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VERTIGO | Dessert


 

a cura di Laura Scaramozzino

 


Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?

Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.



 

Testo di Enrico Graglia

Illustrazione di Anna Claudia Castaldo

 



Tutto sembrava finto, nella stanza. Anziché essere accolto dalla parte più vissuta della casa, gli pareva di trovarsi dentro un ambiente espositivo. I mobili laccati di bianco non avevano scalfitture: il tavolo, le sedie, la credenza, la cucina. Era come se nessuno li avesse mai sfiorati. Anche il bianco alle pareti era intonso e così il gres grigio che rivestiva il pavimento.

Strano, ma non abbastanza da far sentire a disagio Edoardo.

Portò la forchetta alla bocca, assaggiando il cibo che gli veniva offerto. Una specialità locale, cucinata con cura da lei in occasione del loro incontro. Selvaggina al sangue, sapore aggressivo, profumo di fieno. Niente contorno.

«Un po’ di vino?», propose Valentina.

Parlava sempre a bassa voce. Modi contenuti, gesti misurati.

Lui annuì.

Gliene versò un calice rosso cupo.

Edoardo masticò la morbidezza sanguinolenta della carne, prima di trangugiarla, e bevve il vino a sorsate. Calice dopo calice, gli si annebbiò la vista. Deglutire sembrava far rumore a chilometri di distanza. La finestra era spalancata sul bosco, le foglie delle acacie e delle querce stormivano appena a un refolo di vento tiepido. Le foto alle pareti erano paesaggi invernali bianchi e neri: scheletri di rami spogli, frammenti di cielo carico di neve, terre brulle, orizzonti piatti.

Chiuse gli occhi e fluttuò in quella desolazione.

«Ti va qualcos’altro?»

«Grazie», scosse il capo Edoardo. Finì il vino.

Valentina si alzò, tolse le stoviglie dal tavolo e le lavò, dandogli le spalle. Lo sciabordio dell’acqua nel lavello lo cullava. Fissò la schiena di lei, scoperta dall’abito elegante, il solco della colonna vertebrale, i capelli scuri sulle spalle candide. Un contrasto simile a quello delle foto, ma caldo e morbido, mentre quelle erano fredde e distanti. Pensò a qualche parola da pronunciare. Non trovò nulla.

Lei chiuse l’acqua, asciugò le stoviglie, riponendole nella credenza. Gesti consueti, di ostentata normalità. Poi si voltò con un sorriso tirato e occhi piccoli, quasi fosse molto stanca, ma felice.

«Dessert?», domandò.

«Volentieri.»

La lama del coltello per la carne scintillava lunga e sottile nella sua mano.




A letto, Edoardo aprì il volume scelto con accuratezza e lesse tre volte la stessa frase. Non si concentrava. Con un sospiro, abbassò il libro. Lo tenne sul petto, uccello ad ali spiegate. Rimase immobile, nonostante la tiepida umidità che gli si diffondeva intorno.

Non credeva sarebbe durato tanto, il dessert.

«È così che lo immaginavi?», aveva chiesto lei, dopo qualche minuto.

«N-non lo so.» Aveva stretto i denti, il sudore che scivolava dalla fronte.

Per tutto il tempo, Valentina aveva continuato a muoversi, metodica, avanti e indietro, spostando in continuo lo sguardo dal suo corpo ai suoi occhi, per vedere che effetto aveva su di lui ciò che stava facendo.

Forse era stato un errore.

Eppure, quando lei gli aveva proposto quel modo di mettere in pratica le loro fantasie, una volta raggiunto il giusto livello di confidenza, a Edoardo era sembrato perfetto. Si conoscevano pochissimo, ma era come se lo sguardo che indagava le sue reazioni lo avesse avvertito su di sé per decenni. Affettuoso e severo al tempo stesso, come si figurava fosse quello della madre scomparsa, a cui Valentina somigliava tanto.

Chi meglio di lei?, si era chiesto.

Inutile ripensarci, ora.

Chiuse il volume, lo appoggiò a fatica sul comodino e spense la luce.

Restò ad occhi spalancati nella penombra per un tempo indefinito, prima di affondare nel sonno.





Si svegliò con un gemito.

Era notte.

Man mano che l’effetto del vino e della sedazione scemavano, il dolore trovava mordente e gli bruciava la carne. Posò il palmo sul ventre, ancora insensibile. C’era una cavità umida, là sotto, dove prima del dessert la pelle era tesa dal gonfiore degli organi interni. Ritrasse le dita, nere di sangue al pallore della Luna, che cadeva sul letto dalla finestra senza tende.

Aggrappandosi alle lenzuola fradice, Edoardo impiegò un’eternità a sedersi. Gli girava la testa e gran parte del suo corpo era intorpidita dall’anestesia. Ansimò, abbassando lo sguardo. Il taglio che gli attraversava il plesso solare era aperto come una bocca in un conato. Gli intestini erano ammonticchiati sul pavimento ai suoi piedi, avvolti su sé stessi in spire bianche, rosse e nere. Lucide.

«Tutto a posto?»

Alzò le pupille dilatate. Valentina era sulla soglia della camera, una sfumatura di rammarico sul viso di porcellana, inclinato a far pendere nel vuoto una ciocca corvina. Indossava una vestaglia leggera, fasciante.

«Io…», gli mancò il fiato per il dolore e non fu più sicuro di voler essere lì. Ma era tardi e strinse i denti. «Devo essermi mosso, mentre dormivo.»

«Aspetta.»

Valentina venne verso di lui. Si chinò, inginocchiandosi tra le sue gambe. Gli prese gli intestini tra le mani e li sollevò, ricollocandoli nella cavità umida del suo ventre, disponendoli con cura, tracciandone il percorso tortuoso con le dita. Lui sentiva quel tocco come qualcosa di deliziosamente intimo. Non guardò di nuovo in basso, ma tenne gli occhi fissi sul viso di lei, le labbra assottigliate dalla concentrazione. Era come un puzzle di budella, sangue e grasso, che stava risolvendo con delicatezza.

«Ecco», annuì Valentina, sollevandogli il risvolto di pelle della pancia aperta, fino a far ricombaciare i lembi della ferita più grave che gli aveva inferto. Soddisfatta, alzò gli occhi e scostò un’altra ciocca di capelli che le si era appiccicata all’angolo delle labbra, agganciandola dietro l’orecchio e lasciando colare un po’ di sangue sul mento. C’era qualcosa di feroce e sensuale nel suo atteggiamento: un nuovo assaggio di dessert, che lo eccitò in modo brutale. Si godette la sofferenza.

«Tieni bene qui», disse lei, prendendogli la mano e premendogliela sul plesso solare, in modo che contenesse gli intestini nella sacca del ventre. «Torno subito».

Si alzò, facendo leva sulle sue ginocchia, e lo lasciò seduto sul bordo del letto, intriso del suo stesso sangue, che ora gli lambiva le piante dei piedi: era tiepido, come acqua di mare in piena estate.

Non doveva esserne rimasto molto.

Edoardo guardò Valentina uscire dalla stanza. Statua d’alabastro in vestaglia, un’ombra a dileguarsi nel buio. Cercò di ingigantire la paura dettata dall’istinto di autoconservazione, perché l’eccitazione scemasse. Si sforzò di pensare in modo negativo a ciò che lo aspettava. Non funzionò. Quando lei tornò in camera con ago e filo, la sua erezione premeva ancora contro i pantaloni del pigiama.

«Scusa», mormorò, mentre lei si chinava di nuovo tra le sue gambe, il nero del sangue ancora sul mento.

Valentina scosse piano la testa. «Non devi chiedermi scusa, lo sai.»

La osservò mentre gli ricuciva il ventre, chiudendo gli intestini dove sarebbero rimasti, se lui non si fosse mosso, rovinando l’opera d’arte di Valentina. La vista del suo volto concentrato, le sue occhiate frequenti lo mantennero cosciente. Il dolore avrebbe dovuto togliergli i sensi, o almeno farlo gridare, invece niente. L’erezione, in compenso, era scomparsa: forse non c’era più abbastanza sangue in lui per gonfiarla. Dopo un numero di punti nell’ordine delle svariate decine, lei tirò il filo con delicata fermezza, lo annodò con gesti precisi, infine strinse. Un’ultima fitta di dolore fu impreziosita dal suo sorriso.

«Ecco fatto.» Tagliò via il filo che avanzava.

Lui si sfiorò la sutura, continuando a tenere con l’altra mano il plesso solare.

«Puoi lasciar andare, ora», disse Valentina.

Obbedì. Gli intestini rimasero al loro posto. «Grazie».

«Di niente».

Lei si alzò. «Ora dormi», disse.

«Credi che possa… riaprirsi?»

Valentina scosse la testa. «No, tranquillo. Sarà comunque perfetto».

«Grazie, davvero. Io non so come… insomma, non so davvero…»

Lei gli mise un dito nero davanti alle labbra. «Sssh, dormi».

Il sonno lo pervase.

Dovette aiutarlo a sdraiarsi, gli poggiò le labbra sulla fronte. Erano calde e morbide, come i capelli sulle sue spalle, mentre lavava le stoviglie. Il bacio affettuoso di una madre delle tenebre e delle lacrime. Poi fu di nuovo lontana. Dalla soglia, sembrò che gli rivolgesse un’ultima buonanotte. Ormai stava annegando nell’incoscienza e lei avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, la vestaglia nera come la casa buia.

Chiuse gli occhi.

Il dolore stava passando. Non c’era più nulla da trattenere. Tutto fluiva. E a quel flusso si abbandonò.

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