno sconosciuto».

«Laggiù il cellulare non prende bene. Ho aspettato fuori la cava mezz’ora, poi ho fatto a piedi un pezzo di strada e a un certo punto un tizio si è fermato e mi ha dato un passaggio in paese». Esaminò il padre. Il fuoco illanguidiva e crepitava nella stufa. Fuori la pioggia si frangeva contro i vetri delle finestre a ogni folata di vento e gorgogliava nei rigagnoli. «Il tizio ha detto che ti conosce».

«Come si chiama?»

«Adelmo».

«La Barbera? Adelmo La Barbera?»

«Non lo so, il cognome non me lo ha detto».

«Ah».

«Andavate a scuola insieme».

Annuì. «Era più piccolo di me di qualche anno». Si lasciò andare di nuovo sulla poltrona, afferrò il telecomando e cambiò canale. «Suo padre era un brav’uomo, un sindacalista. Lui si aprì un negozio da qualche altra parte. Non in paese. Non lo vedo da un po’».

«Ha detto la stessa cosa».

«Ah sì?»

Benedetto assentì, si avvicinò alla stufa, tese le mani verso la canna fumaria nera e impolverata e se le stropicciò. «È stato gentile».

«Sì. È una brava persona».

Fuori la finestra il crepuscolo bluastro avvolgeva gli edifici e i boschi spogli. La pioggia sferzava i vetri delle finestre, un lampo segnò il cielo, il vento furioso sfrecciò e passò oltre, lasciando nell’aria un morso di gelo.

«Quando ti ridanno la macchina?» chiese il padre.

«Domani mattina passo alla rimessa. Spero al massimo dopodomani».

La madre immobile sulla soglia gli chiese se avesse fame.

«Sì», rispose lui.

«C’è del tacchino e ho fatto gli spinaci. Anche le patate».

«Gli spinaci vanno bene».

«Mangi qui o ti porti tutto su?»

«Porto su. Sono stanco. Mi metto a letto».

«Va bene. Ti incarto tutto».

La madre svanì dalla soglia e ritornò qualche minuto dopo con due piatti di plastica coperti con della carta argentata. Benedetto si staccò dalla stufa e le venne incontro.

«Ti ho messo anche due fette di pane» disse lei.

Lui afferrò i piatti e la ringraziò, poi si girò a guardare il padre, che nella penombra fissava la televisione in un silenzio assorto. «Ci vediamo domani».

Il padre alzò gli occhi. «Buonanotte».

La madre lo abbracciò e gli diede un bacio su una guancia. «Mangia tutto».

«Sì».

«Buonanotte».

«Buonanotte».

Benedetto uscì dalla stanza, aprì la porta d’ingresso e se la chiuse alle spalle. Aveva smesso di piovere e il cielo si era scurito. Il vento soffiava freddo e portava con sé l’odore dei boschi: muschio bagnato, humus bagnato, corteccia bagnata. E i boschi lassù sapevano di antico e i terreni erano leghe di selce e scisto e funghi e gli alberi nudi e ritti come femori scarniti.

Benedetto costeggiò la casa e risalì la rampa di scale che portava al suo appartamento. Accostò la porta, cavò la chiave dalla tasca e aprì. Lasciò i piatti di plastica sopra al letto e incominciò a spogliarsi. Fuori la pioggia riprese a cadere e il fulmine a striò e accendere il cielo di una luce diurna. Benedetto si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Le case del paese. Dai camini si alzavano lingue di fumo che salivano avvolgendosi su sé stesse fino a scomparire, e le pozze d’acqua nelle strade cominciavano a ritrarsi e a gelarsi lungo i bordi.

Passò una notte inquieta. La pioggia scese a scrosci. Benedetto si tirò su prima dell’alba, fuori era ancora buio. Andò alla finestra e studiò l’orizzonte in entrambe le direzioni, ma non vide nient’altro che oscurità. Tornò a letto.

 




Si svegliò che il sole affiorava dalla montagna attraverso le nuvole, illuminando i tetti del paese, le strade butterate, i terreni e gli alberi intorno alle strade. Scendeva ancora una pioggia lenta e indifferente. Benedetto la sentiva battere contro pareti e finestre. Girò la testa verso la finestra grigia, poi osservò nella penombra le macchie di umidità negli angoli delle pareti: l’acqua, scendendo dalla modanatura più alta, aveva tracciato lunghe sagome deformi, e sul soffitto, proprio sopra il letto, un’altra perdita aveva disegnato l’impronta di un fiore appassito. Si sedette e si passò una mano sopra gli occhi. Non riusciva a ricordare che cosa avesse sognato, ma aveva la sensazione fosse sgradevole. Si alzò trascinandosi a piccoli passi verso la finestra, aprì l’imposta e annusò l’aria. Fuori c’era odore di fumo. Si fece la barba, si vestì, uscì. Arrivò sotto al patio e si fermò a guardare al di là della strada. La pioggia scendeva debole e il sole rischiarava lo spazio dietro le montagne di una luce dorata, un’ulcera che puntellava l’epidermide del cielo.

Si accese una sigaretta e fumò osservando lungo la strada qualche macchina filare in un fruscio confuso, sollevando l’acqua sporca delle pozzanghere. Nel riflesso pallido del sole osservò un mondo alterato, il cielo, gli edifici, le strade, le montagne e le sagome degli alberi rimodellati per dare forma a qualcosa di nuovo: larici snelli, querce antiche, abeti soffocati dall’edera serpentina, e altri spogli e morti e simili a piovre capovolte. Fumando guardò il cancello rosicchiato dalla ruggine che dava sulla strada e ispezionò un vaso di ceramica alla deriva in mezzo al cortile. La superficie lucente di una pozzanghera rifletteva il mondo: un lembo di cielo strappato. Con uno schiocco gettò la sigaretta e bussò alla porta di casa dei genitori. La madre venne ad aprire, capelli sfatti, vestaglia e ciabatte.

«‘Giorno» disse lui, entrando.

Lei lo baciò su una guancia e gli chiese come si sentiva e lui rispose con un grugnito. Sedettero insieme al tavolo della cucina e la madre gli versò il caffè in una tazzina. Benedetto lo sorseggiò senza mai alzare lo sguardo, in silenzio. La madre gli chiese: «Cos’hai?»

Benedetto la guardò in faccia. Il vapore gli avviluppava il viso. «Niente. Va tutto bene».

«Hai sonno?»

«Un po’».

«Non hai dormito?»

«Ho dormito poco».

La madre sospirò, andò ai fornelli, accese il fuoco sotto la caffettiera e restò in piedi a studiarlo accanto alla tavola da ferro da stiro. Dopo un po’ chiese: «Oggi lavori?»

Benedetto guardò nella tazza, buttò giù l’ultimo sorso e annuì. «Inizio alle due».

«Papà ti deve dare un passaggio?»

«Credo di sì. Prima vorrei passare alla rimessa».

«Per la macchina?»

Lui fece di sì con la testa. La donna spense il fuoco sotto il fornello e si passò una mano dietro la nuca.

«Papà dorme ancora?»

«Sì».

«Dorme sempre fino a tardi, eh?»

«Non è così tardi, dai».

Lui la guardò.

«Potrebbe almeno venire a fare colazione con noi».

«Non è tardi».

«Quando doveva lavorare era il primo a svegliarsi».

«Hai detto bene, quando doveva lavorare».

Restarono in silenzio per un minuto. Poi Benedetto: «E secondo te questo va bene?»

«In che senso?»

«Dovrebbe fare qualcosa». La luce nascente inondò la stanza. «Non può starsene davanti alla televisione dalla mattina fino alla sera». Fece un gesto nell’aria. «Non gli fa bene».

«Ma ogni tanto esce».

Benedetto soffocò una risata. «Esce?»

«Sì».

«E che fa quando esce?»

Lei si irrigidì i tratti del viso. Lui rimase immobile per un istante.

«Quando esce va alla cantina a scolarsi minimo minimo quattro grappini».

La donna sbuffò.

«Lo sai anche tu che questo non gli fa bene».

Le labbra le si stirarono in una linea esangue. Fece una smorfia. «Lo so. Ma ti ho detto che ora non è così tardi».

«Bisogna dirglielo».

La donna afferrò la caffettiera e si riempì la tazzina. Si voltò a guardarlo. «Ne vuoi un altro po’?»

Lui scosse il capo. La madre scostò l’asse da stiro con l’anca e sedette di nuovo al tavolo. Era paonazza. Si portò la tazzina alle labbra e buttò giù una sorsata.

«Dovresti dirglielo».

«Dirgli cosa?»

«Che dovrebbe fare qualcosa».

«Non mi ascolta».

«Se vuoi glielo dico io».

«Non ascolterà neanche te».

«È diventato un automa».

«Un cosa?»

«Un automa».

«Per favore!»

«Dico sul serio».

«Anche io».

Benedetto si alzò di scatto e si fermò sotto lo stipite della porta.

«Dove stai andando?» gridò la madre.

«Lo vado a svegliare».

Lei scosse la testa, gli occhi vuoti e spenti, color fuliggine. «Per favore, torna qua. Non voglio scenate».

«Nessuna scenata. Gli dico di venire a fare colazione con noi».

«Benedetto» emise un sospiro stanco.

«Sta’ tranquilla».

«Benedetto!»

Lui la guardava immobile sotto lo stipite. «Che c’è?»

«Per favore».

«Tranquilla».

Uscì dalla cucina e attraversò il corridoio buio. Arrivò fuori la porta socchiusa della stanza dei genitori e si fermò ad ascoltare, ma non sentì nulla. Allungò una mano e sfiorò la superficie del legno pensando: forse prima devo bussare, forse se entro così dal nulla potrebbe innervosirsi e gridare, ma con un gesto istintivo spinse il battente verso l’interno e fece un passo in avanti. La stanza era immersa in un silenzio religioso. Sapeva di fumo di sigaretta, borotalco e lenzuola sudate. Benedetto rimase sulla porta, cercando di individuare il padre nel buio. Si voltò, come per controllare che la madre non lo avesse seguito. Allora entrò nella stanza. Il letto dei suoi era accostato alla parete esposta a est, con una figura scura coricata sopra. Pronunciò il nome del padre, che restò immobile nel letto. Dopo un po’ sussurrò: «Svegliati». Non ottenne risposta. Si avvicinò davanti al fascio di luce pallida, filtrata attraverso le fessure della persiana. Si fermò sopra di lui. Quel silenzio lo turbava. Lo chiamò ancora distinguendogli le sclere bianche sul volto rugoso, appoggiato al cuscino senza fodera. Da fuori udì per un attimo il ghigno soffocato di una taccola e il rabbioso latrato di un cane. Attese. Allungò la mano e gli sfiorò una spalla. Il padre restò immobile. Gli toccò il braccio disteso lungo il fianco: era rigido e freddo. Lo chiamò ancora, ma il suono della sua voce si perse nell’aria in un brusio soffocato. Alzò la voce di un tono: «Papà, svegliati». Lo toccò di nuovo e prese a scuoterlo. La sagoma annerita nel buio cominciò a dondolare inanimata. «Papà». La voce gli si alzò ancora. «Papà, mi senti?» Raggiunse un’ottava e poi si spense. La luce della stanza si accese di colpo. La madre, immobile sulla soglia, lo fissò impallidita. «Che succede?»

Benedetto le restituì lo sguardo, scosse la testa, e vide la madre cambiare faccia, gli occhi allarmati scattare di lato e la bocca rugosa assumere una smorfia di terrore.

 

Lo sguardo di Benedetto sfiorò il bordo del tavolo e rimbalzò fino alla poltrona dove suo padre era stato seduto fino a qualche ora prima. La mano accanto al bicchiere tremava. La infilò con uno sforzo di volontà in tasca e spostò gli occhi altrove, fuori dalla finestra, dove la luce del sole incendiava gli orli dentellati delle nuvole. Sedeva rigido come una figura incisa nella pietra, gli occhi vuoti. In paese si era già sparsa la voce. Le persone entravano in casa con gli sguardi bassi e sconvolti e filavano dritti nella stanza in cui giaceva il corpo di Michele. Restavano lì qualche secondo e uscivano, le bocche serrate e gli zigomi tesi. Qualcuno, prima di andare via, si avvicinava a Benedetto e gli si fermava accanto leggero come uno spettro. Gli parlavano con sussurri da chiesa e il suono delle loro voci risuonavano in lui remote. Qualcuno tentava di porgergli la mano, ma Benedetto si ritraeva di scatto, senza una parola.

Guardava le cose e i volti logori e ossuti come se stesse avanzando in un ricordo itinerante. ma non il ricordo di suo padre, bensì la sua realtà completa, il peso delle sue parole, la fissità del suo sguardo, il giudizio, l’esitazione che gli faceva sentire addosso quando litigavano. E fuori, al di là della finestra, a quell’ora del giorno ogni cosa brillava di una luce debole, e il sole calava e il buio ammantava le montagne sullo sfondo tetro dell’orizzonte. Era arrivato un vento rarefatto, un’aria rarefatta.

La stanza era diventata buia. In casa non c’era quasi più nessuno. La madre se ne stava accanto alla porta della cucina a parlare con un’anziana del paese. La vecchia stringeva fra le dita un libricino di preghiere che odorava di incenso. Benedetto abbassò le palpebre pesanti, i gomiti appoggiati sul tavolo, una mano gli toccò toccargli la spalla e lui si voltò di scatto. L’uomo se ne stava ritto e rigido davanti a lui come una figura dei tarocchi, il viso scarno, a forma di croce, gli occhi dello stesso colore del cielo al crepuscolo. Benedetto aguzzò la vista e lo riconobbe: Adelmo. Era lì e lo fissava con un’espressione triste, gli occhi spenti. Aprì e richiuse la bocca, si fermò e biascicò: «Condoglianze».

Benedetto annuì lentamente e distolse lo sguardo.

«Uno di questi giorni mi sarebbe piaciuto incontrare tuo padre». Si interruppe. Benedetto percepì una sfumatura di rammarico. «Quando ieri sera sei sceso dall’auto ci ho pensato molto. Intendo a tuo padre. È strano. Non lo vedevo da molto tempo».

Benedetto restò immobile, lo sguardo perso nel nulla. «Grazie».

«Se c’è qualcosa che posso fare per te e per tua madre…»

Benedetto lo ringraziò in modo brusco. L’uomo tentennò e uscì dalla stanza.

Benedetto restò impassibile, l’occhio che saettava tra la finestra e la poltrona nell’angolo. Era come se suo padre fosse ancora lì, seduto nella penombra, a guardare la televisione in un silenzio assoluto. Fuori un succiacapre aveva preso a zirlare. Uno sbattere di ali, un fruscio e ricadde il silenzio. Benedetto strinse i denti, contrasse i muscoli del viso. Serrò la mascella e si alzò, attraversò il corridoio e sfilò accanto alla madre e a un’anziana. Al suo passaggio, le donne si zittirono. Benedetto raggiunse l’anticamera immersa nella semioscurità, allungò un braccio verso l’attaccapanni. La voce della madre gli arrivò alle spalle. «Dove vai?»

Afferrò il giubbotto e se lo infilò.

«Vado a prendere un po’ d’aria».

Fuori, la strada era deserta. Benedetto si allontanò verso il retro della casa piegato, come se cercasse qualcosa a terra. Il suono distante di una risata gli arrivò smorzata dal vento. Alzò lo sguardo. Più in là un comignolo sputava fumi neri e densi. Provò uno sconforto profondo. Si fermò a guardare il cielo immobile: le ombre scomparse, la luce che si dissolveva, priva di sole e piena di tramonto. Banchi di nuvole scure a est. Bisbigliò: «Santo cielo». La strada davanti a lui si allungava nera e umida come la superficie viscida di un serpente.

 

 

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